T ransmediale è un festival che punta a stimolare la riflessione critica e l’intervento sui processi di trasformazione culturale post-digitale: tre giorni a Berlino di talk, panel, performance e workshop all’Haus der Kulturen der Welt per la trentunesima edizione. Transmediale è integrato da un festival gemello, il CTM, nato nel 1999 e dedicato alla musica elettronica e digitale sperimentale e alle attività artistiche nel contesto della cultura sonora e del clubbing.
L’edizione 2019 di transmediale si inquadra teoricamente a partire dalle structures of feeling, un pensiero definito e sviluppato dal filosofo marxista Raymond Williams tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Si può tradurre prosaicamente “structure of feeling” con la “pasta” di un periodo: i modi di pensare, parlare e produrre cultura in una determinata epoca. Caratteristica delle structures of feeling è il loro continuo divenire: è quindi possibile esaminarle nella loro fase emergente o pre-emergente, nel loro tracciare una traiettoria.
Al cuore tematico di quest’edizione c’è una domanda che attraversa l’intero festival: What moves you? Cosa ti commuove? Ma anche: Cosa ti mobilita? Lo scopo è riflettere sul modo in cui sentimenti e affetti vengano oggettivati nella progettazione tecnologica, e su quale sia il ruolo delle emozioni e dell’empatia nel contesto della cultura digitale odierna. Lo si fa esaminando gli infrastructural affects, definiti dalla teorica dei media Lisa Parks esperienze, sensazioni, structures of feeling generate dall’incontro materiale tra le persone e le infrastrutture mediatiche (dal livello dell’interfaccia a quello dell’hardware).
Non sorprende che uno dei concetti chiave intorno a cui ruotano le riflessioni di transmediale sia quello di intimità. L’idea di intimità è particolarmente sensibile ai mutamenti sociali e culturali, ed è per questo un termometro ideale per tentare di comprendere la structure of feeling del presente. Nella sensibilità occidentale la parola intimità porta con sé l’idea di una forma di interazione che implica vicinanza (fisica, emotiva, o entrambe) ed esclusività: i rapporti intimi sono rapporti privilegiati, che legano ciascuno a un numero ristretto di persone.
L’avvento di internet, dei social media e dei nuovi infrastructural affects che porta con sé, sta progressivamente modificando il nostro modo di vivere e concepire l’intimità: oggi – come discusso nel panel Algorithmic Intimacies – pensiamo possa esprimersi anche nella dimensione pubblica e coinvolgere persone tra loro sconosciute.
Ashley Madison Angels at Work è un’opera del duo artistico ¡Mediengruppe Bitnik ispirata dall’attacco informatico del 2015 al sito di incontri Ashley Madison, un sito canadese dedicato a persone sposate che desiderano una relazione extraconiugale. L’attacco è stato sferrato dal gruppo hacker The Impact Team, con l’obiettivo di portare a galla l’irresponsabile gestione dei dati da parte della società proprietaria. In seguito al fallimento della contrattazione tra gli hacker e il sito di incontri, The Impact Team ha diffuso online un’enorme quantità di dati degli utenti introdotti da questo comunicato:
Avete trovato qualcuno che conoscete? Tenete presente che il sito è pieno di migliaia di falsi profili femminili. Andate a guardare la causa per i falsi profili di Ashley Madison; tra il 90 e il 95 per cento degli utenti attuali sono maschi. C’è la possibilità che il vostro uomo si sia registrato sul più grande sito di incontri extraconiugali al mondo, ma non abbia mai incontrato nessuno. Ci ha solo provato. Se può fare qualche differenza.
Da questo dato si evince come il modello di business di Ashley Madison sia risultato poco attraente per un pubblico femminile. La company non si è limitata a reagire popolando il social media di profili femminili falsi che comprendevano nome, età e un indirizzo specifico (il sito vive secondo un principio location-based), ma di veri e proprio fembot preparati a conversare in diverse lingue.
Il data dump di Ashley Madison ha reso pubbliche anche le stesse funzionalità del sito, dando la rara possibilità a giornalisti e ricercatori come ¡Mediengruppe Bitnik di analizzarne da vicino i principi: “Eravamo curiosi di sapere quanto potessero essere intelligenti questi chatbot, dato che erano riusciti a ingannare gli utenti. Ma è venuto fuori che non erano assolutamente così intelligenti: avevano un copione di 3-4 pagine A4 di frasi da rimorchio, tipo “Sei online? Mi piace il tuo profilo”[…]. Molti uomini hanno poi dichiarato che l’aura vagamente erotica di queste conversazioni era sufficiente per loro”.
Ashley Madison Angels at Work consiste nella rappresentazione su schermo dei fembot presenti nel territorio intorno alla sede della mostra che recitano il proprio copione, senza richiedere una risposta. I volti delle Ashley Madison Angels sono mascherati ispirandosi alle foto dei falsi profili del sito: questo metodo ha permesso alla società di rubarle da altri social media, senza che la ricerca per immagine di Google potesse atterrare sul profilo Facebook della persona la cui identità era stata rubata.
Il claim di Ashley Madison “Life is short. Have an affair” gioca con l’idea sviluppata da Lauren Berlant che, insieme ad altri fattori identitari, “l’intelligibilità sessuale mediata dalla coppia e dalla famiglia […] rappresenti la vita stessa, e quindi senza questa molte persone sentono di non avere, o si dice che non abbiano, una vita”. Secondo quest’ottica, una vita priva di relazioni intime non vale la pena di essere vissuta, e la relazione sessuale, che sia reale o potenziale, ne è il coronamento.
Transmediale ha dedicato un workshop e una discussione alla comprensione di come l’affetto sia reso “infrastrutturale – come sia stabilizzato e canalizzato, fabbricato e messo in circolo – e come siamo indirizzati a certi affetti più che ad altri”. La conversazione preparatoria a queste attività tra la ricercatrice tecnologica Maya Indira Ganesh e l’artista e designer Femke Snelting mette in campo ancora una volta la questione della rappresentazione visiva.
Quello che segue è uno stralcio:
“Maya Indira Ganesh: Fatemi accostare alcune cose che mi sembrano legate tra loro: preti che hanno conversazioni online intime con bot (mi riferisco al caso Ashley Madison); persone anziane affette da demenza che vengono confortate da peluche robot a forma di baby-foca; sistemi di riconoscimento dell’accento; deepfake in cui il tuo volto o la tua voce o il tuo intero corpo vengono mappati e simulati da un software; e persone alienate perché più sensibili al peso del lavoro affettivo.
Femke Snelting: Da questi esempi però sembra che l’idea di compagnia (companionship) non stia poi cambiando molto, forse più che altro il modo in cui viene praticata e vissuta? Voglio dire, continuiamo a pensare che i peluche siano di conforto per le persone anziane. […]
Maya Indira Ganesh: Il prete pensava che il chatbot di Ashley Madison fosse una donna e non un bot. La persona anziana affetta da demenza può non sapere esattamente se stia avendo a che fare con un robot. Gli astronauti che vanno su Marte sicuramente lo sanno, ma sono in una situazione estremamente stressante. Penso che la nostra difficoltà nasca quando la rappresentazione di una macchina è troppo vicina all’umano. Siamo giudicanti rispetto ai sex robot umanoidi e alle persone che li usano. (…) Mi incuriosisce come le persone richiedano e trovino intimità; e che piaccia o no le persone la trovano con script automatizzati.
Femke Snelting: Diventano possibili relazioni parziali e non essenzialiste, che enfatizzano il fatto che l’equità, la similarità, la reciprocità, lo ‘specchio’ non siano indispensabili perché una relazione funzioni. Altre geometrie di relazione?”.
A dare dimostrazione di una nuova geometria di relazione così come suggerita da Snelting è stato uno degli eventi congiunti di transmediale e CTM: il live del producer londinese Darren J Cunningham, in arte Actress, insieme a Young Paint, un “progetto musicale e artistico intelligente” a cui Actress ha lavorato per anni in collaborazione con la Goldmsith University.
Young Paint è un’intelligenza artificiale rappresentata da un avatar alto 1 metro e 83, snello e muscoloso, dalla pelle cromata ma non riflettente. Durante il live, Young Paint si muove nello schermo in ambientazioni anguste, sia figurative – una stanza monocroma, grigia, che si apre al centro dello schermo nero come una scatola – che astratte – un flusso di righe rosse e nere che corrono dietro a Young Paint mentre tenta di schiacciare i tasti di un sintetizzatore senza riuscirci: le sue dita li trapassano come se fosse un fantasma.
Alla conclusione del live, dal petto di Young Paint spuntano perpendicolarmente delle porzioni di cassa toracica. Young Paint ne rimane incastrato, come se fosse infilzato dalle sue stesse costole. Il suo corpo, e tutto il background insieme a lui, pulsa con il ritmo di un cuore.
Actress descrive così quello che definisce il “dramma visuale” di Young Paint: “è uno scorcio della mente del suo operatore, dal suo concepimento a quando è venuto alla luce. A livello figurativo, rappresenta il suo operatore nel mondo digitale”. Ho chiesto ad Actress di descrivermi il suo rapporto con Young Paint in termini affettivi: “In questo momento è piuttosto fitto di goffaggini sgraziate. Tipiche vibrazioni uomo-macchina, con momenti di unione esilarante”.
La creazione di un’AI richiede un lungo periodo di machine learning, di nutrimento attraverso informazioni – nel caso di Young Paint musicali e visive – che crea inevitabilmente un rapporto intimo tra umano e non umano, come suggerisce la risposta di Cunningham. Questa intimità è segnata, non diversamente da un rapporto tra esseri umani, da un’attenta osservazione reciproca, da una conoscenza vicendevole ma sempre parziale.
Questo processo si realizza anche nel rapporto che ciascuno di noi intrattiene con gli algoritmi che guidano i social media ai quali siamo iscritti, o con i nostri assistenti vocali, che a loro volta trasformano e riscrivono il nostro rapporto con le altre persone e con il mondo che ci circonda. Lungi dall’esserne vittime, ci impegniamo attivamente nella costruzione di questo rapporto, come analizzato dalla ricercatrice Taina Bucher nel contesto di Algorithmic Intimacies.
Tornando alla rappresentazione dell’AI, Eleanor Saitta, nel suo intervento all’AI Symposium tenutosi al Castello di Rivoli, analizza quelle che ritiene le due principali modalità di visualizzazione: da una parte l’idea dell’autoesplicativo “God in a box” (Dio nella scatola), dall’altra quello che Saitta chiama il “charismatic megaphone”, cioè un’immagine di forte impatto visivo, come una gigantesca infrastruttura nel deserto o una serie di immagini fotografiche grottesche prodotte da un sistema di generazione automatica. Sono immagini che se poste a cappello di un articolo proiettano immediatamente il lettore nel mondo iconografico connesso all’intelligenza artificiale.
Come le rappresentazioni antropomorfe di Young Paint e delle Ashley Madison Angels, né il God in a box né il charismatic megaphone sono immagini rassicuranti o neutre, e non lo è l’idea del rapporto che intratteniamo con questo tipo di tecnologie. Eppure, come sostiene Lauren Berlant, per comprendere cosa sia l’intimità oggi dovremmo cominciare a chiederci se abbiamo un rapporto più intimo con l’amico che vediamo una volta al mese o con l’algoritmo di Google che coinvolgiamo nella nostra vita ogni giorno.