Q ualche anno fa ho fatto un’intervista ad Antonio Rezza prima che andasse in scena. Erano i tempi di Fratto X, all’epoca il suo ultimo lavoro, e con la generosità che gli appartiene mi disse: “Grazià, io c’ho da sistemà un po’ di cose sul palco. L’intervista la facciamo, ma tu me devi venì dietro”. Così è stato. L’ho inseguito con il microfono per una buona mezzora, mentre lui si arrampicava sulle americane, spostava fari e oggetti di scena, correndo come un forsennato (come fa spesso nei suoi spettacoli). Una volta a casa mi resi conto che l’audio che avevo registrato era inservibile, così abbandonai l’idea dell’intervista e ripiegai su un più classico articolo di presentazione.
Qualche anno più tardi ci ho riprovato. Stavolta assieme a Flavia Mastrella, parte integrante per quanto non visibile in scena di quell’anarchico e bizzarro progetto teatrale che risponde al nome di “Antonio Rezza”. Ancora una volta ci incontriamo in teatro, al Teatro Vascello di Roma, che per molti anni ha ospitato le loro produzioni. Stavolta però chiacchieriamo in modo più calmo. Mi interessava soprattutto capire la genesi del loro percorso teatrale e raccontare, attraverso le loro parole, come hanno fatto degli artisti fuori da quasi tutte le logiche – quelle istituzionali, quelle commerciali, quelle di ricerca – a portare avanti il proprio lavoro.
Il teatro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è qualcosa di completamente fuori schema, difficile da ascrivere a un genere, impossibile da imbrigliare in una qualunque etichetta. Nonostante ciò continuo, più per istinto che per logica, ad associarlo alla scena della ricerca artistica così come si era sviluppata a Roma alla fine del secolo scorso: uno strano connubio di ambienti ed estetiche “off” e “off-off”, sperimentazioni di linguaggio, rapporto col pubblico più viscerale che intellettuale. Un qualcosa che ancora avvertiva su di sé l’onda lunga della cosiddetta controcultura. La causa di questa associazione è dovuta probabilmente all’imprinting che ho avuto rispetto ai loro linguaggi, legato soprattutto ai bizzarri cortometraggi in bianco e nero, figli di una radicalissima adesione alle dinamiche dell’autoproduzione, in un’epoca ancora non toccata dalla versatilità degli strumenti digitali. Credo che da questa conversazione sugli esordi esca fuori un ritratto che giustifica almeno in parte questa mia associazione, ma che lascia anche intravedere quanto persino il loro rapporto con l’off, la ricerca, la controcultura sia stato profondamente “eretico”. O, direbbe forse Antonio Rezza, sinceramente e crudelmente artaudiano.
Avete iniziato a lavorare nel 1987. Come avete cominciato? Dove vi vedevate, dove provavate i vostri spettacoli?
AR: Il comune di Nettuno ci ha dato gli spazi da quando abbiamo iniziato, noi non abbiamo mai chiesto un soldo alle istituzioni, mai. Gli spazi invece sì, e difatti noi ringraziamo sempre il Comune di Nettuno per lo spazio che ci dà ormai da 30 anni.
FM: Io invece devo ringraziare mia madre e mio padre che mi hanno dato uno spazio che è stato lo spazio giusto per me: lì ho potuto fare tutte le cose.
I primi lavori che avete portato a Roma quali sono? E dove avete provato a bussare per farvi ospitare?
Come lo definireste quel vostro teatro degli esordi? Più cabaret o più ricerca?
Ve le ricordate le prime reazioni ai primi lavori? Che diceva la gente?
FM: All’“Al Fellini” però ci hanno messo un filo tirante apposta per noi, visto che alla fine ci andavamo sempre. Hanno fatto i buchi al teatrino per il nostro lavoro.
Quanta gente c’entrava?
Era la fine degli anni Ottanta? E poi negli anni Novanta che è successo?
FM: Cominciavamo ad andare anche fuori Roma, ad esempio a Bologna, al Cassero. Tanti posti diversi con tanta gente viva. Era una bella scena, quella che c’era prima.
AR: Nei primi anni noi non potevamo presentare il nostro lavoro nei Teatri Stabili, perché essendo indipendenti ce lo impediva una legge secondo cui la programmazione di ogni Stabile può ospitare compagnie indipendenti nella misura del 5% della programmazione. Praticamente quelli come noi non ci rientravano mai. Possiamo affermare che, per quindici anni buoni, abbiamo fatto risparmiare lo Stato. Ad ogni modo c’erano altri spazi. Il primo vero teatro ad averci ospitato è stato il San Genesio, nel 1991.
FM: Al San Genesio, a Roma, è andata in scena la prima vera opera che abbia realizzato insieme. Si intitolava Vichinghi elettronici e per l’epoca funzionò piuttosto bene.
Che differenza c’era, in quel periodo, tra il pubblico dei centri sociali e quello dei teatri più o meno stabili? Che impressione avevi quando facevi lo spettacolo al Forte Prenestino?
FM: Antonio s’arrabbiava perché certe volte non reagivano bene.
AR: Mi incazzavo proprio. Li offendevo. Poi invece si è creato un buon rapporto. Poi siamo andati anche all’Alpheus, che faceva delle rassegne e ci ha ospitato anche sul palco grande.
Lì era un pubblico più simile a quello dei centri sociali?
Avevi l’impressione che in quegli anni esistessero proprio due circuiti distinti e non comunicanti? Il teatro ufficiale andava da una parte mentre locali e centri sociali andavano da un’altra?
FM: Però anche quando abbiamo cominciato noi era difficile proporre cose che risultavano strane. Perfino certi centri sociali volevano programmare una sorta di corrispettivo del teatro tradizionale. Per esempio al Leoncavallo di Milano non ci hanno mai ospitato.
AR: Verso il 1996-97 abbiamo cominciato a lavorare col Teatro Stabile delle Marche, sotto la loro protezione, diciamo. A quel punto anche altri teatri stabili si sono aperti, perché pur non essendo noi direttamente sovvenzionati da loro, eravamo entrati in un meccanismo che permetteva agli altri teatri di collocare i nostri spettacoli. Anche adesso, del resto, capita di lavorare così, con il Teatro Vascello a Roma o i TPE a Torino: grazie a loro possiamo accedere a festival e rassegne che sarebbero riservate solo alle compagnie sovvenzionate.
Io ho cominciato a vedere teatro – anche il vostro teatro – in una sorta di circuito alternativo, sicuramente squattrinato, composto da una costellazione di spazi che andava dalle associazioni, ai teatri privati, ai locali fino ai centri sociali. Era un circuito disomogeneo e irregolare, ma in grado di accogliere e far crescere i linguaggi meno conformi e più bizzarri che nascevano nel panorama dell’arte indipendente. Oggi, mi sembra non esista più un ambiente simile. Siete d’accordo?
AR: No, per me non esiste più. Mi ricordo di rassegne all’Alpheus in cui ognuno si esibiva per mezz’ora, nella stessa serata c’erano quattro gruppi per volta. Una situazione molto aperta. Oggi non ci sono più situazioni del genere. Anni fa a Roma ce n’erano decine. Ancora fino a qualche anno fa qualcosa resisteva. La Locanda Atlantide, ad esempio, è andata avanti fino al 2006, se ricordo bene. Poi più niente.
Vorrei parlare dei vostri cortometraggi, che hanno portato il vostro lavoro in televisione. Quando avete cominciato a girarli? La consideravate un’attività parallela, rispetto a quella teatrale?
FM: Antonio dopo ha fatto apparizioni televisive a ogni livello. Una volta persino con la Parietti a Canzonissima. Sono state cose utili per far conoscere il nostro lavoro, perché ogni volta che faceva un’apparizione aumentava di un po’ la gente che ci veniva a vedere. Per noi, che il pubblico ce lo creiamo da soli, è una cosa importante.
Come sono nati i corti?
Quando venne a vedervi Quadri per la prima volta?
Gli anni Ottanta e Novanta erano anni in cui si sperimentava più o meno rispetto ad oggi, secondo voi?
E com’era Roma in quegli anni?
A che condizioni?
È corretto dire che i vostri esordi erano a metà tra il mondo del cabaret e quello del teatro?
E il pubblico del cabaret come reagiva? Si aspettava cose diverse?
Qual è lo spettacolo che considerate la svolta della vostra carriera?
Torniamo ai corti. L’idea da dove è arrivata?
FM: Esistono, in realtà. Ma non si vincono né soldi né materiali. Quindi è inutile.
AR: Noi vincevamo soldi e materiali. Come diceva Morandini, eravamo dei cassaintegrati dei festival. Con quei soldi aggiornavamo le risorse tecniche, continuavamo a girare spendendo quei soldi per lavoro. Oggi, per un cineasta che comincia ora, questo meccanismo non esiste più. Il Festival di Torino, che era l’emblema dei festival indipendenti, adesso è un’altra cosa.
E vi mantenevate col vostro lavoro di artisti?
AR: Io avevo fatto Francesco Mosè che è il primo spettacolo che Flavia ha rielaborato insieme a Massimo Camilli. Poi facevo le serate di Satiria con Mauro Fratini alla Locanda Atlantide. Poi quando ho conosciuto Flavia, nel 1987, il teatro pian piano è diventato un discorso ossessivo. Flavia è stata il mio maestro. Lei già da quando aveva 16 anni lavorava nell’arte e nel settore creativo, faceva delle tirate di 10-12 ore al giorno. Per me, che non conoscevo metodi di lavoro, sembrava inconcepibile. Poi ho iniziato a provare interesse verso questa “ottusità” e da quel momento lì è partita la giornata di 16 ore di lavoro. Stando vicini quel periodo lavoravamo sempre.
E dal punto di vista economico era sufficiente?
Flavia parlava di uno stop produttivo prima degli anni Duemila. Mi racconti com’è andata?
Secondo te la televisione sperimentava di più in quegli anni? Oppure lo spazio che vi hanno dato è solo frutto di caso e fortuna?
Anche in teatro pure succede questo, secondo te? Chi sperimenta, dopo che si è fatto strada ritorna nei ranghi? Da giovani incendiari e da vecchi pompieri?
Ci sono degli artisti delle generazioni più giovani che vi piacciono? C’è chi vi cerca per chiedere consigli?
E tu cosa gli rispondi, quando ti cercano?
FM: Ad ogni modo, quando degli artisti più giovani ci cercano, li aiutiamo. Antonio gli spiega alcune cose io altre.
AR: Flavia può entrare nell’aspetto più tecnico-teorico del teatro. Io posso parlare più dell’energia e del ritmo. Ad esempio, di come da una sala piena esca un’energia diversa, che permette allo spettacolo di fare degli scatti ulteriori di maturazione.
Della tua generazione quali sono gli artisti che senti più affini?
E rispetto al mondo della ricerca teatrale?
FM: Abbiamo vissuto una grande solitudine rispetto a quel mondo. Sono rimasta molto delusa dal quel periodo.
AR: Anche con i festival il rapporto non è stato buono. Quando la triade Teatro delle Albe, Motus e Raffaello Sanzio – che sono più o meno della nostra generazione o poco prima – erano una presenza costante al Festival di Santarcangelo, noi eravamo sistematicamente esclusi dalla programmazione. Qualche volta abbiamo chiesto perché non ci invitavano e c’era sempre una cazzo di scusa. Che lo spettacolo non era pertinente al tema, cose così.
E secondo te perché?
Con la critica le cose andavano meglio?