P er arrivare alla casa trasparente, quella con le vetrate più grandi, bisogna camminare su una stradina che si arrotola come un serpente e lasciare l’auto nel garage, che è un mostro pronto a inghiottire le macchine parcheggiate davanti a case che non sono disposte in fila, non hanno un davanti e un dietro, e sono tutte diverse. In provincia di Reggio Emilia c’è un piccolo quartiere progettato interamente dai bambini. È l’unico in Italia. Nascoste in un angolo della pianura emiliana, Le Coriandoline di Correggio sono geolocalizzate tra via Luzzati e via Malaguzzi: tra lo scenografo genovese che sapeva creare un mondo fantastico partendo da smalti, carte e tessuti e il pedagogista dei primi asili comunali per le madri lavoratrici. Qui le strade sono serpenti e i lampioni sono uccelli. C’è la casa trasparente “così quando piove si può vedere fuori lo stesso” e quella morbida, con i muri curvi come le onde e uno scivolo da usare al posto delle scale. Di fronte c’è la casa “con il tetto sugli alberi” e la casa-fienile “come quella del nonno”, quella “preziosa” dove si possono creare giochi di luce al suo interno e quella “dura, perché se viene il terremoto non si rompe”. Grandi, intime, dure fuori e morbide dentro: le case viste dalla prospettiva dei bambini sono così. Lo hanno detto loro, una ventina di anni fa.
“Una ricerca aveva appena dimostrato che la parola più usata dai bambini non è mamma, ma casa. Ma qualcuno ha mai chiesto loro se le case in cui vivono rispondono davvero alle loro esigenze e aspettative?” mi racconta Luciano Pantaleoni, l’architetto che nel 1995 decise di fare un esperimento con ad Andria, la cooperativa di costruzioni di cui era presidente. Insieme alla pedagogista Laura Malavasi coinvolgono insegnanti e bambini in un lavoro di ricerca collettivo che durerà quasi cinque anni: settecento bambini (età dai tre ai cinque), dodici scuole, cinquanta maestre e una ventina tra architetti e geometri, impegnati a interrogarsi su quali siano davvero i bisogni e i desideri abitativi dell’infanzia. Perché – questo il loro motto – gli adulti sanno abitare solo case fatte di mattoni, i bambini invece abitano le idee di casa. “Se chiedi a un adulto come vuole una casa, lui ti inizierà a parlare di volumi, di metri quadrati e prestazioni energetiche” dice Pantaleoni. “Se lo chiedi a un bambino, ti dirà che la vuole magica e preziosa. Perché i bambini dicono in modo diretto quello che vorrebbero dire anche gli adulti, ma non hanno stereotipi e sovrastrutture. Non hanno paura di dire quello che pensano, anche ciò che può sembrare assurdo e impossibile. E, soprattutto, non pensano di certo a quanto può costare.”
Il progetto doveva portare però a costruire case vere, abitate e abitabili, e non a giocattoli: “Il rischio era quello di creare case surreali, invivibili. Le parole sono belle ma le case si fanno di pietra”, racconta Pantaleoni. “Lo spontaneismo, l’ingenuità, il naifisimo sono soluzioni banali a temi complessi e non era quello che volevamo.” La sfida era dare una forma ai pensieri dei bambini: pensieri espressi sì in forma di desiderio, ma che dichiaravano un bisogno reale. E questo andava preso sul serio. “Non abbiamo chiesto ai bambini di progettare soluzioni e non gli abbiamo dato la matita in mano per fare gli architetti. Ai bambini è stato chiesto di essere bambini, agli adulti di prendersi la responsabilità di ascoltarli.”
A guidare la ricerca e la progettazione, terminata nel 2001, i principi dell’architetto olandese John Habraken (che ha teorizzato la partecipazione degli utenti alla progettazione delle abitazioni di massa) e la Grammatica della fantasia di Gianni Rodari (“Le case possono parlare / se qualcuno ha tempo e voglia / di starle ad ascoltare. Naturalmente / bisogna fare / la domanda giusta”). Le insegnanti hanno provato a giocare con più domande, a scombinare più volte le carte in tavola: “Nel momento in cui la risposta era immediata, capivamo che era la più banale e non andava bene. Dovevamo trovare altri interrogativi, che aprissero nuovi scenari.” Il risultato sono plichi di trascrizioni di conversazioni e ore di registrazioni su audiocassette, che trovano sintesi nel Manifesto delle esigenze abitative dei bambini: un decalogo di aggettivi per descrivere case che ancora non esistono.
Trasparente. “Vorrei dei muri trasparenti”, spiega Rocco. Valentina invece vuole un “tetto di vetro, per vedere il cielo e gli uccelli”, Gabriele un soffitto che si apre quando c’è il sole e si chiude quando piove. Una casa che lascia vedere “attraverso” è una casa senza muri: non deve finire, deve dare la possibilità di essere dentro e fuori contemporaneamente per vivere i cambiamenti, le stagioni, l’evoluzione del tempo. In tutte le finestre delle Coriandoline sono stati abbassati i davanzali (per essere ad altezza di bambino) e i parapetti sono diventati trasparenti. Le tende, le griglie, i vetri colorati servono a giocare con la luce, a creare effetti magici.
Dura fuori. La casa deve essere un luogo sicuro, protetto, dove i cattivi, i lupi, i fulmini e i terremoti non possono entrare. Le paure rimangono chiuse fuori. Che sia un bisogno sociale o un bisogno primordiale, la pelle deve essere dura, anche se l’interno è morbido. La Casa torre, il condominio più alto del quartiere, vigila sulle altre case. La Casa castello ha un muro costruito interamente in ferro “così i cattivi non ci entrano”. “Sai perché lo voglio di ferro? – spiega Stefano – Perché non si spacca mai.”
Morbida dentro. “Io vorrei una casa tutta di lana, così posso mettermici dentro e scaldarmi” (Greta). Una casa morbida non è altro che una casa accogliente, un luogo dolce e ospitale: un posto senza spigoli e con pochi angoli. Ma anche un posto dove giocare con i particolari, osare con i colori e con i materiali: “Io la vorrei tutta di spugna, i mobili di spugna, le pareti di spugna”, dice Jennifer. “La voglio così, perché così diventa morbida.”
Decorata. “La mia casa la vorrei di un altro colore, perché bianca non mi piace” (Fabrizio). Le case del quartiere sono tutte colorate in maniera diversa, come i coriandoli appunto. Sulle facciate ci sono le illustrazioni di Lele Luzzati, che ha disegnato personalmente tutti i prospetti e le decorazioni esterne. Non le vedrà mai terminate, perché morirà nel 2007, un anno prima dell’inaugurazione. “I fiori, i bambini, gli alberi che sorreggono i tetti. Luzzati era una persona dolce ed era fatto per questo progetto, ci ha creduto fin dal primo momento”, racconta Pantaleoni.
Intima. “Vorrei realizzare un sotterraneo, è il mio desiderio” (Riccardo). Non ci si pensa spesso, ma anche i bambini vogliono godere la propria solitudine: un nascondiglio, un rifugio “buio, per custodire gli amici e i propri segreti” (Giulia), un luogo dove sostare e pensare a quello che si vuole. Questi spazi sono i sottoscala, i sottotetti. In uno di questi c’è una finestra sul soffitto, per guardare le stelle.
Tranquilla. I bambini chiedono di vivere in un luogo “non trafficoso” (Milo), un ambiente libero da rumori, dove seguire i propri tempi, senza orari e ritmi definiti rigidamente. Alle Coriandoline le macchine restano fuori dal quartiere: i garage sono letteralmente seppelliti da due colline verdi, diventate orti aromatici; le porte di ingresso sono state dipinte per diventare due bocche spalancate che si “mangiano” le auto e le restituiscono la mattina, quando i grandi devono andare a lavorare.
Giocosa. “Ha delle scale e una specie di scivolo”, spiega Mattia. Nella Casa torre a fianco delle scale c’è uno scivolo vero lungo quattro piani. L’ascensore è fatto di specchi deformanti e a ogni piano una vetrata decorata disegna un paesaggio diverso. Uno dei cartelli più diffusi in assoluto, spiega Pantaleoni, è quello che vieta il gioco del pallone. Qui il divieto non esiste. Nella corsia interna dei garage (“la pancia del mostro”) sono stati disegnati un campo da tennis e un campo da calcio. Androni, atrii e cortili sono ripensati come spazi di gioco.
Grande. Non è solo una dimensione spaziale: una casa grande può contenere tante persone, tante cose, tante idee. “Vorrei degli altri letti, così quando vengono i miei amici possono stare lì”, dice Giulio. Matteo vuole “tanto spazio intorno”, Filippo “un grande giardino”. La Casa fienile ha degli archi molto alti, la Casa dell’arcone ha una vetrata così ampia che sembra di essere sotto a un grande portico. I bambini non mediano tra desideri (volere) e possibilità economiche (potere): “La mia casa la voglio grande grande. Ci voglio tutto, tuttissimo” (Stefano).
Bambina. Stefano Benni immaginava una casa alta sei bambini e larga quattro bambini, con un pozzo profondo dieci bambini. La “misura” delle abitazioni deve tenere conto delle dimensioni dei piccoli, che sono diverse da quelle dei grandi. Un bambino vuole essere riconosciuto, vuole una casa che sia alla sua altezza e dove possa lasciare traccia di sè: senza sgabelli o senza dover stare sempre in punta di piedi. “Vorrei una porta piccola per me, una grande per mamma e papà” (Giordano); “Voglio una casa con i mobili scelti dai bambini” (Giulia); o, più semplicemente, “Vorrei un campanello con la scritta del mio nome”. Alle Coriandoline i campanelli sono tutti decorati e tutti diversi (e possono includere i nomi di cani, gatti e pesciolini rossi).
Magica. Un muro che ti trasporta nel tempo, porte che scompaiono, pareti che si allargano. I bambini chiedono luoghi imprevedibili, magici, pronti a sconvolgere la loro monotonia. Non potendo sfidare le leggi della fisica, le case del quartiere sono state tutte dotate di un nuovo spazio: l’Atelier, che ogni famiglia può trasformare in un laboratorio secondo i suoi gusti e le sue inclinazioni. “Un luogo del possibile, di quello che ancora non c’è ma può diventare.”
“Se avessimo riunito tutte queste caratteristiche in un’unica abitazione, ne sarebbe uscita una casa assurda e impraticabile”, racconta Pantaleoni. “Costruendo un quartiere, però, diventava possibile.” Nel 2008, a più di dieci anni di distanza dall’inizio della ricerca, la cooperativa di costruzioni Andria (dal nome di una delle città invisibili di Calvino) mette in piedi venti abitazioni, dieci appartamenti e dieci case singole, sulla base quelle indicazioni fornite dai bambini. “Il tempo è stato fondamentale, non c’è mai nell’edilizia.” Un tempo di ricerca che è valso al progetto il Premio Peggy Guggenheim “per la scommessa coraggiosa e poetica di leggere il mondo quotidiano attraverso gli occhi dei bambini e per aver valorizzato, nella concretezza del fare casa, sogni e progetti d’una migliore qualità della vita”.
Oggi, dopo mesi di lockdown che hanno chiuso genitori e figli tra mura trasformate in emergenza in uffici e classi, si dice saremo costretti a ripensare la dimensione degli spazi pubblici e le planimetrie delle nostre case. E forse le indicazioni, suggerite dai bambini di vent’anni fa, si ritroveranno a calzare bene le vesti degli adulti di oggi. “Quanto abbiamo pensato in questi mesi alla trasparenza, alla necessità di guardare fuori, di avere a tutti i costi un contatto con la natura, di poter vivere le stagioni e lo scorrere del tempo, mentre eravamo costretti a stare immobili nei nostri appartamenti?” Abbiamo sentito il bisogno di dormire in luoghi che ci rappresentassero, che ci affascinassero, per sentire che il posto dove eravamo obbligati a stare in qualche modo ci rispecchiasse. Abbiamo comprato piante per rendere gli spazi accoglienti, chiuso le porte per cercare forme di intimità, aperto le finestre per allargare le metrature. “Intima, grande, trasparente. Vedi? Loro lo avevano detto già molti anni fa. Perché alla fine i bambini dicono quello che anche i grandi vogliono, ma lo dicono prima.”