D urante la dominazione sabauda in Sardegna, il diritto di proprietà del suolo venne scisso da quello del sottosuolo, tramite l’istituzione di una legge mineraria emessa per facilitare l’ottenimento delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti. Il provvedimento si dimostrò efficace e richiamò l’interesse di numerosi imprenditori, fra cui Paolo Antonio Nicolay, posto alla guida della neonata Società di Monteponi Regia Miniera, sostenuta da capitali liguri. Nei pressi di Iglesias, nel sud-ovest dell’isola, i giacimenti di Monteponi divennero presto fra i più produttivi del regno.
Nel 1899, vi fecero visita i sovrani Umberto I e Margherita di Savoia, per poi proseguire il loro viaggio verso nord e recarsi a Sassari per l’inaugurazione del monumento dedicato a Vittorio Emanuele II. In quell’occasione, la città si preparò a celebrare l’arrivo dei regnanti con una sfilata in abiti tradizionali, presentandola come una parata le cui origini avrebbero dovuto risalire alla precedente dominazione spagnola, piuttosto che come una celebrazione allestita appositamente per i Savoia. Dopo una decina di anni dalla visita in Sardegna dei reali, nella zona mineraria del Sulcis-Iglesiente l’esercito regio sparò sui manifestanti aderenti a uno sciopero indetto dai minatori, che protestavano contro l’inasprimento degli orari di lavoro. Molti furono i feriti, due i minatori morti sul colpo; un altro perse la vita a causa delle ferite d’arma da fuoco. In risposta a quello che si ricorda come l’eccidio di Buggerru, ai quali se ne sommavano altri avvenuti in Puglia e in Sicilia, venne istituito il primo sciopero nazionale della storia italiana.
In Sardegna venne istituito il primo sciopero nazionale della storia italiana.
Oggi, la provincia del Sulcis Iglesiente non è più a vocazione mineraria e risulta essere una delle più povere della Sardegna, nonostante i tentativi di riqualificazione e riconversione turistica. Di contro, la parata inaugurata con i Savoia, che prende il nome di Cavalcata Sarda, venne ufficializzata nell’immediato dopoguerra, allo scopo di mostrare, stavolta ai turisti, l’eterogeneità delle tradizioni, l’eleganza dei ricami e la ricchezza dell’artigianato locale. Alcuni momenti di una delle prime edizioni della sfilata sono stati montati assieme ad altri materiali audiovisivi concessi sia da Sardegna Digital Library – Regione Autonoma della Sardegna, sia dall’Archivio Fiorenzo Serra (degli eredi Simonetta, Antonio e Paolo) per Il pubblico bene, la performance che ritualizza la presa di coscienza collettiva dei processi coloniali, dalla prospettiva isolana. Uno spettacolo frutto della relazione fra teatro, musica dal vivo e il montaggio di materiali d’archivio, che sta portando la questione sarda da Roma a Bordeaux.
Verso la seconda metà della performance, sullo schermo si proiettano i filmati della Cavalcata sarda. Si ritraggono le tribune provvisorie, installate nel centro di Sassari. Alcune donne a cavallo tengono le redini, sfoggiando cascate di grossi bottoni in filigrana fissati lungo gli avambracci. Le immagini scorrono, mentre percussioni taglienti e suoni caldi si articolano su una restituzione elettronica del cuncordu, un canto simile a quello a tenore, e di alcune campionature di Abacada (2002), il primo album da solista del cantautore Andrea Parodi. Il commento sonoro alle riprese d’archivio proviene dal synth modulare, rivolto verso lo schermo e suonato in live da Martino Corrias, in piedi davanti alla consolle, tra gli spettatori e le spettatrici della performance. Al suo fianco, Simone Azzu sta per riprendere parola tramite un testo al contempo gergale e poetico, intimo e politico, che ha i contorni di una forma di aderenza a una protesta.
Per tutta la durata dello spettacolo, Il pubblico bene sta nella contraddizione fra ciò che è delimitato come “pubblico” e ciò che è valorizzato come “bene”. Tuttavia, laddove anche il “pubblico” è capitalizzabile, il titolo può essere interpretato non solo come il capovolgimento dell’idiomatico “bene pubblico”, ma anche come l’espressione con la quale si manifesta l’intenzione degli autori, che si esibiscono in mezzo alla platea. Il proposito è quello di creare relazione e non di rivolgersi a una massa ordinata e passiva. Al pubblico come insieme di consumatori, si preferisce il fare comunità. Ciò che solitamente si intende come “pubblico bene” è assimilabile all’immagine di eruditi cultori del teatro e dei concerti, che stanno seduti composti, in silenzio. Una tale postura, per contro, dovrà necessariamente essere abbandonata dai fruitori di una performance, durante la quale si alternano le confidenze e le riflessioni di una voce che Azzu incarna, senza recitare. Le sue parole fluiscono prive di una fonte evidente, come se potessero essere pronunciate da uno spettatore qualsiasi, seduto accanto a lui.
Al pubblico come insieme di consumatori, si preferisce il fare comunità.
Il testo de Il pubblico bene non è filtrato dal corpo dell’attore, ma dal rimbalzo fra le immagini della Sardegna di un’altra epoca e lo sguardo del pubblico contemporaneo, guidato dalle onde sonore provenienti dal synth. Alle riprese d’archivio dei pescatori sulle rive del mare accanto alle nasse di giunco, corrispondono suoni distesi, ai quali Corrias dà corpo lentamente, lavorando sulla timbrica con onde triangolari, ricche di armoniche. Un passaggio nel quale dal synth gonfio e leggero, si procede verso bassi molto più profondi, che stavolta cadenzano i movimenti di una folla di contadini, immortalati in bianco e nero. In mano stringono picconi e pale; sullo sfondo solo terra brulla, massi e macchine agricole. Azzu si introduce facendo suo il vano sacrificio e il grido soffocato dei lavoratori proiettati sullo schermo. Sono chini mentre dissodano la terra dove sono nati e che da sempre appartiene a qualcun altro: “Sarà una vita all’avventura. Sarà una vita all’arrembaggio. Sarà una vita a lavorare per gli altri.” Intanto, i bassi spingono sullo stomaco degli spettatori, ma non sovrastano mai il performer, e creano un movimento ondulatorio, come una continua cascata di suoni il loop, fino a scemare.
Poi, la musica si ferma. Dall’ambientazione contadina, si passa ai faraglioni e ai pinnacoli bianchi che frastagliano il blu del mare del Golfo di Orosei, dirompendo fra i cespugli di ginepri e lentischi. Un commento, quasi sussurrato, sui paesaggi della costa tirrenica rompe il silenzio: “Questa vista in America se la sognano. Dovremmo prendere questa pietra, incorniciarla e portarla al Guggenheim e dire che bel posto. Farle una bella fotografia, metterla all’aeroporto di Cagliari e dire che questo è un paradiso.” Sono le immagini che aprono un filmato risalente alla metà degli anni Ottanta, in testimonianza delle demolizioni di alcune costruzioni abusive edificate nella zona tra i comuni di Baunei e Dorgali, nel montaggio video curato da Claudia Virdis. Una ruspa butta giù una delle strutture a picco sulla costa e le sonorità diventano industrial techno, prendendo il sopravvento sulla voce.
L’intera performance procede per rifrazioni oscillanti date dal climax proprio del testo, della musica e dei filmati. Il registro linguistico è sia colloquiale, sia colto; la forma è della poesia libera combinata a quella in rima. Il messaggio politico sul colonialismo è espresso nei termini intimi e politici del senso di appartenenza. Anche le sonorità si mescolano fra loro, restituendo la medesima dialogicità con paesaggi sonori fuori dal tempo, tra movimenti di batteria e la reinterpretazione del folk isolano, campionato e attraversato da sintetizzatori polifonici. Il contrasto dialogico di parole, suoni e immagini scongiura esotismi o mitizzazioni, setacciando con fermezza ogni forma di romanticizzazione della storia, lasciando che resti solo il sentimento.
La performance, che non degenera in spettacolo, assume la funzione pre-storica del rito.
Le parole hanno il potere di risignificare le immagini, come le immagini hanno la forza di trascinare lo sguardo verso orizzonti di un’altra epoca, immerse in un paesaggio sonoro mutuato dalla tradizione e, al contempo, vicino al ritmo dell’esistenza contemporaneo. Un rapporto tensivo fra passato e presente, dove i corpi dei performer e lo spazio che occupano sono, a loro volta, oggetto di risignificazione orientata al ritorno verso quella che Jerzy Grotowski definiva la condizione di attivazione osmotica fra il corpo e la sua essenza, in una sorta di dimensione pre-razionale. In questo senso, la performance, che non degenera in spettacolo, assume la funzione pre-storica del rito, nel quale i corpi si attivano verso un sentire che va al di là delle estetizzazione dei ruoli sociali e pertanto, più prossimo all’essenza.
L’esperimento messo in atto con Il pubblico bene prende le mosse dal pensiero di Grotowski, Bourdieu e Csordas in un movimento di ritorno verso la funzione originaria del teatro e di corpo teatro, nell’accezione di Jean-Luc Nancy. I corpi dei performer insieme a quelli degli spettatori, nello stare in uno spazio del quale si riappropriano attraverso il rito, tornano nella condizione essenziale dell’esistenza. Tale processo di riacquisizione sensoriale ed esistenziale, deve fare necessariamente a meno di ogni terminologia escludente. Nello specifico, seppur il colonialismo in Sardegna e le sue involuzioni capitalistiche costituiscano lo sfondo politico e storico della performance, il lavoro di Azzu e Corrias non ha alcuna funzione di una denuncia; piuttosto, lo scopo è di riformare un sentire comune.
Il rito è il dispositivo culturale pre-religioso per fare comunità, attraverso i corpi e il loro relazionarsi. Pertanto, Azzu non è attore, ma poeta e performer, così come Corrias. Il linguaggio che adoperano e la scelta di confondersi fra gli spettatori seduti in platea hanno lo scopo di criticare, attraverso l’atto performativo, l’impossibilità del pubblico di esprimersi. Allora, chi ha diritto di parola, chi può esprimersi in un lamento alienato, lo fa per tutti. In Il pubblico bene il performer diviene mezzo o veicolo canalizzatore di una condizione esistenziale propria di chi non può scegliere dove stare, quale spazio occupare, ed è già sempre costretto a migrare dal centro alla periferia o dalla periferia al centro, poiché ciò che è definito come bene pubblico non è per tutti, ma solo di chi lo ha stabilito. Basti pensare a cosa accade per pochi mesi l’anno in Sardegna, durante la stagione estiva. Sulle coste dell’isola, sia i sardi assoggettati dal turismo di massa, sia i turisti sono accomunati dalla medesima condizione di impossibilità rispetto al godimento di un bene che dovrebbe essere pubblico. Così come il vento che soffia sull’isola e le distese sconfinate di terre incolte, non appartengono ai sardi e alle sarde, ma sono oggetto di contesa fra le multinazionali delle energie rinnovabili, perché il bene pubblico e ciò che è bene per la comunità è stabilito al di fuori della comunità stessa, entro le logiche di mercato.
Ciò che è bene per la comunità è stabilito al di fuori della comunità stessa, entro le logiche di mercato.
Il pubblico bene, attraverso l’agire poetico, trascende la specifica questione sarda, adoperando un linguaggio capace di trasferire il sentimento di profonda impotenza dinanzi all’ineluttabilità del passato e del suo incessante ripresentarsi. Nei primi momenti della performance, dinanzi alle riprese di un alluvione, che devastò la Sardegna meridionale nel 2008, gli spettatori ascoltano le confidenze di una serie di telefonate private fra Azzu e i suoi parenti. Sullo schermo, il fango e la devastazione a danni delle abitazioni e dei campi; nelle orecchie di chi ascolta, le parole di un figlio che da Bologna annuncia ai suoi genitori di tornare dal loro, da una delle terre più inquinate d’Europa, verso quella che si promette essere come un paradiso incontaminato. Il contrasto è prepotente e spontaneo, espresso in un linguaggio infarcito di espressioni dialettali al quale si oppongono, nel passaggio successivo, le immagini di Fertilia, città progettata dal regime fascista. Alla vista delle geometrie squadrate dell’architettura littoria, Azzu cita il Pro Scauro, dove Cicerone definiva i sardi come animali vestiti di pelli, i sardi pelliti, e aggiunge: “Siamo sempre stati colonia.”
Su più livelli, la consapevolezza riguardo ai rapporti storico-dialettici del colonialismo è risvegliata dall’’eterogeneità dei linguaggi. Il loro tessersi assieme lascia che immagini semplici come l’acqua, che circondando limita, impedisce e protegge, possano evocare la consapevolezza ancestrale di quale sia l’origine della condizione di chi è da sempre appartenente a una terra di conquista. Il colono si chiede “come si fa a sopportare tutto questo spazio, tutto questo silenzio”, l’indigeno invece patisce “questo volersi così tanto bene”. Il senso di appartenenza è un sentimento gravoso: per l’indigeno migrare in via definitiva è impossibile, vittima perfino delle narrazioni nelle quali gli stessi nativi colonizzati restano intrappolati. I sardi e le sarde sono come Tiresia, che indovinano a quali miti appartengono e che “ci determinano come frutti di astri e voleri universali”. Spesso, l’estetizzazione e l’esotizzazione della Sardegna è rafforzata dagli stessi isolani, facendo il gioco di chi capitalizza le tradizioni antiche come attrazioni a cinque stelle. Di nuovo, il bene pubblico non è per tutti. Volersi bene non fa bene a tutti, alla comunità, ma al capitalista, all’imprenditore, a chi vuole mantenere cristallizzato il rapporto con quel “povero mužik gallurese” che ha svenduto le sue terre agli ideatori della Costa Smeralda, poiché “un popolo se non sa contare, non può neanche avere, neanche desiderare”.
Gli intellettuali alimentano un immaginario folkloristico svilente, ma funzionale alla promozione del turismo regionale.
Il climax dell’intera struttura compositiva è reso definitivamente esplicito dal tuono di parole e note che Azzu e Corrias rilasciano in uno degli ultimi passaggi della performance. Non si risparmiano gli intellettuali, accusati di esprimersi “senza il segno di una parola detta fuori dal mercato” e che alimentano un immaginario folkloristico svilente, ma funzionale alla promozione del turismo regionale. Non si risparmiano nemmeno gli abitanti del settentrione d’Italia, scimmiottando quei luoghi comuni, difficili da scardinare, di chi ha imposto la propria egemonia culturale tale per cui “Milano è Milano perché ha lavorato”, mentre i sardi del loro bene, della loro terra, non sanno che farsene, senza i coloni.
Il contesto è quello di una messa in scena spoglia, per la quale l’elementarità della strumentazione rende la performance facilmente replicabile, con l’obiettivo di arrivare laddove, solitamente, non prende posto il “pubblico bene”. Andando in questa direzione, dopo una lunga tournée tra Francia e Italia, sono in via di definizione le date per le prossime esibizioni, col sostegno di SHIP – Centro di Produzione Culturale, della Compagnia Meridiano Zero, con la collaborazione di DAS – Dispositivo Arti Sperimentali e del Circolo Sardegna Bologna.
Il testo di Azzu e le musiche di Corrias raggiungeranno ancora le piazze e i teatri fuori dalla Sardegna, in contesti dove Il pubblico bene vira da performance ad assemblea pubblica, senza che gli spettatori possano uscire del tutto dal rituale appena messo in scena. Il proposito dei performer, manifestato dalla prossemica, si concretizza nella creazione di uno spazio comune, dove lo scambio fra gli interpreti e gli spettatori si accende sulle questioni coloniali e decoloniali, superando la relazione consumistica tra lavoratore dello spettacolo e utente degli eventi culturali, in un tornare alle origini che ha l’intenzione di riscrivere la storia, stavolta senza escludere gli ultimi.