C laude Vorilhon, 72 anni, nato in Francia a Vichy e meglio conosciuto col nome di Rael, porta i capelli un po’ più lunghi della norma. Li tiene legati con un codino che termina in una “cipolla”. Nel 1975 era ricomparso da un supposto viaggio interplanetario del quale aveva poi raccontato in un libro. Tornato sulla Terra, aveva cominciato a farsi crescere barba e capelli e nel frattempo aveva fondato il Movimento raeliano. Nella foto in copertina sull’edizione italiana del libro la barba è generosa, tondeggiante. Gli dona. I capelli sono in piena crescita. Nello scatto Rael è il ritratto di un’esplosione irsuta (e gioiosa): una massa di bambagia nera preme dall’interno del corpo per sbucare dai follicoli, peli che vogliono sentire la luce del sole. Per Rael si trattava di un cambio d’immagine funzionale a testimoniare sui rotocalchi e alla tv francese l’epifania di una trasformazione interiore. Ma non solo. Secondo Rael, infatti, il sistema pilifero, con la sua rete composta di milioni di canali e terminazioni, poteva essere utilizzato allo scopo di trasmettere emozioni e pensieri. Del resto, avendo il capello una conformazione tubolare, era lecito vedervi le sembianze di un cavo, di un mezzo conduttore. Il capello, nel caso dei raeliani, è considerato uno strumento a servizio della comunicazione telepatica, grazie al quale, soprattutto, possiamo dialogare con gli Elohim, cioè i non terrestri che da millenni abitano il lontano pianeta visitato da Rael.
Il trentesimo anniversario del viaggio spaziale venne celebrato nell’ottobre 2005, al chiuso del palazzetto dello sport di Sierre, un piccolo comune svizzero del Canton Vallese. Ero presente e ricordo che un certo numero di raeliani e raeliane portava i capelli lunghi, stretti dentro un elastico o legati in trecce molto elaborate. Alcune raeliane sfoggiavano acconciature magnifiche. Queste sorte di antenne, inerpicandosi nel vuoto, sembravano offrirsi come omaggi scultorei ai fratelli e alle sorelle Elohim. Ne parlai tra le pagine di un libro pubblicato ormai molto tempo fa e ripubblicato un po’ più di recente, Figli delle stelle, che scrissi anche come omaggio a un famoso romanziere francese: Michel Houellebecq. Nel passaggio del testo in cui raccontavo della passione raeliana per i capelli, ebbi modo di citare le parole di Marco Patton. Chi è Marco Patton? Un barbiere e uno studioso delle proprietà del capello, un iridologo naturopata, un consigliere comunale a Trento (nel gruppo dell’UPT, partito d’ispirazione cristiano-sociale) e un maratoneta; dunque un uomo impegnato su fronti diversi, e perciò, voglio dedurre, pieno di energia e proteso alla conoscenza. Tuttavia, sinceramente, all’epoca non sapevo nulla di Patton.
Mi era soltanto per caso capitato, un mattino in un bar, di leggere una sua intervista, che avevo ritagliato e conservato, pubblicata il 24 febbraio 2006 su Il Giornale. In quei giorni la pattinatrice Carolina Kostner era stata protagonista di una brutta caduta nel corso di una gara alle Olimpiadi di Torino. Secondo Patton un po’ c’entravano i capelli: “La pettinatura era troppo chiara, la piega poco morbida e asimmetrica, suscettibile di provocare scompensi energetici”. Può sembrare un’affermazione bizzarra, ma l’acconciatura nel pattinaggio ha un qualche peso estetico e rituale, quindi, in una misura relativa, non può non incidere sull’esito della performance. Ampliando questo suo ragionamento, Patton diceva anche che
la cute è una componente vitale del nostro organismo e una sua alterazione può provocare una trasformazione dello stato psicofisico energetico interiore. La colorazione dei capelli, per esempio, provoca un cambiamento della personalità e quindi serve del tempo, almeno un paio di giorni, per riequilibrare la situazione psicofisica dell’organismo.
A distanza di oltre dieci anni dalla prima pubblicazione de I figli delle stelle, qualche mese fa ho ricevuto un’email. Era di Marco Patton. Mi comunicava di avere saputo del libro e di averlo letto. Il fatto di aver letto il suo nome citato in un libro di cui non sapeva nulla, gli aveva procurato una certa soddisfazione. E meraviglia. Ci siamo sentiti per telefono. Non gli ho nascosto che anch’io, ricevendo la sua email, avevo provato un certo stupore. L’email di Patton era, in fondo, come un vecchissimo ritaglio di giornale che si rianimava e parlava. Avrei voluto comunicargli nella nostra lingua un concetto che, sul momento, riuscivo a sintetizzare solo grazie a un’espressione della lingua inglese: “you’ve made my day”. Patton, poi, m’informava che lui stesso aveva scritto un libro e che gli avrebbe fatto piacere spedirmelo.
Dopo qualche giorno il libro è arrivato dentro una busta gialla imbottita, dov’è rimasto per qualche mese, fino a quando un pomeriggio a Milano, di ritorno dalle vacanze, ho deciso di sfilarlo dalla busta. S’intitola Il capello. Organo sensoriale vitale alla vita dell’uomo nella visione olistica. Titolo non certo affascinante, penalizzato da una ridondanza – “vitale alla vita” – che però forse, involontariamente, accredita il coinvolgimento totale di Patton nella propria esistenza, e in tutto ciò che la vita offre in generale, dato che oltre a essere un consigliere comunale e un maratoneta, cioè qualcuno a cui piace sentire il cuore che batte e il contatto della terra che scorre sotto i piedi, Patton è uno che ha ricavato dalla propria professione, il barbiere, la possibilità di studiare i fenomeni biologici fino a ricavarne una serie di teorie. Non è da tutti.
Il capello è un testo specialistico, arduo, un po’ scoraggiante per chi non si occupa di chimica, medicina o cosmetica: è tratto dalla tesi discussa nel giugno 2009 presso l’Accademia Galileo Galilei di scienze igienistiche naturali di Trento. Ho voluto provare a sfogliarlo, anche se di tanto in tanto mi distraevo, o una frase offuscata da termini ostici del vocabolario della chimica organica, come “idro-lipidico-acido”, mi costringeva a riprendere il periodo daccapo. Allora ho cominciato a leggere tra le righe e su quella carta lucida, tra le righe, ho trovato la storia della mia vita. Per lo meno della mia vita recente. Non me ne rendevo esattamente conto, ma in questi anni in cui ho superato i quaranta, oltre a dovermi confrontare con questioni deprimenti, oltre a dovermi affacciare su baratri insospettabili a venti o trent’anni, soffrivo per i miei capelli, che spesso ho esaminato davanti allo specchio, restando orripilato. Grazie alla lettura de Il capello di Patton ho cominciato a scoprire che, volendo, avrei potuto raccontare tutta la ultraquarantennale parabola della mia vita a partire da ciò che ne è stato dei miei capelli e da cosa io ho fatto dei miei capelli e da ciò che i capelli hanno fatto di me. Si tratta di un passaggio metamorfico, gravido di notizie… però non l’avevo mai preso in considerazione.
Nell’introduzione al libro, Patton dichiara di aver ricevuto gli insegnamenti più preziosi sulla professione non da un barbiere, ma da un calzolaio con cui aveva stretto amicizia da ragazzo. Il calzolaio sosteneva di essere in grado di vedere controluce la storia di una persona, di poter guardare dentro la biografia di un cliente. Come? Osservando il tasso di consumo delle sue scarpe e il modo e il punto esatto in cui le vecchie scarpe si erano logorate. Questo calzolaio gli confidò che la gente lo riteneva una specie di zerbino, per via di una professione così umile come quella del calzolaio, ma aggiungeva che lui, prima di essere un calzolaio, pensava a sé stesso in quanto uomo.
Patton non lo dice, ma quando il calzolaio usa la parola “uomo”, io credo che il calzolaio intendesse qualcosa di simile a “filosofo”, cioè qualcuno che tiene desta in sé quella facoltà comune a tutti gli esseri umani, ma in alcuni sopita e in altri meno, che consiste in un istinto elementare per l’osservazione e per la conquista della conoscenza, che matura tramite lo studio delle cose, anche di quelle più pedestri e quotidiane, come può esserlo la tomaia di un mocassino degli anni Sessanta o la basetta di un cliente da sfoltire. “Dalla mia lunga esperienza lavorativa ho compreso che quando una persona consuma le scarpe limandole all’esterno significa che è emozionale e fragile. Invece quando le consuma più all’interno è prevalentemente razionale. Quando le consuma creando una fossa nell’interno allora ha problemi alla colonna vertebrale, ecc.”. Patton, così, impara da un altro artigiano una lezione di “sguardo” e la applica giorno per giorno nella sua bottega di barbiere.
“Telogen” è una parola che incontro per la prima volta nell’intestazione a un capitolo della tesi di Patton. Potrebbe essere il nome di un pianeta in un romanzo di fantascienza Urania, magari un pianeta tutto ricoperto di ghiaccio, e invece, scopro, il Telogen segue alle fasi Anagen e Protanagen e indica nel ciclo pilifero il periodo in cui il capello, pur trovandosi ancora radicato nel follicolo, si schioda mano a mano dalla testa e cade, muore, finisce sul colletto o lo si avvista tra una piastrella e l’altra in bagno. Il “Telogen effluvium”, invece, indica una caduta diffusa e improvvisa dei capelli. Può verificarsi come conseguenza a un forte stress, così come nel corso di una chemioterapia o dopo il parto. La parola che invece ha cominciato a riguardarmi personalmente, ormai da qualche anno, è “canizie”. Intorno ai quarant’anni i miei capelli castani – sono, anzi erano castani in virtù di una più alta percentuale di piombo, apprendo – hanno iniziato a imbiancare e diradarsi, a incanutire. Lo stesso vale per la barba, ormai del tutto bianca. Quasi albina dopo una giornata al mare in estate.
“La perdita dei capelli”, scrive Patton, “avviene per lo più in modo caratteristico; sono più resistenti i capelli dei margini laterali e dorsali, mentre cadono prima quelli delle zone centrali del cuoio capelluto”. Come documentato in non più di dieci o venti fotografie, mio padre ha cominciato a perdere i capelli molto presto: a trent’anni era già calvo. Si potrebbe scrivere una storia della vita di mio padre, di mia madre, di mio fratello, e quindi della mia famiglia, solo partendo dai capelli. Mio padre non era e non è del tutto calvo, in realtà, se non in quelle che Patton chiama “zone centrali”, mentre ha sempre lasciato crescere i capelli lungo le zone laterali e dorsali, quasi a cerchiare l’isola del cranio, forse per enfatizzare la rotondità lucida e quindi evocare ciò che sotto la cute è contenuto e ogni istante lavora, fabbrica ipotesi, concetti, congiunge immagini e informazioni poeticamente, o in vista di uno scopo immediato.
Se penso a un modo altrettanto fiero di portare la “chierica”, lasciando che i capelli nelle regioni laterali crescano liberamente, mi vengono in mente gli esempi, tra gli altri, dello scrittore Philip Roth e del cantautore Leo Ferrè. Philip Roth sembra invitarci a guardarlo non solo dentro il doppio pozzo di quegli occhi implacabili con i quali ci scruta dalle foto, ma in mezzo alla fronte e alla pelata. Dentro, sotto la fronte e la pelata. Come se dicesse: guardami, questa è la cassa rivestita di epidermide nella quale sono stati contenuti i miei pensieri e l’embrione di ogni mio libro. Per ciò che riguarda Leo Ferrè: nelle foto in bianco e nero nelle quali lo vediamo gridare dentro un microfono, Ferrè sembra squarciare l’aria e cantare non solo con la gola, ma con tutta la colonna vertebrale e con la massa ossea del cranio incoronato da lunghi capelli grigi.
Ho cominciato a perdere capelli, così come a volte, in questi ultimi anni, guardandomi con attenzione allo specchio, alcune ciocche lungo l’attaccatura della fronte mi sono sembrate bruciacchiate. Inoltre i capelli, che una volta sembravano rispondere all’azione del pettine, o per lo meno a un ordine spontaneo, hanno iniziato a disobbedire e a spingere con ostinazione in avanti. Un impazzimento del muscolo “pilo-erettore”, suppongo, è stata la causa di questo cambio nel comportamento dei capelli, che da un certo punto in poi non si sono più lasciati pettinare all’indietro, ma hanno preso a stirarsi verso la fronte. Patton dice che chi porta la fronte libera è “una persona che affronta la vita senza paura”, che chi si pettina con la riga nel mezzo “ama vivere in un’atmosfera equilibrata e armoniosa” e che chi porta la riga a destra è aperto e ama stare in movimento. La frangia, invece, serve a proteggerci dal mondo e la riga a sinistra appartiene a chi si fa molte domande, in genere, sulla propria vita. Quando nel 2015 Patton è stato invitato in Vaticano per l’inaugurazione della barberia dei poveri, sotto il colonnato del Bernini in piazza San Pietro, un clochard inglese si è raccomandato che i capelli gli venissero tagliati a ciocche, senza pettinarli, dato che voleva continuare a testimoniare la sua scelta di non conformarsi alla società.
Patton non lo dice, ma quando il calzolaio usa la parola “uomo”, io credo che il calzolaio intendesse qualcosa di simile a “filosofo”.
Il giorno di fine agosto in cui ho aperto la busta gialla imbottita che conteneva il libro di Patton, ho trovato un altro regalo. La busta, infatti, includeva un secondo libro. Il titolo è Dalla nausea all’indifferenza. L’autrice è Francesca Patton, cioè la figlia di Marco. Si tratta della pubblicazione per l’editore Àncora di una tesi di laurea in “Filosofia e linguaggi della modernità”. Anche la tesi di Francesca, come quella di suo padre, era stata pubblicata. Dalla nausea all’indifferenza è un saggio intorno a Jean Paul Sartre e Michel Houllebecq.
È stata una vera sorpresa, dato che Houellebecq è il romanziere che nel 2006 mi aveva spinto a scrivere il libro sul Movimento raeliano nel quale avevo citato l’intervista a Patton. A pagina 75, parlando di uno dei due protagonisti del romanzo di Houellebecq Le particelle elementari – Francesca scrive che “Bruno […] ha ‘la sensazione di esser stato derubato della sua giovinezza’. Questa percezione nasce dai nuovi valori sociali che portano l’individuo alla frustrazione, alla mancata accettazione della vecchiaia e all’opprimente desiderio di poter tornare a vivere da adolescente”. Come non riconoscermi anche in questo specchio? Per Michel Houellebecq l’individuo, così come la coscienza, è un prodotto di leggi sociali e biologiche: questa verità elementare espone l’individuo di fronte alla sua nullità. Anche secondo Sartre l’essere umano è messo di fronte al vuoto, ma nella libertà che può offrire a sé stesso, c’è la possibilità di dare senso alla propria vita. Dal poco che ho intuito di Marco Patton, mi sembra che Patton abbia una personalità più vicina all’uomo descritto da Sartre che non a quello di Houllebecq.
Specie quando Patton decide di farsi, un po’ a corsa e un po’ in bicicletta, tutto il Sentiero della Pace: cinquecento chilometri dallo Stelvio alla Marmolada, per ricordare, a suo modo, la guerra del ’15-’18 e le migliaia di soldati che caddero su quel confine. Secondo Patton – lo scrive nella tesi quasi all’improvviso, senza un’apparente relazione con il resto del discorso – nell’esplosione generata dall’incontro tra uno spermatozoo e un ovulo si genera un’“onda”, ovvero la forza vitale che accompagna l’essere generato per tutto il corso dell’esistenza. Per quale ragione, quindi, memorizziamo le parole di un calzolaio, prendiamo una licenza e apriamo un negozio di barbiere, alziamo e abbassiamo ogni giorno la saracinesca, ci candidiamo a consigliere in Comune, corriamo la maratona, studiamo da naturopata iridologo, prendiamo una tesi in scienze igienistiche e ci appassioniamo alla natura organica del capello? In fondo lo spiega lo stesso Patton: perché “l’onda è la forza vitale che costituisce la crescita cellulare, fetale, e progressivamente, l’essere umano”.