I ntravedo la forma nera da lontano, in una domenica prenatalizia, passando per la piazza vuota davanti al centro pastorale dell’Università commerciale Luigi Bocconi. Piove, mi avvicino alla sagoma di acciaio. Le giro attorno, calpestando la terra fradicia e spappolata dell’aiuola. Sembra una sorta di utensile, di grattugia enorme e bruna poggiata in verticale. Che cos’è? È il monumento a Roberto Franceschi. Non è la prima volta che lo vedo, ma oggi gli sono di fronte, solo, io carne senziente davanti al manufatto. È uno di quegli incontri assoluti che una pandemia e una città deserta, a quanto pare, sono in grado di combinare. La storia del monumento a Roberto Franceschi non è molto conosciuta, anche se il designer Enzo Mari lo ha definito “il più bel monumento di Milano”.
Ma chi è Franceschi? Intanto non è l’unico destinatario dell’opera. Il 23 gennaio 1973 Roberto Franceschi viene colpito da un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia. Indossa un maglione a collo alto bianco, che potrebbe essere servito da bersaglio allo sparatore. Il proiettile lo raggiunge allo sfenoide, l’osso a forma di farfalla alla base del cranio. Insieme ad altri compagni, Franceschi aveva protestato contro la decisione di limitare l’ingresso per una prevista assemblea del Movimento Studentesco ai soli iscritti della Bocconi, vietando l’entrata ad altri studenti e lavoratori. Lo sparo parte quando la mischia con la polizia è già terminata. Otto giorni più tardi, il 31 gennaio, Franceschi muore, a vent’anni. Ai funerali partecipa una folla enorme, più di centomila persone. Il fotografo Uliano Lucas ritrae un gruppo di giovanissimi, dei quali colpiscono l’espressione e la posa perfettamente unanimi e modellate dall’occasione, cioè dal lutto e dal grigiore avvolgente della giornata invernale. Un’intera generazione di adolescenti milanesi, negli anni che verranno, imparerà le parole di una canzone: Compagno Franceschi.
Franceschi è uno studente modello, brillante e stimato, diplomato al liceo scientifico Vittorio Veneto con sessanta sessantesimi e militante dell’organizzazione Movimento Studentesco. A diciannove anni ha già letto Il Capitale di Karl Marx. L’aspetto è quello di un uomo adulto. Alla Bocconi studia Economia Politica, ma nelle foto a me sembra che Franceschi abbia l’aria pulita, compita e affidabile di un dottore, di un medico. In uno scatto, che potrebbe essere quello usato per il documento d’identità, indossa una giacca e una cravatta fantasia, intonata con la pochette nel taschino. In un’altra foto scattata a Parigi, in occasione di un corteo contro la guerra americana nel Vietnam, porta un cappotto montgomery sopra una giacca e una camicia. La postura perfettamente eretta del corpo, con le spalle allineate ai fianchi e alle caviglie, fa pensare a un incedere placido e regolare del piede, comodamente fasciato nel mocassino di pelle. Un passo dopo l’altro, forse dopo un pasto leggero (illusioni del mezzo fotografico: sembra di poter immaginare perfino la digestione in corso e il buon metabolismo di quel corpo a figura intera), mentre il corteo sfila senza fretta sopra il famoso pavé parigino. L’immagine di Roberto Franceschi si discosta da quella tramandata del sessantottino o post-sessantottino, arruffata e turbolenta, con la barba alla Fidel Castro e l’eskimo verde con la cintola e i bottoni di metallo a pressione.
Il 23 gennaio 1973 Roberto Franceschi viene colpito da un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia. Indossa un maglione a collo alto bianco, che potrebbe essere servito da bersaglio allo sparatore.
La storia della famiglia Franceschi, e in particolare di Lydia, la madre, merita una digressione. Come ricostruito in una biografia uscita lo scorso anno, Perché non sono nata coniglio (un progetto collettivo, generoso e speciale, che meriterebbe, a sua volta, un discorso a parte), Lydia è nata a Odessa, in Russia, dove durante il fascismo suo padre Amedeo Buticchi e lo zio Antonio erano scappati. In Russia i due finiscono vittima del clima di sospetto scatenato dalla lotta interna al bolscevismo. Mentre lo zio viene spedito in Siberia, Amedeo e Lydia riescono avventurosamente a tornare a Milano, dove nel 1935 Amedeo verrà ucciso a pistolettate dal cognato, fascista. La madre di Lydia, invece, era morta pochi giorni dopo la nascita della figlia, in circostanze poco chiare, forse legate all’attività di rivoluzionaria nella città di Odessa. La precoce scomparsa dei genitori, e la difficoltà nel ricostruirne il burrascoso passato, sommate alla morte del figlio Roberto, da una parte condannano Lydia a un’esistenza segnata dalla elaborazione del lutto, dall’altra la innalzano a testimone vivente del Novecento e di un dramma personale e famigliare.
A Lydia Franco Fortini dedica nel 1974 una poesia, scritta su carta velina e rimasta inedita: Alla madre di Franceschi con la rispettosa riconoscenza. Fortini rivede in Lydia sua madre. Per Franceschi la commissione musicale del Movimento Studentesco pensa a un canto di lotta, che verrà scritto da Franco Fabbri e alla cui registrazione partecipano gli Stormy Six. Compagno Franceschi diventa un inno nei cortei che a cadenza settimanale invadono Milano lungo tutti gli anni Settanta, per il diritto alla casa o contro il carovita. Franco Fabbri descrive così la struttura e i riferimenti musicali del brano: “[…] una strofa alla russa, il ritornello che non si perita di echeggiare nientemeno che il Te Deum di Charpentier […]”. Insomma, dal Parnaso le muse si mobilitano e s’interessano alla vicenda milanese del giovane Franceschi. Nel caso del monumento, si muovono con particolare circospezione; sembra di vederle, pensose, mentre girovagano tra prati e sorgenti e dopo una piroetta si sforzano d’immaginare un progetto di monumento per lo studente ucciso. Il passaggio dall’ideazione alla posa del monumento, in effetti, è lento, tormentato e rimbalza tra le sponde di approcci e concezioni estetiche diverse. Eppure, sono proprio il cammino e il processo di creazione a fare del monumento a Franceschi una storia eccezionale.
Nel luogo in cui Franceschi muore viene creata una modesta aiuola con al centro una lapide di marmo: “Qui è caduto, il 23 gennaio 1973, di fronte alla sua università, Roberto Franceschi, mentre combatteva per la democrazia nella scuola e per il socialismo”. Ma l’aiuola diventa bersaglio di più episodi di vandalismo. Un giorno Lydia trova sulla lapide una corda con un nodo scorsoio e un biglietto: “Per i Franceschi”. È così che matura l’idea di ripensare a un monumento vero e proprio, a un nuovo segno, che ricordi non solo Franceschi ma, universalmente, gli altri antifascisti caduti sotto i colpi della repressione poliziesca. Gli studenti della Bocconi e il Movimento Studentesco prendono contatto con lo scultore Alik Cavaliere, che ha lo studio nei pressi della facoltà e conosce perfettamente la vicenda. È tutto raccontato nel volume Che cos’è un monumento, disponibile sul sito della Fondazione Franceschi. Altri artisti vicini agli ambienti della contestazione hanno in quegli anni i loro studi tra Porta Romana e Porta Ticinese. Un anno dopo il delitto, si riunisce un comitato molto numeroso, dove convivono sensibilità spesso diverse, al quale aderiscono, tra gli altri, oltre al Movimento Studentesco e qualche collettivo, il designer Enzo Mari e gli artisti Paolo Gallerani, Lino Marzulli, Fabrizio Merisi, Pino Spagnuolo e lo stesso Alik Cavaliere. I bozzetti, inviati da più soggetti, presentano caratteristiche diverse. Alcuni si ispirano al realismo socialista, altri sono più astratti. L’artista Alberto Scalas propone un gruppo scultoreo con operai e rivoluzionari armati di fucile e chitarra, secondo quell’iconografia prevalente, fatta di armi brandite e capannoni industriali col tetto a dente di sega sovrastati da giganteschi pugni chiusi, che andava per la maggiore sui muri di Milano.
Per sbloccare la situazione, viene nominata una commissione ristretta, su proposta di Enzo Mari. Contemporaneamente, la discussione si apre anche agli operai di alcuni stabilimenti di Sesto San Giovanni. È in questa fase di allargamento che il progetto viene plasmato da una suggestione vulcanica, metallurgica, che risale dall’universo collettivo e senza nome del lavoro operaio in fabbrica.
“Dopo la discussione con gli operai”, ricorda Enzo Mari in Che cos’è un monumento:
si decise di non seguire le ingenue proposte emerse, ma di scegliere un grande manufatto dell’industria come simbolo della partecipazione operaia. Cominciammo a visitare depositi di rottami industriali […] Quando una fabbrica cambia le attrezzature, una parte viene gettata direttamente nelle fornaci, ma macchine molto grandi o componenti suscettibili d’essere riadattate o reimpiegate, sono conservate in attesa che qualcuno le acquisti […] Questi manufatti per materiale e dimensioni hanno un fascino particolare. Una sensibilità di questo tipo era nata in me perché, come progettista, avevo vissuto nelle fabbriche e sapevo della grande qualità intrinseca del lavoro operaio. Ciò è evidente, ad esempio, nelle lavorazioni delle fonderie, o nella realizzazione dei prototipi in cui gli operai manifestano non solo la capacità di costruire, ma la cultura del fare. Gli ingegneri, in molti casi, arrivano dopo… spesso la loro funzione è solo quella di ratificare […] visitammo parecchi depositi. […] trovavamo interessanti le forme di molti grandi manufatti e nel frattempo riflettevamo sul fatto che un oggetto dovesse essere più “astratto” […] Ricordo di aver osservato a lungo una di quelle grandi tenaglie costituite da un becco a quattro punte, che vengono usate per sollevare materiali eterogenei o rottami ferrosi e che esprimeva un’immagine quasi espressionista di cattiveria, di purezza.
Dopo aver scartato l’idea di recuperare alla Breda un mastello di ghisa (oggetto di venerazione e motivo d’orgoglio operaio, per il fatto che nel 1917 un lavoratore vi era precipitato da una passerella ed era finito inghiottito dal fuoco), alla fine viene individuato e acquistato per trecento lire al chilo un gigantesco maglio industriale, di sette metri di altezza e del peso di cinquanta tonnellate, fabbricato in Germania nel 1941 e impiegato in diversi paesi europei. Ecco trovato il monumento a Franceschi: un ready made, nutrito di lavoro e storia materiale, sfornito di ogni connotazione ironica e intellettualistica da orinatoio duchampiano. “La forma del maglio” racconta Enzo Mari, “ci convinse subito, sia per le sue proporzioni architettoniche di grande monolito, sia per il fatto che simbolicamente è un martello gigante, il simbolo primario del lavoro, da gran tempo intrinseco all’araldica della sinistra. Insomma, identificammo l’oggetto adatto, l’opzionammo e, dopo aver raccolto i fondi necessari, lo comprammo […] Decidemmo di non effettuare alcun intervento plastico e di non modificare l’oggetto, se si eccettua l’eliminazione di qualche bullone e di qualche parte sporgente”. C’è nel discorso di Mari l’eredità di una cultura per la quale la fabbrica è sì il luogo dello sfruttamento e dello scontro con il padrone, ma è pure il recinto sacro in cui si esprimono il talento e la creatività operaie. Proprio in quegli anni, invece, Potere Operaio predica il rifiuto della fabbrica e del lavoro, dei quali ci si vorrebbe sbarazzare e ai quali non si riconosce nessuna dignità. Bisogna dire che nel momento in cui viene spostato dal suo contesto naturale, il ready made cambia di segno: in questo caso il maglio, una volta collocato all’aperto, si espone alla possibilità di smarrire quella connotazione, anche sentimentale, che lo lega al mondo del lavoro e della fabbrica, per sublimarsi nella forma astratta del dolmen.
Alla campagna di adesione e sottoscrizione per il monumento partecipa, tra gli altri, l’onorevole Sandro Pertini, che l’anno successivo diventerà Presidente della Repubblica, mentre alla Galleria Milano si tiene una mostra con opere donate da vari artisti, i cui ricavi vengono usati per finanziare il monumento. Del titolo delle opere resta traccia in un documento presente nell’archivio della Galleria Milano: Maograd, Repressione, Alfabeto Afono, La cosa rossa, L’incastro etc. Il progetto viene prima presentato alla Biennale di Venezia, nel 1976, di fronte all’allora direttore Carlo Ripa di Meana, e poi finalmente installato il 16 aprile 1977, in occasione del secondo anniversario della morte di altri due antifascisti: Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. Manca un formale riconoscimento da parte del Comune di Milano (arriverà nel 2013, grazie al sindaco Pisapia), ma il sindaco socialista Carlo Tognoli, di fatto, non si oppone.
Le operazioni logistiche e politico-organizzative relative al trasporto e alla posa del maglio sono quasi un balletto, una coreografia finale e certamente il coronamento di una performance collettiva, alla quale hanno partecipato artisti, movimenti extraparlamentari, studenti e operai. Enzo Mari la ricorda così:
Andai anch’io col camion prestissimo, alle cinque di mattina, a prelevare questo… oggetto. Quando arrivammo alla Bocconi col maglio la zona era presidiata, c’erano centinaia di giovani studenti e in poco tempo si procedette alla posa […] Il suolo era stato preparato, verificando che non ci fossero canali sotterranei e costruendo un letto di pietrisco su cui poggiare il manufatto. Nel frattempo decidemmo di togliere alcune propaggini che ci parvero sgraziate, alcuni grossi bulloni che sporgevano troppo.
Il giorno della posa vengono indetti uno sciopero generale e una manifestazione studentesca. La presenza di studenti e lavoratori deve da una parte fare da scudo fisico all’operazione e dall’altra legittimare il monumento da un punto di vista politico e simbolico. Il maglio a bordo del trasporto speciale, dove è presente Enzo Mari, percorre la tangenziale ovest e via Ripamonti. Ad attenderlo di fronte alla Bocconi ci sono una enorme autogru, il cui compito è sollevare e abbassare il maglio, più un presidio di studenti, arrivati alle sei di mattina. Ezio Rovida, ex militante del Movimento Studentesco, ricorda: “capii che il gran lavoro di costruzione di consenso politico e culturale attorno al monumento per Roberto aveva avuto successo […] Il maglio sospeso in aria scendeva lentamente verso terra. I cortei cominciavano ad affluire. Poi il grande monolito fu a posto e finalmente potemmo vedere quello che fino ad allora avevamo immaginato”.
Il monumento è completato da una scritta in bronzo collocata alla base: “A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella Nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”. Enzo Mari: “Mi sembrava che l’affermazione sull’appartenenza degli strumenti di produzione a coloro che li usano, collocata di fronte a un’università come la Bocconi, fosse importante non solo per i valori della sinistra, ma anche per quelli della cultura liberale, nella sua accezione di tensione utopizzante alla Adam Smith”.
Ho scoperto che al comitato per il monumento a Franceschi prese parte anche un carissimo amico, scomparso da qualche anno: Maurizio Giannotti. Maurizio era uno scultore originario delle mie zone, nato tra i marmi e le montagne di Massa nel 1928. Si era trasferito negli anni Settanta a Milano, dove aveva insegnato in un liceo artistico, diventando l’affezionato insegnante di Fausto Tinelli, ragazzo del Leoncavallo ucciso nel marzo 1978 insieme all’amico Iaio. Quando Maurizio tornava a Massa, non mancava di passare a trovare la mia famiglia. Sulla parlata cantilenante del borgo montano di nascita, Casette, era intervenuta una leggera inflessione milanese, con il risultato che Maurizio aveva acquisito nel tempo una cadenza esclusivamente sua, unica. Lo ricordo a un certo punto, esplosivo e come sempre carico di entusiasmo e nuovi progetti da realizzare, vestito con pantaloni rossi e bretelle rosse o gialle, secondo i codici estetici di una postmoderna e variopinta creatività milanese anni Ottanta, che lui interpretava con la vivacità e l’irruenza di uno scultore apuano, abituato all’aria aperta e al contatto con la materia prima. Sono certo che Maurizio Giannotti, in una delle sue perorazioni accompagnate da una gesticolazione tellurica, mi abbia parlato, moltissimo tempo fa, del progetto e poi del monumento vero e proprio a Franceschi, magari mostrando a me e alla mia famiglia una foto, dei bozzetti o dei ritagli di giornale. Ecco perché il giorno in cui ho finalmente visto il monumento, da adulto e non più da bambino, girandogli attorno e toccandone con le dita la superficie, credo, in realtà, di averne semplicemente recuperato la forma alla coscienza, come in una sorta di anamnesi pitagorica.
La vigilia di Natale torno alla Bocconi. Desidero immergermi ancora nella vertigine all’indietro dell’anamnesi. Ho i piedi gelati. Le chiome degli alberi, ricamate nell’aria livida, mi appaiono, forse a causa di una miopia non del tutto corretta dalle lenti, come globi fulvi e serici, spruzzi a mezz’aria di un gas color mogano. Nel bianco e nero acquoreo dell’inverno milanese, così ben testimoniato da Uliano Lucas nel celebre totale di piazza Duomo il giorno del funerale per le vittime di Piazza Fontana, si nasconde sempre, in realtà, un colore, come il palpito di un petto caldo e materno, che protegge dal freddo e dalla desolazione. A mezzogiorno sono di nuovo, solo, di fronte al maglio rigato dalla pioggia. Nessuno per strada, eccetto una donna dall’ombrello giallo. La scorsa estate, nel corso di un workshop ideato dall’artista Patrizio Raso, alcuni ricercatori e ricercatrici premiati dalla Fondazione Franceschi, sono stati ritratti a figura intera, nel mezzo di via Ferdinando Bocconi deserta, investiti dall’ombra del monumento sull’asfalto.
Quando Enzo Mari dice che si tratta del “più bel monumento di Milano”, sono convinto che Mari abbia ragione. Il monumento a Franceschi è stato il risultato di un dibattito e di un’azione fisica collettivi, per i quali ci si è presi la responsabilità di una decisione, sbloccando un processo che si stava impaludando. Dev’essere stato un lavoro non semplice di mediazione. La scelta del maglio industriale, inoltre, ricapitola la storia e il genio del movimento operaio; testimonia adeguatamente il lutto, la morte; è pietra di paragone proporzionata rispetto alla dimensione del trauma; si fa segno, con l’acciaio, di potenze ctonie; s’inscrive in modo originale nella tradizione del ready made; fa della gravità una virtù, in profetica contrapposizione con l’ideologia della leggerezza, dell’effimero e dell’immateriale. Il monumento a Franceschi è staticità pura e tetragona, irriducibilità, ostinazione minerale. È il punto dello spazio urbano in cui l’arcaico attende e sbarra il passo all’imminente postmoderno. È una roccia in mezzo al divenire. È un’ancora sul fondale. È lo scoglio contro il quale si spezzano le acque del fiume. Come se fosse stato calcolato e previsto che sarebbe arrivato un giorno del calendario, in cui non sarebbe più stata compresa la storia politica e sociale di cui quel monumento è sintesi e rappresentazione, allora si è deciso che il monumento dovesse essere poderoso, massiccio, inamovibile e, col tempo, tramutarsi in monolito, totem sacro e indecifrabile in cui tutta la memoria è riassorbita.