La politica dei corpi nelle opere di Carolee Schneemann.
Claudia Bruno scrittrice e giornalista, si è laureata a Roma in Teorie della Comunicazione. È redattrice editoriale di inGenere, scrive di libri sul Manifesto e lavora come consulente editoriale. Suoi articoli e racconti sono stati pubblicati da Minima&Moralia, Not, Colla, Cadillac, Inutile, Abbiamo le prove e altre riviste. Ha scritto "Sola andata" (NNE, 2022) e "Fuori non c'è nessuno" (effequ, 2016).
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n uomo e una donna si amano sul letto di una stanza, sono giovani, si baciano, sorridono, si toccano. I loro genitali si confondono nella semioscurità, lentamente scivolano, incollano il presente uno strato sull’altro rendendo il qui e ora un istante poroso in cui è possibile dimenticarsi di sé, dimenticarsi del mondo. Siamo a New Paltz, poche ore a nord di New York, nella casa di campagna dove Carolee Schneemann passerà la maggior parte della vita. La donna nel filmato è lei, l’uomo è uno dei suoi primi fidanzati, il compositore James Tenney, che ha incontrato durante gli studi alla Columbia qualche anno prima delle riprese. Non un giorno particolare ma tanti, registrati tra il 1964 e il 1967 con una cinepresa Bolex 16mm che può catturare soltanto trenta secondi alla volta. Trentasei mesi di sesso impressionati su una pellicola più volte bruciata, pitturata, cotta al forno e immersa nell’acido, fatta in pezzi e rincollata sovvertendo le cause e gli effetti dell’erotismo. Un film muto che ci arriva a più cinquant’anni di distanza dentro una piccola sala buia, il cinema allestito all’occorrenza in occasione di Body Politics, prima grande retrospettiva dedicata all’artista americana scomparsa nel 2019, dal Barbican Centre di Londra.
Guardare Fuses dagli anni del revenge porn e della FOMO, delle breaking news e del capitalismo della seduzione, è come infilare lo sguardo dentro un cannocchiale rovesciato, pensare il mondo dopo uno tsunami digitale, fare i conti tutto quello che non possiamo più sentire, prima ancora che con quello che non possiamo più essere. E sarebbe solo una storia troppo vintage che a un certo punto non avremmo più voglia di lasciarci raccontare o a cui smetteremmo presto di credere se tutto non avvenisse davanti agli occhi di un gatto dal pelo scuro, che una scena dopo l’altra diventa l’incarnazione della telecamera, si muove in un dentro-fuori che include le stagioni e le foglie degli alberi che oscillano oltre i vetri della finestra, gli oggetti che diventano soggetti, sostituendosi allo sguardo del maschio sul corpo della femmina, mettendo in conto la femmina come soggetto del desiderio, sovrapponendo al nostro voyerismo una visione che arriva da lontano.
Ogni volta che io e James Tenney facevamo l’amore la gatta era lì vicino a noi, ci fissava e faceva le fusa.
Il gatto, che è una gatta, ha un nome e compare nei titoli di copertina insieme ai due protagonisti. Si chiama Kitch e fissa il letto da un angolo della stanza, ma è anche fuori, cammina in equilibrio sulla grondaia è una presenza costante che veglia senza tregua le loro vite. Dentro la stanza in cui la luce entra ed esce, si muove come in un time-lapse che dura per sempre, è l’elemento disturbante, davanti al suo sguardo fisso, di un’innocenza mistica – i corpi abbandonando i propri confini in un susseguirsi di tagli e sovraesposizioni. Visto da qui, il sesso sembra un esercizio di realismo magico, un amuleto inventato per non pensare alla morte. “Ogni volta che io e James Tenney facevamo l’amore la gatta era lì vicino a noi, ci fissava e faceva le fusa” ha raccontato Schneemann in un intervento comparso su Art in America nel 2015. “Se aprivo gli occhi e la guardavo, lei distoglieva lo sguardo come per preservare la nostra privacy, ma era sempre lì. Era una sorta di presenza-telecamera che mi autorizzava a guardare dove lei stava guardando”. Un processo che si rivela fondamentale nella realizzazione di Fuses. “Le uniche immagini erotiche che conoscevo provenivano dalla pornografia o dalla scienza, mondi completamente antagonisti rispetto al mio senso dell’esperienza. Girando Fuses non sapevo cosa ne sarebbe venuto fuori. Avere Kitch come osservatrice mi ha permesso di esplorarlo, e ho sentito il legame tra la visione del gatto e l’apertura della videocamera”.
Non è la prima né l’unica volta che un animale diventa parte attiva in un’opera di Carolee Schneeman, vediamo Kitch accanto al suo corpo nei primissimi autoritratti a matita e la ritroveremo nella performance Up to and Including Her Limits (1976), nel cortometraggio Kitch’s last meal, girato tra il 1973 e il 1978, e da molte altre parti. Più tardi saranno Cluny e Vesper a scambiare lunghi baci mattutini con l’artista nella serie fotografica Infinity Kisses iniziata nell’81 e completata nel ‘98. “The cat is my medium” dirà a un certo punto della sua carriera. In un saggio comparso nel 2015 su Art Journal, Thyrza Nichols Goodeve rintraccia in questa postura un’anticipazione sofisticata di quelle che saranno le tendenze di pensiero degli anni duemila, dagli animali di Jacques Derrida alle specie compagne che Donna Haraway teorizza in libri come Companion species o When species meet.
Questa postura è un’anticipazione sofisticata di quelle che saranno le tendenze di pensiero degli anni duemila, dagli animali di Jacques Derrida alle specie compagne di Donna Haraway.
I corpi sono dappertutto in quella galassia material-semiotica che è l’opera di Carolee Schneeman, ma camminare tra le stanze di Body politics, è come nuotare nella gigantografia di un cervello.Nel saggio introduttivo al catalogo Lotte Johnson ne parla come di un infinito collage, riprendendo la definizione che del termine negli anni ottanta dava Lucy Lippard – una pratica dialettica e rivoluzionaria tutta mirata al sovvertimento delle strutture culturali della società che può generarsi solo dalla “giustapposizione di realtà distanti per crearne una nuova”. In effetti è quello che Schneemann impara a fare molto presto, raccogliendo i ritagli delle sue giornate – liste, biglietti, fotografie, elementi apparentemente insignificanti che assumono un senso posizionati l’uno accanto all’altro nei suoi Life Books. Un’attitudine che le resterà incollata addosso per tutta la vita, attirando critiche di autoindulgenza per aver esposto così meticolosamente la sua esistenza nello spazio pubblico, ma che coincide proprio con il suo costante tentativo di superare quella cesura così maschile tra vita e arte, di fare della vita stessa un’opera d’arte, del suo corpo la prima materia da manipolare, e della connessione tra sé e il mondo lo sconfinamento che le femministe chiameranno tra il personale e il politico.
I primi lavori sono dipinti del suo corpo nudo, cosa che le costerà l’espulsione dal Bard college per ‘turpitudine morale’.
Carolee Schneemann inizia la sua produzione artistica alla fine degli anni ‘50, quando la cosiddetta liberazione sessuale deve ancora accadere. Il suo essere femminista è qualcosa che si va costruendo fuori da un movimento che deve ancora nascere, non è mai dato per certo. I primi lavori sono dipinti del suo corpo nudo, cosa che le costerà l’espulsione dal Bard college per “turpitudine morale” – il college non prevedeva corsi di disegno dal vivo, e in quegli anni riprodurre un nudo non era considerata un’attività appropriata per una ragazza. Debutta quindi a New York nei primi anni ‘60 come una pittrice astratta, ispirata dalle opere di Paul Cézanne, che inizialmente credeva fosse una donna, ed entrando invece subito in contatto con un ambiente integralmente articolato intorno al mito del genio maschile nel regno della trascendenza, dove le artiste sono tutt’altro che benvolute e rappresentano i suoi “mancati precedenti”, come più volte le definisce. Se tra le energiche pennellate che caratterizzano la sua “pittura cinetica” s’intravedono il corpo nudo di Tenney, e quello della gatta Kitch, tutto quello che viene dopo è un embodiment progressivo del suo stesso processo creativo, che dalla tela esegue i primi movimenti e poi inizia a uscirne fuori, letteralmente. È in questo periodo che le sue tele cominciano a inglobare oggetti – fotografie e ritagli di giornale ma anche lattine, nastri di audiocassette srotolate e incollate sulla tela insieme a ciocche di capelli, pezzi di vetro, scampoli di pelliccia. La cornice si rompe, la tela è una membrana permeabile, una soglia che si può attraversare.
Schneemann procede gradualmente verso la scultura quanto più si fa spazio nel suo universo il pensiero associativo. Le sue creazioni nascono dai sogni, conciliano nuclei di senso apparentemente divergenti. È stata una bambina della Pensilvaina rurale, la figlia di un medico di paese. Tra i suoi riferimenti letterari ci sono Simone De Beauvoir e Virginia Woolf, ma anche Willhelm Reich e Carl Gustav Jung, che compare nella sua libreria in un’edizione del ‘64 di Men and His Symbols, un mandala sulla copertina e le parole del titolo Men e His cancellate con l’inchiostro nero. Ma è dall’incontro con lo scultore e visual artist Joseph Cornell e dal comune interesse per l’interregno tra la veglia e il sonno che arriva alle sue Box-Constructions. Le scatole di Schneemann sono gusci che contengono i resti di un’implosione. Diorami fabbricati in legno che racchiudono detriti e vecchie pellicole ricoperte di vernice e paglia incendiate con l’aiuto della trementina, piccoli regni di specchi rotti che si schiudono per lasciarci ammirare i risultati della combustione. Sono paesaggi interiori che brillano di luce rifratta e sanno di pittura fusa, la cosa più vicina a quella che si potrebbe definire un’anatomia dello spirito. Le realizza nel 1962, anno in cui va a fuoco lo studio che ha appena affittato a New York, ex laboratorio di una pellicceria in West 29th Street, dove produrrà per i successivi sei anni e arriverà a concepire il corpo come materiale. A partire da Eye Body: 36 Transformative Actions for Camera, serie di fotografie realizzata nel 1963 in cui si mostra senza vestiti, il volto spezzato nei resti di uno specchio rotto, sdraiata sul divano con dei serpenti neri sopra al seno, in una successione di scatti in cui il corpo si fonde e si confonde con lo spazio che diventa stato alterato di coscienza. I suoi contorni ricordano le icone di un immaginario sepolto e mitico, le femmine divine di Marija Gimbutas, e allo stesso tempo qualcosa che ancora non esiste. Corpo e linguaggio diventano la stessa cosa. “Nudo, esposto, davanti all’obiettivo o a un pubblico di spettatori, il mio corpo non è più l’oggetto sessuale che ci si aspetterebbe, determinato dalla cultura maschilista” scrive negli appunti che accompagnano la serie. “Coprendolo di vernice, grasso, gesso, corde, plastica, lo rivendico come territorio della visione, un’estensione della mia pittura. Il corpo è il mio materiale. Non creo solo immagini, ma i valori stessi dell’immagine della mia carne come la materia con cui ho scelto di lavorare”. Sono i presupposti che la porteranno alla performance.
In Body Collage nel 1967 nello stesso studio la vedremo correre, cadere, e ridere con il corpo ricoperto di colla e melassa, rotolare in un mare di carta da stampante bianca, strappata e triturata, che le resta attaccata addosso. In Up to and Including Her Limits (1974-76) si esibirà più volte dal vivo ondeggiando al centro di uno spazio bianco, sospesa da un’imbracatura di corda, traccerà sulle pareti i segni generati dai movimenti casuali del suo corpo ancora una volta esposto nudo. “The body is in the eye” dirà. “Le sensazioni che percepiamo con la vista si insediano nell’organismo, portando l’intera personalità all’eccitazione”. In questa prospettiva, che fa di carne e pensiero una materia sola, il corpo della donna, per secoli rappresentato in occidente come debole, utile solo per procreare, diventa una sorgente di potere e conoscenza. Teorizzare lo “spazio vulvico”, di cui racconterà in Interior scroll (1975-77), sfilandosi dalla vagina un discorso sul ruolo delle donne nell’arte scritto in verticale, è il suo modo per creare immagini ed essere l’immagine allo stesso tempo, ribellarsi alla storica contrapposizione tra maschi intelligenti e donne dispensatrici di sentimenti. Si era già esibita nell’agosto del 1972 in uno striptease sui pattini a rotelle lungo i vagoni di un treno Londra-Edinburgo recitando ad alta voce i passaggi del trattato logico filosofico di Ludwig Wittgenstein, ma forse in questo caso la sua poetica trova la sua rappresentazione più sincera.
Alcune femministe hanno accusato Schneemann di narcisismo per aver mostrato tanto il suo corpo così conforme al canonico ideale di bellezza occidentale. Sono gli anni in cui Ana Mendieta schiaccia la sua figura contro una parete di vetro deformandone la fisionomia, Martha Rosler sbatte rumorosamente sul tavolo gli utensili sul setting di Semiotics of the Kitchen, Eleanor Antin si fotografa indossando una barba, Annegret Soltau si imbozzola la faccia con un filo nero. Ma il senso del discorso per Schneemann, che fino alla morte continuerà a definirsi prima di tutto una pittrice, sta nel poter considerare il corpo una materia prima. “Io non mostro il mio corpo, io sono il mio corpo”, scriverà in una conversazione privata. È la sua risposta personale alla domanda che da anni la ossessiona: Can I be both an image and an image maker?’ Più che deformare il corpo, superarne i confini, vorrebbe ripulirlo dei significati sbagliati, riaverlo indietro liberato dai meccanismi più abusati dell’interpretazione.
Teorizza lo ‘spazio vulvico’, di cui racconterà in ‘Interior scroll’, sfilandosi dalla vagina un discorso sul ruolo delle donne nell’arte scritto in verticale.
Searriva a farlo nelle solo performance che l’hanno resa nota, lo deve a una profonda riflessione sulle interazioni collettive. L’approdo immediatamente successivo alle sculture è infatti il teatro. Nel 1962, con la collaborazione di Yvonne Rainer e Arlene Rothlein, al Living Theatre di New York va in scena la sua prima performance pubblica di gruppo, Glass Environment for Sound and Motion – il palco che scricchiola e luccica di vetri e specchi rotti sotto i passi di attori e ballerini, un’estensione estetica delle Box-constructions riprodotte qui a una scala umana. Essere un corpo significa imparare a camminare nel caos della materia, lasciarsi ispirare dall’incontro fortuito con i corpi degli altri. L’idea di questo movimento, come sempre, le viene dalla vita. In particolare, ancora una volta, dall’osservazione del non umano: un tornado che nell’estate di due anni prima ha divelto quello che lei e James Tenney chiamavano “l’albero del paradiso”, caduto sul tetto della loro casa di Sidney, nell’Illinois – dove lei al tempo studiava pittura all’università – creando una frattura visibile sul sentiero che conduceva al campo adiacente. Un groviglio di rami che allo stesso tempo fornisce alla gatta Kitch il passaggio prima inesistente dalla finestra della cucina alle rive del ruscello che attraversa il campo. Questo sapersi accordare a un paesaggio accidentale, porta alla prima performance di gruppo che Schneemann organizza privatamente coinvolgendo alcuni amici, invitandoli a esplorare sentieri imprevisti sopra e oltre l’intrico di rami generato dall’incidente.
Interferenze e fratture diventano principi fondanti della sua produzione, il collage si fa vita, il corpo dell’artista diventa un tutt’uno con il corpo del mondo. Nel ‘62 Schneemann è la prima artista visiva a entrare nel Judson Dance Theater di New York, un gruppo di coreografi, ballerini, musicisti, compositori e registi – tra gli altri, John Cage, Merce Cunningham, Steve Paxton, Deborah Hay, Fred Herko e la già citata Yvonne Rainer – nato con l’ambizione di rivoluzionare l’arte attraverso l’uso dei gesti e della materia quotidiana. Improvvisazione, collaborazione e rifiuto di tecniche e formazione tradizionali sono i fondamenti della scuola. Schneemann ne parla come di “un nido elettrico” dove tutto è collegato. È qui, nel seminterrato della Judson Memorial Church del Greenwich Village, che prendono forma i successivi Newspaper event e Chromelodeon, ma anche Meat Joy, andato in scena per la prima volta nel ‘64 all’interno del Festival della Libera Espressione di Parigi, e Water Light/Water Needle ispirato da un viaggio a Venezia e dall’atmosfera di sospensione della città sull’acqua, e poi rappresentato nel ‘66 tra le due colonne della St Mark’s Church in-the-Bowery a New York e più tardi tra i rami di un bosco in New Jersey. Tra fogli di giornale, vernice colorata, funi, rami e ponteggi dove camminare in equilibrio, i corpi coinvolti nel “teatro cinetico” di Schneemann si impastano gli uni con gli altri come la tempera sotto le fibre dei suoi vecchi pennelli, sono la tela umana su cui proietta la realtà così come la sente iniziare e finire oltre la sua persona. Le istruzioni sono chiare: le corde vanno pensate come un’estensione della carne, il movimento è concentrato sul sentire, striature di acquerello indicano le energie mutevoli dei corpi che si muovono seguendo un senso di perenne connessione. “Non è fantasy, è la vita”, ripete diverse volte. In questi lavori, corpo individuale e corpo collettivo sono legati da un intreccio pluricellulare e orgiastico, ripugnante e indissolubile, che tiene insieme gioia e dolore, meraviglia e disperazione, estasi e abiezione. E forse a un certo punto il disordine diventa una pericolosa confusione se Schneemann sente l’esigenza di tornare al suo corpo singolo. Ma sono già gli anni Settanta e niente sarà più come prima. Dopo il teatro e dopo tutto quello che nel frattempo è successo nel mondo, non sarà più possibile pensare al corpo come elemento svincolato dagli echi delle sue declinazioni collettive.
‘Io non mostro il mio corpo, io sono il mio corpo’, scriverà in una conversazione privata. È la sua risposta personale alla domanda che da anni la ossessiona: Can I be both an image and an image maker?
Nei suoi lavori più recenti – prevalentemente opere di video art, serie fotografiche e sculture – il legame tra corpo e politica si spinge sempre oltre lungo lo spettro delle emozioni. Schneemann riproduce e amplifica il modo in cui le catastrofi pubbliche s’incistano nelle tragedie private, ma mostra anche come i nostri sguardi non possano sottrarsi a guerre e disastri, malattie e ingiustizie subite da altri umani e non umani. L’osservazione è un dovere e allo stesso tempo un privilegio, l’arte diventa testimonianza e in un certo senso ricalca la funzione che negli stessi anni il giornalismo angloamericano affida al saggio personale. Dalla guerra in Vietnam ai conflitti nei Balcani, dalla crisi ambientale al terrorismo internazionale, Schneemann include nel suo metacollage schermi e filmati, parti motorizzate e scene di erotismo quotidiano, perdendo tuttavia la brillantezza degli esordi e forse lasciando il passo a sue contemporanee più efficaci sugli stessi temi – Jenny Holzer, per dirne una.
È la prima artista visiva a entrare nel Judson Dance Theater di New York, nato con l’ambizione di rivoluzionare l’arte attraverso l’uso dei gesti e della materia quotidiana. Schneemann ne parla come di ‘un nido elettrico’.
Ma è solo quando tutti gli amici sono scomparsi, i vecchi amanti usciti di scena, i gatti inghiottiti da un indicibile altrove, che il nodo della malattia viene al pettine e la sua voce recupera una consistenza. In Known/Unknown: Plague Column, opera realizzata nel 1995 dopo aver ricevuto la diagnosi di un linfoma e di un cancro al seno, Schneemann costruisce un discorso che tiene insieme immagini di cellule impazzite, scene quotidiane ed estratti di rapporti clinici, restituendoci limiti e contraddizioni di una condizione che ci riguarda tutti, il nostro continuo negoziare col dolore, il nostro comune essere mortali. La politica del corpo, allora, diventa soprattutto il modo in cui scegliamo di abitarlo davanti ai progressi di una medicina che non è una scienza esatta, a una ragione che non è in grado di arrivare dappertutto. È qui che Schneemann realizza appieno il passaggio dal personale al politico. Nel suo caso, un percorso volontario di depersonalizzazione. A ribadire una volta per tutte che il suo ruolo nell’arte era proprio quello di portare lo sguardo fuori di sé, per poterlo puntare su di sé. Non per parlarci di sé, ma per mostrarci con l’intelligenza di una cavia sensibile come stiamo al mondo.