Un’intervista a Cecilia Alemani, curatrice della 59. Biennale di Venezia.
Stella Succi è una storica dell'arte e ricercatrice indipendente. Ha fatto parte delle redazioni di Alfabeta2, Mousse Magazine, The Towner, Prismo e attualmente è coordinatrice del Tascabile. Fa parte di Altalena, collettivo e gruppo di ricerca interdisciplinare nel campo delle arti visive. Dal 2020 cura la ricerca drammaturgica della danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone. È ricercatrice presso least [laboratoire écologie et art pour une société en transition].
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l 23 aprile 2022 aprirà al pubblico la 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Si tratta della prima Biennale dall’insorgere della pandemia, a tre anni dall’edizione 2019 – col senno di poi, significativamente intitolata May You Live in Interesting Times. La curatela è stata affidata a Cecilia Alemani, già curatrice del Padiglione Italia nel 2017 e conosciuta in particolare per la direzione, dal 2011, del programma di arte pubblica della celebre High Line di New York.
Il titolo dell’esposizione, Il latte dei sogni, si riferisce al libro di fiabe illustrate di Leonora Carrington (1917-2011), artista surrealista nota per la creazione di mondi e creature oniriche, inquietanti, caratterizzate dall’ibridazione tra umano, animale e meccanico. Le anticipazioni raccontano un’edizione fortemente radicata nel pensiero post-umanista, rispecchiato dalle tre aree tematiche in cui la mostra sarà suddivisa: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; il legame tra i corpi e la Terra.
Ad arricchire il percorso, tre “capsule del tempo” dedicate a opere del passato coerenti con la proposta curatoriale: un modo per riportare alla luce esperienze minori e mettere in questione la storia dell’arte così com’è stata rappresentata dalle Biennali fino ad oggi. Un approccio che ha caratterizzato anche la selezione delle artiste e che costituisce una delle scelte più coraggiose del progetto.
Qual è stata l’intuizione iniziale da cui è partito tutto, e come si è evoluta e arricchita la ricerca della mostra nel corso del tempo?
Da subito avevo in mente l’idea della metamorfosi come punto di partenza per elaborare la mostra, un tema centrale nelle arti da sempre. La trasformazione del corpo è simbolo e metafora di tanti cambiamenti. Nel corso delle conversazioni con gli artisti mi sono resa conto che in realtà la metamorfosi, oggi, ha un senso più ampio e radici molto profonde che si incrociano nel rapporto con la natura, gli animali, il non umano. E sono emerse molte domande ricorrenti: cosa significa postumano, oggi? Come si sta evolvendo la relazione tra uomo e macchina? L’uomo è ancora centrale nel nostro pianeta, o per l’evoluzione e la conservazione del mondo è necessario che si sviluppino relazioni simbiotiche con altre forme di vita? Sono partita da qui e grazie alle centinaia di chiacchierate con gli artisti ho potuto cogliere ansie e preoccupazioni che altrimenti non avrei compreso. Questo ha arricchito la forma che la mostra stava prendendo, le ha dato complessità, e ha aggiunto nuovi e diversi punti di vista alla visione che io stessa avevo inizialmente. È stato un lavoro letteralmente in progress.
E com’è andato il processo curatoriale tra i tanti ostacoli di questi anni di pandemia?
È stato un processo lungo che si è definito strada facendo, per ragioni contingenti. Sono stata nominata a gennaio del 2020, un mese dopo è scoppiata la pandemia a livello globale, in primavera si è deciso di posticipare la Biennale Arte di un anno. A quel punto ho pensato di sfruttare il tempo che avevo come un’opportunità e mi sono concentrata a parlare con le artiste e gli artisti, facendo call e studio-visit da remoto, via zoom.
Nelle descrizioni delle aree tematiche (la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra) ricorre la parola “corpi”, e nella selezione degli artisti è data maggior rilevanza ad artiste donne o al di fuori del binarismo di genere: perché secondo te la ricerca sui corpi di ambito femminista e queer è particolarmente significativa in questo momento?
Perché rispecchia la complessità del mondo in cui viviamo e la necessità di scardinare ruoli e stereotipi. Includere una grande maggioranza di artiste donne ed individui non binari risponde alla precisa scelta di riflettere su un panorama internazionale di grandissimo fermento, effervescenza creativa di artiste e artisti che stanno mettendo in crisi la figura dell’uomo al centro del mondo. Ad esempio, Felipe Baeza è un artista molto giovane che pochi conoscono e che io ammiro molto: l’ho visto due anni fa a Frieze Los Angeles prima della pandemia, e sono rimasta colpita dalla sua capacità di attraversare temi politici come l’idea del corpo migrante, ma anche l’idea di genere, del corpo queer, in opere che sono molto attraenti a livello visivo. Penso che sia uno degli artisti più interessanti che lavorano fuori dal mercato dell’arte in questo momento. O Roberto Gil de Montes, che ho conosciuto sempre lì in quella occasione: l’ho trovato molto interessante per la connessione con il realismo magico, questa idea di affabulazione in chiave leggera e queer ma che guarda alla tradizione europea e rinascimentale per inserire un elemento di disturbo.
L’esposizione comprende cinque capsule del tempo tematiche che ospiteranno opere di artiste e artisti storici, come Sonia Delaunay o Mina Loy: come perché hai sentito l’esigenza di creare questi cortocircuiti temporali?
Le capsule raggruppano opere di artiste e artisti in particolar modo del Novecento, con qualche eccezione, che affrontano in modi e periodi completamente diversi i temi della mostra. Lo scopo di queste piccole mostre nella mostra è, in primis, quello di interrogare la centralità di alcune storie con la S maiuscola che si sono imposte nella storia dell’arte, nell’arte contemporanea, e di raccontare anche storie che molti hanno considerato “minori”. Sentivo la necessità di creare dei rimandi tra le opere storiche e quelle contemporanee, per creare dei contrappunti, dei cambi di prospettiva. Il latte dei sogni è una mostra trans-storica che mette in dialogo il contemporaneo e il passato anche a distanza di tante generazioni, includendo numerose controstorie e storie di esclusione.
Su quali periodi storici ti sei concentrata?
Più che su periodi mi sono concentrata su temi e movimenti, su tipologie di ricerche che risuonano nelle ricerche di oggi. La prima capsula storica, nel Padiglione Centrale, sarà dedicata all’idea di metamorfosi dei corpi, e qui si vedranno una trentina di artiste, danzatrici, scrittrici e figure culturali internazionali vicine ai principali movimenti di avanguardia del loro tempo – Surrealismo, Futurismo, Bauhaus, Harlem Renaissance e Négritude – che adottano la metamorfosi, l’ambiguità e la frammentazione per contrastare l’idea rinascimentale dell’Uomo unitario e finito. La seconda capsula storica introdurrà un approfondimento su un gruppo di artiste italiane vicine all’arte programmatica e cinetica e che negli anni Sessanta guardano al linguaggio astratto e cibernetico in relazione con il corpo, usando tecnologie innovative e anticipando molte delle preoccupazioni della nostra era digitale.
La terza capsula raccoglierà artiste e scrittrici del XIX e XX secolo che utilizzavano forme espanse di linguaggio come strumenti di emancipazione e pratiche della differenza, intendendo la scrittura come pratica corporea e spirituale. È una capsula dedicata al rapporto tra corpo e linguaggio e parte in una certa misura dalla mostra Materializzazione del linguaggio, curata dall’artista Mirella Bentivoglio come parte della 38. Esposizione Internazionale d’Arte nel 1978, che riuniva ottanta artiste donne – alcune delle quali sono incluse nell’attuale presentazione – che lavoravano soprattutto con la Poesia Concreta o Visiva. All’inizio delle Corderie si colloca un’altra capsula storica, la quarta, ispirata agli scritti dell’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin e alla sua teoria della narrazione che identifica la nascita della civiltà non nell’invenzione delle armi ma negli oggetti utili alla raccolta, al sostentamento e alla cura: borse, sacche e contenitori. Infine, l’ultima parte delle Corderie è introdotta dalla quinta e ultima capsula storica dedicata alla figura del cyborg, che riunisce artiste che nel corso del Novecento hanno immaginato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale, creando gli avatar di un futuro postumano e postgender. Qui si vedranno corpi ibridi ed estesi, relazionali o prostetiche: molte artiste vicino al Dada e al Bauhaus immaginavano il corpo cyborg come chiave di una soggettività moderna e genuinamente nuova.
Nella capsula dedicata alla scrittura hai incluso e citato i lavori di diverse medium, figure storiche come Linda Gazzera o Eusapia Palladino. Mi racconti l’origine di questa scelta?
In quella capsula si trovano artiste associate con lo spiritualismo e le pratiche medianiche, che hanno usato il proprio corpo per comunicare, in forme spesso non verbali, anche con dimensioni altre da quelle umane. Le medium Linda Gazzera ed Eusapia Palladino tenevano dimostrazioni spiritiche in cui visceri medianici spuntavano dal nulla; sulla stessa falsariga, Josefa Tolrà affermava che i suoi disegni erano guidati da entità spirituali che incontrava in stato di trance. Georgiana Houghton usava il proprio corpo come strumento per comunicare con gli spiriti di altri pianeti o dimensioni, creando disegni che venivano ricevuti come messaggi dai mondi dell’aldilà. Un altro gruppo di artiste usa l’automatismo per immaginare un tipo diverso di scrittura inconscia, come Sister Gertrude Morgan, Minnie Evans o Unica Zürn, che realizzavano quadri e disegni capaci di veicolare visioni, sogni e allucinazioni, trattando la creazione artistica come espressione di un linguaggio. Della loro pratica mi interessa in particolar modo il senso di emancipazione e il desiderio di sottolineare la loro differenza rispetto a canoni e clichè a cui le donne erano, e forse sono ancora, obbligate.
C’erano artiste che sapevi di voler includere fin dall’inizio?
Sembrerà scontato, ma il perno di tutto è stata proprio Leonora Carrington, una vera compagna di viaggio. La riscoperta delle artiste surrealiste è nell’aria, ma in realtà io sono affezionata al Surrealismo fin dall’università, la mia tesi è stata su Georges Bataille. Conoscevo Carrington solo come pittrice, poi ho scoperto i suoi libri. Partire da lei, per me, è un modo per rivalutare lei e le sue colleghe non solo in contrapposizione ai maschi: parliamo di artiste totalmente indipendenti, che hanno utilizzato molti temi del Surrealismo non per sminuire il corpo femminile, ma per ridisegnarlo, anche con ironia, creando un immaginario personalissimo.
E quali artiste, invece, ti hanno particolarmente colpita tra quelle che hai scoperto in corso d’opera?
C’è stato molto lavoro di ricerca, ma non voglio parlare di scoperte. La ricerca dovrebbe essere alla base del modo di operare di chi fa il mio mestiere. Preferisco parlare di incontri. In generale mi interessano le voci considerate in qualche misura minori: 180 tra artiste e artisti sono presenti per la prima volta alla Biennale. Anche nomi noti, che è incredibile non siano stati invitati prima… Penso a Dadamaino, a Nanda Vigo, esponenti dell’arte programmata e cinetica che non erano alla Biennale del ’66 con i colleghi uomini. Penso alle donne del Bauhaus, del Dada. Non ho fatto delle scoperte, non volevo isolare le artiste, le ho riprese e messe insieme alle contemporanee che hanno influenzato.
C’è qualcosa a cui hai dovuto rinunciare nella costruzione della mostra?
No, direi di no.
Cosa ti aspetti e cosa, invece, ti auspichi per questa Biennale?
Al momento non so rispondere. Sono concentrata a dare forma a questo progetto complesso e ambizioso a cui ho lavorato senza tregua per due anni. Spero che prenda la forma che ho immaginato: non vedo l’ora di visitare la mostra come uno spettatore, di vederla “da fuori”, dal vivo, e di riprovare quella sensazione fisica speciale che ti dà il rapporto con l’opera d’arte.