Un’intervista a Jeff VanderMeer, autore della Trilogia dell'Area X. Tra ecologia, horror, fantascienza e la responsabilità dello scrittore.
Timothy Small vive a Milano. Direttore Creativo, editor, giornalista e film-maker, è stato direttore e co-fondatore di Vice Italia, l'Ultimo Uomo, Prismo e Esquire.
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eff VanderMeer è un grandissimo esperto di letteratura “weird”—quel sottogenere che sta a metà tra il surreale, il fantastico, l’assurdo, l’horror, tra Franz Kafka e China Miéville, Angela Carter e Kelly Link, Jorge Luis Borges e H.P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Shirley Jackson. Con la moglie, Ann, Jeff cura un blog chiamato Weird Fiction Review, e ha curato due antologie, The Weird e The New Weird. Ma VanderMeer è anche un romanziere che ha avuto straordinario successo, un autore che, negli ultimi due anni, è passato dall’essere noto a poche migliaia di persone a diventare uno dei nomi più interessanti del mondo della letteratura fantastica. Nel 2014, la sua Trilogia dell’Area X, composta dai romanzi Annientamento, Autorità e Accettazione (che, in Italia, sono usciti tra il 2014 e il 2015 per Einaudi), ha raggiunto un successo strepitoso in America, è stata opzionata dalla Paramount pictures per un film che sarà diretto da Alex Garland (Ex-Machina), ed è stata tradotta e pubblicata in 35 paesi.
Nello specifico, i tre romanzi potrebbero essere considerati eco-fantastici, o eco-horror: parlano dell’Area X, un territorio selvaggio, misterioso e pericolosissimo, in un’area non meglio precisata del sud-est degli Stati Uniti nel quale un nuovo ecosistema sta prendendo forma, circondato da uno strano confine, e all’interno del quale non sembrano applicarsi le leggi della fisica e della biologia. Il primo romanzo, Annientamento, racconta l’avventura della biologa, una delle quattro donne che fanno parte della dodicesima spedizione all’interno dell’Area X, donne che non si conoscono per nome, ma solo per ruolo. Oltre a lei ci sono anche una psicologa, un’antropologa e una topografa. Tutte le altre spedizioni, prima della loro, sono finte malissimo. Alcuni si sono uccisi tutti a vicenda. Altri sono emersi senza memoria. Altri ancora si sono suicidati. Altri hanno contratto tumori aggressivi e letali. E come mai la Southern Reach, l’istituzione governativa creata per studiare l’Area X, e protagonista del secondo romanzo, non rilascia alcuna informazione chiara a riguardo?
La Trilogia dell’Area X unisce mistero e suspense, ecologia e horror, avventura e sperimentazione narrativa come poche altre opere degli ultimi anni. Sembrerebbe quasi che VanderMeer sia riuscito, in qualche modo, a distillare un nuovo approccio alla letteratura fantastica. Qui al Tascabile l’abbiamo chiamato al telefono, per fargli qualche domanda, e registrare tutto. Il testo è stato poi riletto ed editato da Jeff stesso, e poi tradotto da Alessandra Castellazzi. Eccolo a voi.
Il film tratto da Annientamento uscirà presto. Come hai vissuto questo processo? Sei emozionato?
All’inizio è stato un po’ surreale. Questo è stato un libro profondamente personale. Una parte di Annientamento l’ho sognata, e all’inizio non sapevo nemmeno se sarebbe stato un romanzo o cosa: era solo un’idea venutami in sogno. E adesso sta diventando un film. Ma mi ci sto abituando. Adesso sono molto emozionato all’idea di vedere il risultato, specialmente per i ruoli da protagonista di nuovi talenti come Gina Rodriguez e Tessa Thompson. So che sarà molto diverso dal libro. Il regista, Alex Garland, ha una visione piuttosto unica.
Dev’essere strano vedere una versione cinematografica di qualcosa che hai sognato. Considerando che i sogni hanno spesso una luce, come dire, dei contorni sfocati, confusi, inconsistenti, non hai paura che una fotografia precisa, come quella di un film, potrebbe soffocare un po’ questo elemento?
Beh, sì, ma devi considerare che il sogno ha fatto solo da catalizzatore per i romanzi. Poi, sulla pagina, scrivi qualcosa di molto preciso, le descrizioni dei paesaggi sono molto fotografiche, molto specifiche. Per usare un esempio un po’ cliché, ma efficace: pensa a Dalì. Lui fa un lavoro molto dettagliato sulla tela per creare un effetto complessivamente surreale; molto spesso il surrealismo si crea in un contesto di dettagli realistici che, visti nel complesso, vanno a formare qualcosa di surreale.
Chiaro. Una cosa molto insidiosa quando si scrive un romanzo fantastico, come il tuo, è costruire un mondo credibile in cui far vivere le persone. Come lo crei? Lo descrivi nel dettaglio, anche se rischi di descriverlo troppo? Dici poco e lasci che sia il lettore a riempire i buchi, per così dire?
Tutto quello che non è, diciamo, misterioso, nella Trilogia, è preso dal Sud-Est degli Stati Uniti, un posto che conosco molto bene. Prima di diventare scrittore a tempo pieno, nel 2007, ho fatto dei lavori che mi portavano in piccole città della Florida, e in altri posti che mi hanno aiutato, ad esempio, a rappresentare alcuni degli ambienti del secondo libro, Autorità. Lavoravo per delle agenzie governative, quindi andavo in questi posti fatiscenti da cui ho attinto molto per il secondo libro. Non dover fare nessuna ricerca sull’ambientazione ti permette di rilassarti, di adagiarti nell’ambientazione e di essere libero di pensare ad altre questioni. Ad esempio: Quanto mi serve che questa sensazione qui sia invasiva per avere un senso maggiore di claustrofobia e paranoia? Quanto, invece, devo lasciare qualcosa all’immaginazione del lettore? Quanto voglio dire e quanto voglio lasciar non detto? È qualcosa a cui stavo sicuramente pensando. Pensavo anche a come il tono e la consistenza cambiano da libro a libro. Il secondo libro è tutto sul mondo umano e sull’incubo burocratico di quel mondo, l’irrazionalità di quel mondo, che doveva essere almeno pari all’irrazionalità percepita dell’Area X. A mio parere.
Ma non volevi che avesse un’ambientazione specifica.
No. Ho voluto mantenere una certa distanza, non volevo che venisse chiamata Florida, volevo che combinasse esperienze diverse tra di loro con la mia immaginazione, in modo da trasmettere un’idea del Sud-Est degli Stati Uniti senza mai dirlo esplicitamente. Altrimenti poi si crea una componente di ricerca, devi essere fedele nella descrizione ad una realtà che esiste davvero, anziché essere fedele all’idea di certi aspetti, o consistenze, o toni. Se rendo l’idea.
Ho anche avuto la sensazione, leggendo i tre libri, che ci fosse una tensione molto interessante tra quelle che io percepivo come delle idee naturali, diciamo, che sembravano emergere in modo pseudo-naturale nel processo di scrittura, e altri elementi pianificati invece con molta attenzione. Hai seguito uno schema per la trama?
Le prime dieci pagine di Annientamento sono rimaste praticamente identiche alla prima bozza, tranne per qualche piccolo cambiamento. Ma da lì in poi, l’idea è sempre quella di lasciare alla tua immaginazione lo spazio per crescere, organicamente, ma al tempo stesso avere una direzione su cui focalizzarsi, in modo da poterla, come dire, incanalare. Non ho davvero lavorato con uno schema rigido, ma avevo un’idea di struttura per Annientamento. Non importa se fisicamente andavi su o giù, su per un faro o giù in un tunnel, diciamo, ma che il suo andamento, la struttura, dovesse sempre andare giù. Quando prosegui nel romanzo, il disorientamento è tale che ti ambienti per un paio di pagine ma poi rimani di nuovo disorientato. E ti ambienti, e rimani disorientato, di continuo, e tutto quel processo è come scendere una rampa di scale nel tunnel. È come se tu fossi sempre nella torre/tunnel, parlando metaforicamente, anche se non sei fisicamente lì per l’intera durata del romanzo. Quindi quella è la struttura che avevo in mente per Annientamento. Mentre l’arco che compie il personaggio della biologa è praticamente l’opposto: lei ascende, diventa sempre più se stessa.
Questo disorientamento che continua e cresce costantemente, di cui hai parlato per Annientamento: era un’idea iniziale, di quando hai concepito il romanzo, o è nata quando hai avuto il primo sogno?
Ho sognato che camminavo dentro il tunnel della torre, c’erano delle parole viventi sulle pareti e qualcosa di strano giù in fondo, qualcosa che non volevo vedere. E poi mi sono svegliato nel cuore della notte e ho scritto le parole sul muro. Quelle parole non sono cambiate per niente nel romanzo finale. Il romanzo è iniziato così.
Giusto per fare capire ai nostri lettori quanto è folle questa cosa, eccole: “Dove giace il frutto soffocante che giunse dalla mano del peccatore io partorirò i semi dei morti per dividerli coi vermi che si raccolgono nelle tenebre e circondano il mondo col potere delle loro vite mentre dagli antri oscuri di altri luoghi forme che non potrebbero mai essere si contorcono impazienti per i pochi che non hanno mai visto o non sono mai stati visti…” È… incredibile. Ho letto che tutto il testo ti è venuto in sogno. È sbalorditivo, davvero.
[ride] Sì. Lo è. Ma aveva abbastanza senso, e non volevo toccarlo. Sembrava semplicemente che non volesse essere modificato. Cambiandolo, mi sembrava che potessi perdere qualcosa che non sapevo nemmeno di perdere. Quindi l’ho lasciato.
È come se toccando quel testo, l’incantesimo potesse rompersi.
Faccio sogni abbastanza spesso e la maggior parte delle volte non portano a niente. Ma questa volta, mi sono svegliato di nuovo al mattino e avevo il personaggio della biologa in testa. Sono corso al computer – che è insolito, perché solitamente scrivo a mano – e ho scritto le prime dieci pagine. E poi ho preso degli appunti in cui buttavo giù dei flash di tutto il resto. Tendo ad annotare dei piccoli frammenti di scene e cose così prima di scrivere, e per la fine del terzo giorno avevo tutti questi frammenti che conducevano praticamente fino alla fine, con alcune delle frasi più evocative, come delle ancore, già in mente. Quindi mi è venuto in modo molto naturale. Avevo appena finito di lavorare a questo libro chiamato The Weird: un’antologia di 100 anni di weird fiction. E quello ha creato una specie di strato nella mia testa. Avevo in testa sei milioni di parole di weird fiction che ho dovuto leggere e assimilare. Credo davvero che il mio inconscio le abbia organizzate e condensate in una specie di strato sedimentario nel mio cervello rettiliano, perché riguardando Annientamento vedo così tanti tropi diversi di fantascienza e fantasy che sono come… compressi. Che è la ragione per cui penso che sia disorientante – perché credi che sia una cosa e poi diventa un’altra e un’altra ancora, perché queste idee sono accumulate l’una sull’altra. Quindi anche un’idea familiare diventa estranea per la sua prossimità a così tante altre.
Mi sembra che i romanzi abbiano molto a che fare con la nostra incapacità di capire o spiegare il mondo naturale. Area X è come la natura, nel senso che è una cosa gigante e complessa e che non si spiega da sola. Non è che un albero ti spiega come funziona una giungla, no? E ho come l’impressione che tu voglia proporre l’idea che dovremmo essere un po’ più umili, quando affrontiamo la natura e cerchiamo di capire il mondo naturale. In una lettura più pessimista, forse non ne siamo proprio in grado.
Non mi piacciono per niente quei romanzi che finiscono con una specie di spiegazione improvvisa alla quale il personaggio non sarebbe mai potuto arrivare in realtà. E poi sì, c’è anche la questione di cosa possiamo e non possiamo percepire attraverso i nostri sensi. E ho suggerito da altre parti, in alcuni discorsi sull’ambiente che ho tenuto, che sarebbe probabilmente molto educativo se potessimo usare l’Oculus Rift o qualche altro strumento di realtà virtuale per vedere anche il nostro stesso quartiere meglio. Sai, vedere le scie chimiche, per così dire, lasciate dagli insetti, e tutti gli altri tipi di comunicazione e di segnali che avvengono attorno a noi, cose molto complesse che semplicemente non possiamo vedere. E perché non possiamo vederle, tendiamo a considerare il mondo intorno a noi in modo più semplicistico di quello che è. E tendiamo a distruggere cose o cambiare cose prima ancora di averle veramente capite.
Già, ed è un vero peccato.
Un buon esempio è quello della micologia, lo studio dei funghi e delle muffe. Ci sono un sacco di applicazioni pratiche per quelle cose. Proprio adesso penso che ci sia un brevetto in sospeso per un materiale fungino organico che rimpiazzerebbe il polistirolo: lo butti in giardino e in un mese si biodegrada. Sai, cose così, cose che potrebbero sostituire la plastica, potrebbero sostituire sostanze che abbiamo creato nel nostro mondo tecnologico, sostanze che di fatto sono incredibilmente tossiche e che richiedono un sacco di energia fossile per essere create. Semplicemente, se imitassimo e capissimo meglio il processo effettivo di quello che succede in natura… Cioè, ad esempio, per me è affascinante che gli scienziati abbiano appena iniziato a comprendere la complessità dei percorsi dei miceli dei funghi sotto terra, che sono, in pratica, delle vie di comunicazione tra alberi, delle autostrade di funghi che uniscono tutti gli alberi in una foresta.
Ne ho letto. È incredibile.
Sì. Inizia a sembrare fantascienza ma, di fatto, è il modo in cui funziona il mondo. Volevo arrivare a questo, e all’idea che, come dici, dovremmo essere più umili. E non perché sono anti-umano, è semplicemente che, come scrittore di narrativa, credo che la letteratura dovrebbe provare a spiegare la complessità del mondo, e suppongo che spesso questo emerge nella complessità del rapporto emotivo tra essere umani – e va bene così. Ma in un sacco di casi, specialmente adesso, con il riscaldamento globale, è molto importante cercare di capire la vera natura del mondo intorno a noi. Un’altra questione che emerge nei romanzi è l’idea della contaminazione. L’idea che non c’è interno/ esterno, o corpo/ non-corpo, nel senso che anche moltissimi studi recenti sui microbi dimostrano che c’è un flusso più grande di quello che pensavamo tra noi e l’ambiente intorno a noi. C’è molta più comunicazione e interazione di quanto non siamo consapevoli. Se potessimo vedere il mondo più in quel modo, vedremmo effettivamente molta più connessione. E penso che ogni volta che vedi più connessione, che siano connessioni a livello umano o più in generale in quello che chiamiamo mondo naturale, aumenta la possibilità di provare empatia, e di capire e abitare un altro punto di vista. E penso che sia proprio quello di cui abbiamo bisogno. Oltre a, tipo, convertirci all’energia solare. Convertirci all’energia solare e sperare di evitare la calamità… se non cambiamo la nostra filosofia, finiremo col trovarci di nuovo allo stesso punto, alla fine.
Mi sembra che da un paio di anni ci sia stato uno spostamento, nel mondo della fantascienza, verso, diciamo… la biologia, la virologia, l’ecologia, anziché la “classica” fantascienza che spesso tratta di fisica e astrofisica e ingegneria e quel tipo di scienze, diciamo, “hard-tech”. In generale, il nostro posto nel mondo naturale sembra una delle preoccupazioni più grandi dei nostri tempi. E anche una delle più grandi paure dei nostri tempi. Stavo leggendo quel famoso saggio di Margaret Atwood, dal titolo molto appropriato: It’s not climate-change, it’s everything-change. E già il titolo dice tutto.
Sì, è vero, e in particolare la narrativa fantastica e quella weird sono molto adatte per affrontare questi argomenti, perché hanno a che fare con l’irrazionalità del modo in cui affrontiamo i problemi, perché possono parlare di qualcuno che incontra qualcosa di così grande, così strano, così impossibile da vedere in tutta la sua portata, che ti senti schiacciato. E il riscaldamento globale è un po’ una cosa così, è un iper-oggetto. Il nostro problema, come dice Timothy Morton, è semplicemente la sua vastità. Il cervello umano non si è evoluto a sufficienza per comprendere veramente qualcosa di così grande, o per fare qualcosa di più che reagire stupidamente. E questa è una delle ragioni per cui facciamo così fatica ad agire in maniera coordinata. Penso davvero che la weird fiction sia molto utile per affrontare problemi come questo. O anche la narrativa in generale. Trovo allarmante che alcune persone da lati diversi, che difendono dei cosiddetti “territori”, dicano che la narrativa realistica sia più adatta ad affrontare questo argomento a differenza della narrativa fantastica, o vice versa. Possono esserci approcci interessanti da tutti gli ambiti.
Chiaro.
E comunque, quello che è più interessante è che ci troviamo già nel mezzo di questa cosa adesso. Siamo in un futuro fantascientifico adesso, molto profondamente, e non tutti se ne rendono conto, ma è davvero quello che sta succedendo, con questi eventi climatici estremi, il cambiamento climatico, Marte e così via. Quindi quello che sta succedendo è che la narrativa mainstream, che non è fantascienza, che non è weird fiction, che è molto realistica, sta affrontando anche queste questioni – proprio perché sono tutto intorno a noi – e a volte in modo più efficace della fantascienza. In effetti, c’è qualcosa a proposito della fazione “soluzionista” della fantascienza, del si-può-fare, del la-scienza-deve-risolvere-tutto, che è molto antitetica rispetto alle sfumature e alla complessità di quello che stiamo affrontando. Ma sono contento che le persone ci si stiano confrontando. E sono molto comprensivo con le persone che lo stanno facendo male, perché è una cosa così difficile da affrontare, è così difficile da mettere nella tua scrittura senza essere didascalici né fare una predica, senza che sia solo un saggio in forma di racconto… perché a quel punto scrivi un saggio e basta.
A proposito di questa dicotomia tra narrativa mainstream e di genere, la trovo piuttosto banale e un po’ infantile a volte. Specialmente se si conosce la storia della letteratura.
Sì, e funziona in entrambi i sensi. Ci sono gli snob, e anche gli “snob al contrario”, quelli che amano la fantascienza e snobbano la “letteratura classica”.
Sì, ma pensiamo a William Gibson. Dopo aver essenzialmente inventato il cyberpunk, gli ultimi romanzi li ha ambientati nel presente, sostenendo che ci troviamo già in un mondo fantascientifico, che non c’è un “adesso” fisso, nessun presente da cui contemplare un possibile “futuro”. Nel frattempo, la letteratura di genere è diventata mainstream. Da ragazzo non avrei mai immaginato che ci sarebbero stati dieci supereroi Marvel al cinema e che scrittori “seri”, vincitori del Premio Pulitzer per la letteratura, avrebbero scritto romanzi post-apocalittici.
Per me è strano perché ho iniziato con la letteratura mainstream. Sono stato a lungo un poeta. Ho redatto un giornale di poesia, diciamo “mainstream”, quindi ero parecchio dentro quel mondo. Poi, quando ho iniziato a scrivere romanzi, erano abbastanza kafkiani, che nell’ambiente editoriale statunitense vuol dire di genere. Quindi ho vissuto in questi due mondi, che è il motivo per cui trovo tutta questa cosa ridicola. Perché semplicemente prendo il meglio da entrambi, e amo entrambi: amo un sacco di cose che non contengono nessun tipo di elemento fantastico e amo la libertà di non dover scegliere un lato. Davvero non mi interessano i territori e il tribalismo. Ma devo dire che c’è stata un’altra cosa, oltre a Gibson, che ha aiutato a sciogliere un po’ le cose, ed è stata la trilogia di MaddAdam di Margaret Atwood, specialmente il primo libro, L’ultimo degli uomini, che in effetti ha ricevuto un sacco di critiche nel circolo degli scrittori di genere. “Com’è che scrivi nel nostro territorio?”, dicevano. Cose così. Ma questo è proprio quello che ha catturato l’attenzione degli editori mainstream, dal punto di vista del marketing, li ha fatti sedere e dire “Oh, possiamo vendere la fantascienza! Possiamo venderla come letteratura, se lo facciamo nel modo giusto”. E questo ha avuto l’effetto culturale pratico di aprire un sacco di opportunità. Incluso, ad esempio, il fatto che Farrar, Strauss e Giroux abbia pubblicato la Trilogia dell’Area X, che è stata una manna per me.
Stavo guardando la bellissima edizione della FSG vicino a dei libri di fantascienza pubblicati da editori di genere e le loro copertine sono… così brutte. Sembrano un manuale per un sofware di grafica degli anni Novanta. E pensavo, semplicemente scambiando le copertine, La trilogia dell’Area X sarebbe comunque piaciuta alle persone allo stesso modo? L’avremmo comunque fatta questa intervista, per un sito come questo?
Il punto di accesso fa una differenza enorme, credo. Il punto di accesso per la trilogia sarebbe potuto essere una spedizione in un luogo selvaggio, strano e incontaminato… oppure avresti potuto mettere in primo piano gli elementi fantastici. Se fosse stato pubblicato da un editore di genere, avrebbero fatto così. Ma io sono sempre per massimizzare il numero di lettori che posso raggiungere. A volte faccio delle cose che sono molto poco commerciali, e riconosco che vuol dire raggiungere un pubblico ristretto, ma per questo libro, ho pensato che visto che era ambientato nel “mondo reale”, aveva il giusto punto di accesso per il lettore, che se veniva fatto entrare nel modo giusto, alcune delle cose più strane gli sarebbero comunque risultate più digeribili. E so che altri editori statunitensi avrebbero scelto un tipo di copertina post-apocalittica. Magari avrebbe avuto un faro scuro, oppure una strana creatura in copertina, ma questi libri non sono solo su questo. E sono molto grato a FSG per averlo capito.
Il fatto che questo libro sia uscito per FSG è uno di questi momenti di confluenza tra letteratura classica e di genere di cui parlavamo prima a proposito di Gibson e Atwood.
Mi sento molto fortunato a questo proposito. Sai, avevo certi libri che erano perfetti per un pubblico di appassionati alla letteratura di genere, e altri per cui era chiaro per me, prima ancora che fossero venduti, che dovevano essere disponibili, o visti – o, almeno, non essere invisibili – anche da un pubblico mainstream. Ero assolutamente certo riguardo a questa trilogia. E sta decisamente dando dei risultati. Annientamento, ad esempio, finora negli Stati Uniti ha venduto ben più di centomila copie e potrebbe raggiungere altri traguardi nel prossimo anno. E questo perché hanno allargato la sua portata, l’hanno reso appetibile per un lettore generico che di solito non legge fantascienza o weird ficition. E questo ovviamente è perché hanno una certa… impressione della fantascienza.
Considerando anche il successo della trilogia dell’Area X… in Italia è capitata una cosa abbastanza storica. Non so se lo sai, ma Einaudi, che ha pubblicato il tuo libro in Italia, beh, è abbastanza difficile trovare qualcosa di più letterario. È tipo la casa editrice più letteraria in Italia.
E sono rimasto molto, molto colpito dall’edizione italiana.
È molto difficile capire dove trovare il tuo libro nelle librerie italiane, perché a volte è nella sezione di fantascienza, altre in narrativa, altre in fantasy e una volta l’ho trovato nei noir. Volevo solo farti sapere che una volta, a Palermo, l’ho trovato in noir-gialli-thriller.
Dipende ovviamente da come sono le cose in una certa nazione o mercato. Può anche essere, presumo, una cosa negativa, a seconda del libro, venire pubblicato come letteratura mainstream se ha degli elementi più fantastici. La cosa che mi ha stupito di più è che adesso ci sono 35 edizioni straniere, e devo ancora vedere una brutta copertina. Quasi tutte le copertine sono delle incredibili opere d’arte e non so nemmeno come è successo, ma ha generato tutte queste illustrazioni incredibili che sono semplicemente splendide per me, e sono abbastanza pignolo con le copertine. Adoro quelle italiane.
Hai citato Timothy Morton e Hyper-objects. L’hai letto prima di scrivere il tuo libro o è qualcosa che è successo in contemporanea e di cui sei venuto a sapere dopo? Perché è davvero sconcertante quanto l’idea degli iper-oggetti e la nostra incapacità di descrivere qualcosa di così vasto e inspiegabile come la natura si applichi bene all’Area X e al modo in cui le persone sembrano non riuscire ad affrontarla nei romanzi.
Torno un po’ indietro e ti dico che una delle maggiori ispirazioni per la trilogia e specialmente per l’area X è stata la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico. E lo dico perché quella è stata una specie di iper-oggetto. Nel senso che per noi che viviamo in Florida e conosciamo la costa e temiamo per lei, per le catastrofi ambientali, quando il petrolio ribolliva e sembrava che non fosse possibile fermarlo, e alcune persone dicevano che non si sarebbe fermato per vent’anni e che l’intero Golfo sarebbe diventato una gigantesca fuoriuscita di petrolio… ce l’avevamo sempre in testa, praticamente sgorgava senza sosta nelle nostre teste in un modo molto reale, molto stressante. Penso che il mio inconscio l’abbia trasformato in “Voglio proteggere quell’area, che è diventata l’Area X, un luogo di natura e acque incontaminate, circondato da un confine o da un muro”. Questo è molto letteralmente quello che il mio cervello ha fatto e poi l’ha trasformato in una storia. Quindi c’era questo iper-oggetto della fuoriuscita di petrolio nel Golfo che esisteva nella mia mente mentre scrivevo. Non mi sono imbattuto nella teoria di Timothy Morton finché non l’ho letta in una delle recensioni del libro e si è accesa una lampadina ed è stato Wow! E poi ho letto tutto quello che potevo su quel termine. Credo profondamente che ci siano delle cose che vengono inserite inconsciamente in un romanzo, e una volta che scopri cosa sono a un livello cosciente devi poi studiarle. Poi il modo in cui esprimi quelle idee, dopo avere studiate consciamente, sarà molto diverso nei tuoi romanzi successivi.
Giusto.
E poi diventa molto emozionante per me studiarli in modo formale, diciamo. Sembra sconcertante, certo, eccetto che penso che la maggior parte di noi incontra questi iper-oggetti nelle nostre vite, il che dimostra che la teoria è buona, che il termine è accurato. Persino un libro come Imperial di William Vollmann, sul lago Salton, non è un romanzo. È un libro molto ripetitivo, che continua a tornare sulle stesse domande e aspetti del lago Salton – una catastrofe ambientale peggiorata dal riscaldamento globale, e cerca di spiegarlo ma continua a rimanere bloccato su quello. E alla fine mi sono reso conto che se il libro è ripetitivo – il motivo per cui ha alcune somiglianze con i problemi della Southern Reach quando cerca di esplorare l’Area X – è perché l’autore ha trovato lì un iper-oggetto. E probabilmente non se n’è neanche reso conto, ma le ripetizioni sono lì perché lui vuole provare a capire questa cosa che è successa, ma non è veramente comprensibile, perché è troppo vasta, troppo complessa. Trovo questo tipo di eco molto affascinante.
In termini di filosofia, la trilogia dell’Area X riecheggia anche le nuove teorie su come interpretiamo la coscienza, come abbiamo attribuito, storicamente, una coscienza solo a quegli animali che sanno parlare una lingua.
Giusto. La maggior parte dei romanzi esprime idee sugli animali che sono 20 o 30 anni in ritardo rispetto alla ricerca – continuano a promuovere dei cliché non scientifici che sono dannosi alla nostra comprensione e alla predisposizione mentale necessaria per salvare i nostri ecosistemi. È scioccante a volte – gli stessi scrittori che non si sognerebbero mai di sbagliare qualcosa di fisica, o l’anatomia delle dinamiche famigliari in una certa società, non sembrano in grado di capire che gli animali sono molto più complessi di quanto pensavamo una volta – e sembra non gli importi.
Stai lavorando su un libro di non fiction che affronta alcuni di questi temi, giusto?
Ho scritto circa ventimila parole finora. Una parte è basata su dei saggi pubblicati sul sito Electric Literature e una parte è scritta apposta per il libro. Essenzialmente è un libro sullo storytelling, sia di narrativa che di saggistica, riguardo al nostro ambiente, ai nostri ambienti naturali, e ovviamente alle figure chiave di quegli ambienti: gli animali, come vediamo gli animali. Quindi c’è una sorta di sezione storica che parla dei vari modi in cui abbiamo affrontato questa cosa, dalle leggende popolari ad altre cose, fino a una sezione sul presente, sia in narrativa che nella scienza. E poi c’è una sezione argomentativa: come sarebbe lo storytelling se incorporassimo veramente questa complessità trovando però un modo di trasformarla in una narrativa coerente, che parla ai lettori, che non è troppo sperimentale, nonostante io elenchi anche delle cose sperimentali. Quindi è una sorta di “libro dei se” che è fondato sulla storia e penso sia diverso da altri libri che ci sono sul riscaldamento globale per questo, perché cerca di trovare un modo organico di parlare di storytelling sia realistico che di finzione su quello che ci ha portato al riscaldamento globale. O cosa ci ha portato agli atteggiamenti che ci hanno permesso di sviluppare questa situazione… Quindi è anche una sorta di accusa al mondo industriale, ma ho cercato di non farla diventare una polemica, di rimanere sul lato creativo delle cose.
Sembra molto interessante.
Forse, lo spero. Tutte le volte che faccio un salto nel vuoto così non so mai cosa mi aspetta sul fondo, se sarà un libro completo o solo un casino quindi… Vedremo.
Stavo intervistando un mio amico, un fumettista, e mi diceva che lui crede davvero che le idee fluttuano nell’aria e i creativi e gli artisti hanno delle antenne migliori per catturare queste idee, per strapparle dall’inconscio collettivo.
Da artista o scrittore o altro devi affrontare le cose in modo indiretto, per poter catturare le sfumature. È un effetto diverso rispetto all’affrontare le cose direttamente, nel modo in cui altre persone devono affrontare questi problemi, che è anche un modo in cui si devono affrontare collettivamente. Ma questo significa che ricevi queste specie di… echi. Quindi, sai, i dipartimenti scientifici, e gli scienziati in generale, stanno tutti cercando dei modi per raccontare il loro lavoro in modo migliore, che è una parte enorme di quello di cui stiamo parlando. Il riscaldamento globale è una specie di iper-oggetto sfida. Gli scienziati indagano una marea di dati e devono ricavarne un senso, e raccontarlo a diversi gruppi di persone; al pubblico, o anche a persone delle loro stesse istituzioni che lavorano in ambiti della scienza diversi. Ed è per questo che vedi sempre più conferenze dove ci sono filosofi, scienziati, musicisti, romanzieri e altri in uno spazio comune, dove normalmente non si troverebbero insieme. Ricevo un sacco di inviti dalle università dove il dipartimento di scienza mi chiama per parlare di Annientamento.
Si dice che il primo romanzo inglese è stato probabilmente Diario dell’anno della peste, un libro del 1722 di Daniel Defoe. Ma quel libro è considerato anche il primo esempio di non-fiction in letteratura. E parlava di un’epidemia, quindi, come dire, scienza, non-fiction e letteratura sono legate assieme proprio dagli albori.
Giusto, giusto. [ride] La cosa affascinante è che gli scienziati nel Diciannovesimo secolo non avevano questa divisione – parlando di divisione tra letteratura di genere e mainstream – non c’era una grande divisione tra letteratura e scienza in generale. C’erano scienziati che raccontavano le loro scoperte in forma di poesia, senza parlare di tutta la tradizione dei contes philosphiques. C’era anche un tipo di racconto più generalizzato, che è qualcosa verso cui vedo un ritorno, perché per capire queste cose, per provare a spiegare questi iper-oggetti, non puoi startene nel tuo angolo in disparte. Sai, ti serve quell’angolo, ma ti serve anche una comprensione più ampia. È interessante come tutto ritorna ai diversi modi di raccontare.