L a scorsa primavera, la casa di produzione A24 ha diffuso un video in cui il regista Ari Aster definisce Beau Is Afraid (2023), il suo terzo lungometraggio, un “jewish Lord of the Rings”. Aster ha dedicato dieci anni alla scrittura della sceneggiatura, la sua ultima interpretazione del genere horror, che si dipana come un labirintico intreccio di riferimenti alla cultura ebraica. Lo fa a partire dal tema della colpa, con l’America sedata dagli psicofarmaci sullo sfondo.
Nella scena d’apertura, dopo qualche secondo di buio e confusione, una lenta carrellata si sofferma su Beau, interpretato da Joaquin Phoenix. È seduto davanti al suo terapista, non dice molto, parla solo del viaggio che dovrà compiere per andare a trovare sua madre Mona, ma durante l’arco di tutta la seduta, il terapista non batte ciglio e si appunta una sola parola: guilty.
Nelle sequenze successive, Beau torna nel suo appartamento, un posto anonimo dove vive in compagnia delle sue fobie. Il quartiere assomiglia all’East Village di New York, ma come lo disegnerebbe Dan Clowes in Eightball. Ari Aster è stato ispirato dal surrealismo oscuro di Clowes e in un’intervista su Reverse Shot, usa l’espressione “chicken fat”, mutuandola dal gergo dei fumettisti, per esprimere la densità di dettagli con cui ha voluto costruire ogni singolo frame. La scelta di tradurre l’immaginario di Clowes su pellicola è evidente nelle scene ambientate nel quartiere. Sotto casa di Beau aleggiano pericoli di ogni sorta. Il quartiere è popolato solo da ladri e assassini che sembrano intenzionati a ucciderlo senza un motivo apparente.
Si tratta di una colpa ereditata, scritta nel destino di colui che vive nel sogno di qualcun altro: quello dei suoi genitori.
Beau è al telefono con sua madre, che lo invita a non fare tardi per l’anniversario della morte di suo marito, il padre di Beau, morto prima che lui nascesse. I bagagli sono pronti. Non resta che chiudere la telefonata e prendere un taxi per l’aeroporto, ma proprio nel momento in cui Beau sta per chiudere la porta di casa, si accorge di aver dimenticato lo spazzolino da denti, lascia sul pianerottolo i bagagli e le chiavi infilate nella serratura ma rientrato in casa non trova più né la sua valigia, né le sue chiavi e rimane intrappolato dentro casa.
La sequenza è pressoché identica a quella del corto Beau (2011), uno dei primi lavori di Aster. In entrambi i film i protagonisti sono stati derubati prima di mettersi in viaggio per raggiungere la loro madre. Lo scarto tra il corto e il lungometraggio è dato dal dinamismo innescato fra il dentro e il fuori l’appartamento: se in Beau il protagonista non uscirà mai di casa, nel film con Joaquin Phoenix si assiste a una tragica epopea, cadenzata in almeno quattro ambientazioni differenti. Il Beau del corto, invece, è in balia di un collezionista di chiavi: un burattinaio che si prende gioco di lui e che ha preso il posto della madre del protagonista, quasi come accade a John Malkovich in Being John Malkovich (1999) di Charlie Kaufman.
L’appartamento di Beau è stato preso d’assedio dai suoi vicini di casa, costringendolo ad abbandonarlo, senza potervi più fare ritorno. È obbligato a vagare e imbattersi in una serie di esperienze che potrebbero essere reali oppure solo 179 minuti di allucinazioni: gli effetti collaterali dello Zypnotycril, potente antidepressivo prescritto dal terapeuta. Assume il farmaco dopo aver ricevuto un’altra chiamata dal telefono della madre. Dall’altra parte della cornetta c’è un fattorino della UPS al quale spetta il compito di comunicare a Beau la morte di Mona, schiacciata da un enorme lampadario nella sua villa. Ora, la missione di Beau è quella di raggiungere il funerale della madre.
Acciaccato da svariati e assurdi incidenti, Beau prosegue il suo viaggio. La sua abnegazione passa inosservata, riceve di continuo telefonate in cui è accusato di ritardare la celebrazione della cerimonia. È giudicato negligente a tal punto da essere considerato l’unico colpevole dell’indecoroso allestimento del feretro, per via dell’avanzato stato di decomposizione di sua madre. Beau avverte ogni complicazione e rallentamento come una colpa che gli appartiene, pur non riuscendo a comprenderla come tale. Ma la colpa è proprio l’incapacità di considerarsi colpevole, come Josef K. nel Processo. In Beau Is Afraid si tratta di una colpa ereditata, scritta nel destino di colui che vive nel sogno di qualcun altro: quello dei suoi genitori.
Le psicosi di Beau derivano dalla consapevolezza che il suo concepimento ha portato alla morte di suo padre, ereditando un destino che suona come una condanna e dal quale non può fuggire, ovvero quello dell’essere un figlio colpevole.
Mona Wassermann è un’imprenditrice di successo famosa in tutti gli Stati Uniti. I tratti del suo personaggio sono svelati lentamente, lungo tutto il viaggio di Beau. Mona risulta una donna immensa, che è riuscita a fondare un impero nonostante il trauma della tragica morte del marito, affetto da una malformazione ereditaria al cuore. L’uomo è morto per lo sforzo di concepire il suo unico figlio, che coincide con la prima esperienza sessuale per lui e per Mona. Beau è nato dal sacrificio amorevole del padre ed è cresciuto grazie all’invadente dedizione di Mona, divenuta madre perdendo la sua identità precedente di donna, di moglie, di persona amata e desiderata. Per Mona il trauma della morte del marito è sublimato nella negazione del lutto, tramite la castrazione simbolica del figlio.
Sin dall’infanzia, Beau si fa persuadere di aver ereditato la stessa patologia del padre. La madre lo mette in guardia sui rischi che correrebbe provando l’orgasmo. In Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974) Emmanuel Lévinas, filosofo francese di origini ebraiche, dà valore ontologico al godimento come principio di individuazione. Secondo Lévinas il piacere derivato dal soddisfacimento di un bisogno mette il soggetto in relazione con l’altro, ponendo i confini. Mona, inibendo nel figlio il godimento, pensa di salvarlo da morte precoce, ma il divieto gli impedisce di esistere in quanto individuo, generando in lui psicosi e fobie di ogni tipo. Beau ha paura di trovare la sua strada, di uscire di casa, di stare in mezzo alle persone, di amare, di deludere la madre, di non essere all’altezza di chi gli ha donato la vita. Beau ha paura perché si sente in colpa e sa che, prima o poi, verrà punito.
In tedesco, la parola Schuld indica sia colpa, sia debito. L’indagine di Friedrich Nietzsche sull’origine del nesso tra colpa, debito ed espiazione arriva ad una possibile interpretazione alla fine del secondo capitolo della Genealogia della morale (1887): “La coscienza di essere in debito nei confronti della divinità non si estingue – come insegna la storia – neppure dopo il declino di quella forma d’organizzazione della ‘comunità’ fondata sull’affinità di sangue […] l’umanità ha ricevuto, insieme con l’ereditarietà della divinità della stirpe e della tribù, anche quella del peso dei debiti non ancora soddisfatti e del desiderio di estinguerli.” Secondo Nietzsche, il dovere morale di amare un dio severo è il tentativo di colmare un debito, di espiare la colpa del peccato originale. Un gesto autolesionistico che provoca il costituirsi della cattiva coscienza e, di conseguenza, il venir meno di quella che Nietzsche definisce volontà di potenza. L’uomo potrà realmente autodeterminarsi solo quando sarà libero dalla colpa, dal peccato originale, che si tramanda fin dagli albori della civiltà occidentale, come un morbo: “Considero la cattiva coscienza come quella grave malattia in balìa della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale delle metamorfosi che egli ha mai vissuto – quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della pace”.
Mona, inibendo nel figlio il godimento, pensa di salvarlo da morte precoce, ma il divieto gli impedisce di esistere in quanto individuo, generando in lui psicosi e fobie di ogni tipo.
Il parallelismo tra malattie ereditarie e destino è il cardine di Hereditary, primo lungometraggio di Aster, in cui le malattie mentali sono rappresentate come poteri occulti congeniti. Anche qui la colpa e il lutto sono centrali. In una delle scene iniziali, durante un incontro con un gruppo di supporto, la protagonista Annie descrive il rapporto difficile con sua madre Joan, morta di recente. Dice di essersi allontanata dalla famiglia d’origine per proteggere il suo primogenito dall’influenza maligna di Joan, ma di non essere riuscita a fare altrettanto con la figlia più piccola. Nel suo lungo monologo, Annie dà sfogo al senso di colpa che la pervade per aver attribuito a sua madre l’origine dei gravi disturbi mentali dei suoi famigliari. Ma allo stesso tempo, parla con sospetto della morbosità di Joan quando insisteva nell’allattare lei la nipote appena nata, la secondogenita di Annie, quasi come se volesse contaminarla. L’intuizione della protagonista si avvera nel susseguirsi di avvenimenti terrificanti, legati al passato esoterico di sua madre. In Hereditary l’analogia tra malattie mentali e poteri occulti è tenuta insieme dalla presunta trasmissibilità fra consanguinei: un destino inscritto nella carne, impossibile da eludere.
Le psicosi di Beau derivano dalla consapevolezza che il suo concepimento ha portato alla morte di suo padre, ereditando un destino che suona come una condanna e dal quale non può fuggire, ovvero quello dell’essere un figlio colpevole. Nel terzo saggio de L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), Sigmund Freud fa risalire il concetto di colpa della cultura ebraica all’assassinio del padre primordiale:
Si direbbe che un crescente senso di colpa s’impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico-religioso, fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, recuperò questo senso di colpa e lo ricondusse correttamente alle sue prime fonti storiche. Chiamò queste il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato. Con il peccato originale la morte venne nel mondo. In effetti questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato.
Lo shock per aver ucciso il padre primordiale è un trauma che resta latente, ereditato dai discendenti dei popoli del Mediterraneo e del popolo ebraico in primis. L’avvento del cristianesimo, invece, coincide con il tentativo di rielaborare il rimosso, tramite l’espiazione del peccato originale, con la morte di Cristo. Anche Beau espierà una colpa ereditata. Lo farà alla fine del film, dinanzi ad un tribunale dell’assurdo, in cui sua madre Mona è il giudice. È una donna dalla immane potenza, capace di offuscare totalmente la figura paterna, assente e onnipresente al contempo.
In Beau Is Afraid, l’imponenza della madre e la fragilità del padre ricordano le figure genitoriali di Alex, il protagonista nel romanzo Lamento di Portnoy (1969) di Philip Roth. Il padre è un inetto, un ignorante, schiavo del lavoro e affetto da una incurabile stitichezza cronica. Rispetta i suoi doveri e si sacrifica per prendersi cura della sua famiglia, provando un amore senza riserve. Il padre di Alex vede nei figli la possibilità di riscattarsi, riflettendo le sue ambizioni sul loro futuro. Alex ne è consapevole: “Là dove lui era stato prigioniero, io avrei volato: ecco il suo sogno. Il mio ne era il corollario: la mia liberazione sarebbe stata la sua, dall’ignoranza, dallo sfruttamento, dall’anonimato. Tutt’oggi nella mia immaginazione i nostri destini restano mescolati”. Sua madre, al contrario, è descritta come una donna dalla rettitudine ferrea, colei che riesce in tutto, tanto da definirsi “troppo in gamba” rispetto agli altri. Una donna che esercita carisma e un controllo tale da estendersi fino alla vita intima di Alex, preparando il terreno per la crescita di un adulto erotomane, impotente e nevrotico.
In uno dei passi più celebri del romanzo, Alex Portnoy chiede pietà al suo psicanalista chiedendogli:
Chi ci ha reso fiacchi e deboli? Perché continuano a urlare “Attento! Non farlo! Alex – no!”
È perché solo nel mio letto di New York continuo a menarmelo senza remissione? Dottore, come chiama questa malattia? È la pena ebraica di cui ho sentito tanto parlare? È l’eredità trasmessami dai pogrom e dalle persecuzioni?.
Lo incalza fino a chiedergli: “Dottore non resisto più a farmi spaventare così per niente.” Alex ha paura e alla rigida grandezza della madre si oppone diventando un pervertito. Non potendo ambire alla rettitudine, infrange le regole, ma senza riuscire a liberarsi fino in fondo dalla castrazione subita. Non avverte l’amore di sua madre come un sentimento incondizionato, ma come un debito da risarcire e che mai potrà permettersi di saldare. Perché Alex non è nato per essere austero e non riesce a vivere solo di principi. Chi sente di non poter in alcun modo redimersi, si condanna a un’esistenza al di fuori da ogni assoluzione, da ciò che è giusto, dalla legge ed è costretto ad errare. Anche Beau non potrà mai redimersi dalle sue colpe. Mona è inarrivabile, non c’è modo di ricambiare l’amore materno. Il destino di Beau è quello di essere in debito con sua madre: la sua vita non gli appartiene perché non è capace di occuparsene. È condannato a provare paura perché non si sente all’altezza della sua stessa esistenza.
Se le nevrosi inducono Alex Portnoy ad infrangere le regole di sua madre, della sua religione e del decoro, al contrario Beau è immobilizzato dalle sue, ridotto all’inazione. Verso gli ultimi momenti di Beau Is Afraid, in una delle tante sequenze oniriche, Aster mette in scena uno dei traumi primari di Beau. Sua madre è giovane, vestita impeccabilmente mentre prepara la vasca da bagno per i suoi due figli: Beau e il suo gemello. Uno dei due insiste per non lavarsi. L’altro Beau resta a guardare mentre il gemello ribelle viene rinchiuso per sempre nella soffitta, identica a quella in cui Annie, in Hereditary, conservava l’eredità stregonesca della madre. In Beau Is Afraid, la soffitta in cui il gemello simbolico di Beau è imprigionato è dimora di un fallo gigantesco, dallo scroto ipertrofico. La soffitta è il luogo figurato del rimosso, degli orrori che abitano l’inconscio e quello di Beau è popolato da pulsioni sessuali inibite dalla paura della morte.
La soffitta è il luogo figurato del rimosso, degli orrori che abitano l’inconscio e quello di Beau è popolato da pulsioni sessuali inibite dalla paura della morte.
In Beau Is Afraid la negazione del lutto innesca psicosi anche in personaggi apparentemente inseriti nella società (ammesso che i fatti narrati “accadano” davvero). Quando Beau dà inizio alla sua epopea orrorifica, è investito da una macchina guidata dal padre di una tipica famiglia americana. Sull’auto c’è anche la consorte che, insieme al marito, presta immediatamente soccorso a Beau. Le cure della famiglia modello, nei confronti dell’infortunato, si rivelano morbosi tentativi di colmare l’assenza del loro primogenito, morto sotto le armi, la cui perdita ha provocato nevrosi all’intero nucleo familiare. A essere particolarmente compromessa dal trauma del lutto è la secondogenita, una ragazza adolescente dipendente dagli psicofarmaci. Nella villa in cui Beau è ospitato durante la convalescenza, abita anche un commilitone del soldato defunto, adottato perché completamente alienato e bisognoso di cure farmacologiche continue. In questa villa il tempo è scandito dalla somministrazione di medicinali, da distribuire a tutti i componenti della famiglia allargata, come una sorta di clinica psichiatrica, ma dove gli stessi medici sono i primi ad essere fuori controllo.
Andando oltre la tradizione ebraica, nei film di Aster sembra che nessuno sia davvero immune dalle psicosi, intese come conseguenza di un’educazione castrante, tramandata di generazione in generazione. In tutti e tre i lungometraggi del regista, i disturbi mentali sono raccontati come sintomi della crisi della famiglia borghese negli Stati Uniti: una crisi sedata dalla farmacologia. La famiglia borghese è sempre stata la ratio con cui misurare lo stato di salute della società americana, già a partire dal teatro di Eugene O’Neill, Arthur Miller e Tennessee Williams. Aster interpreta la crisi della famiglia nucleare borghese in termini orrorifici, come se fosse l’elemento fondativo di una civiltà che, per continuare a funzionare, deve essere necessariamente contenuta dagli psicofarmaci e da costumi rigidamente replicati.
Se l’alternativa al modello della famiglia borghese americana e dei suoi precetti individualistici potrebbe essere quella della vita comunitaria, con Midsommar (2019) Aster sembra dimostrare che non esista via di uscita. Il suo secondo lungometraggio, un horror girato interamente alla luce del giorno, racconta la storia di un gruppo di ragazzi americani, ospiti di un villaggio in Svezia per celebrare la tradizionale festa di mezza estate. Gli abitanti della comunità sono abituati a vivere seguendo i cicli della natura che traslano nel loro sistema valoriale. I riti pagani messi in pratica durante le celebrazioni ne danno esempio: una donna e un uomo anziani si buttano da una rupe, dopo aver concluso il loro ciclo di vita nella comunità. Il sacrificio risulta inaccettabile agli occhi dei turisti, mentre gli autoctoni considerano svilente aspettare che i loro anziani muoiano soli in un ospizio, dimenticati dai loro familiari. Perché laddove, nella vita comunitaria, l’individualità del singolo è annullata da regole di natura simbiotica, nella società occidentale contemporanea è messa sempre al primo posto.
La famiglia nucleare borghese è l’elemento fondativo di una civiltà che, per continuare a funzionare, deve essere contenuta dagli psicofarmaci e da costumi rigidamente replicati.
Sia che si fondi su un sistema di vita comunitario, sia che sia imperniata sull’individualismo, la gestione di una società, e quindi del potere, crea narrazioni. Al di là del bene e del male, ciò che può inorridire è sempre relativo a un sistema di pensiero, che Michel Foucault chiama episteme e che ha sempre a che fare con il potere. Individualismo e vita comunitaria non sono di per sé né giusti, né sbagliati, né preferibili l’uno all’altro. Allo stesso tempo, l’ermeneutica del soggetto non è verità assoluta: dipende dalle condizioni di possibilità entro cui l’individuo si pensa come tale. Si tratta, piuttosto, di verità relative a un orizzonte epistemico, la cui origine può essere ricercata tramite il metodo foucaultiano dell’archeologia del sapere. Foucault riporta una prima parte della sua indagine sulla nascita della psichiatria in Storia della follia nell’età classica (1961):
La distinzione del fisico e del morale è diventata un concetto pratico, nella medicina dello spirito, soltanto nel momento in cui la problematica della follia si è spostata verso un’interrogazione del soggetto responsabile. Lo spazio puramente morale che viene allora definito dà la misura esatta dell’interiorità psicologica in cui l’uomo moderno cerca a un tempo la sua profondità e la sua verità. La psicologia come metodo di guarire si organizza ormai intorno alla punizione. Prima di cercare di calmare, essa dispone la sofferenza nel rigore di una necessità morale. […] Una medicina puramente psicologica è stata resa possibile solo il giorno in cui la follia si è trovata alienata nella colpevolezza.
Nel mondo in cui viviamo, si presuppone che chi cura, chi è ragionevole, sappia cosa sia più giusto per chi soffre di disturbi psichici, gli insensati. Ma il concetto di follia e di cura, così come quello di individuo e di soggettività, non sono verità assolute. Ciò che è certo è che ogni episteme, così come ogni conseguente forma di potere, prevede un dentro e un fuori, chi è compreso e chi è escluso. Negli USA di oggi, nel mondo contemporaneo, chi è ai margini è sedato come chi sta dentro. Perciò, non è solo Beau ad avere paura, ma tutti noi.