C ome Jonas Mekas, il leggendario critico e divulgatore di cinema d’avanguardia, anche Kenneth Anger viene regolarmente dato per morto. Quasi coetanei, entrambi pionieri della sperimentazione cinematografica, sono però differenziati da due connotati importanti. Mekas alla fine è deceduto davvero, nel 2019. Kenneth Anger è ancora nel suo novantacinquesimo anno di vita, sebbene almeno una volta abbia inscenato la sua dipartita (nel 1967 affittò un’intera pagina del Village Voice per pubblicare un auto-necrologio, una delle tante azioni di marketing intraprese per risollevare la propria carriera). Poi Mekas è New York e gli Anthology Film Archives, mentre Kenneth Anger è Los Angeles, e dunque Hollywood. Per l’esattezza Hollywood Babilonia, un libro che davvero si può dire “di culto” e che Adelphi propone ora per la prima volta in edizione tascabile.
Chi è Kenneth Anger? “Un (ex) attore bambino divenuto regista sperimentale divenuto pioniere di una forma di gossip hollywoodiano che rasenta le teorie del complotto” dice Karina Longworth, l’autrice del podcast You Must Remember This. Tutto vero o semi vero, poiché esattamente come Hollywood Babilonia, anche la sua biografia consiste di mezze verità, approssimazioni, dicerie deformate col tempo. I perni indiscutibili sono però tre: dichiarata omosessualità fin dagli inizi (e dunque in tempi non facili, trattandosi degli anni Quaranta); una fascinazione profonda per l’occulto, precisamente con la religione Thelema; la frequentazione assidua di celebrità varie spesso sfociata in collaborazioni, cameratismi, faide. In tutto ciò la filmografia di Anger è limitata in quantità e durata e non conta alcun lungometraggio. Negli anni è stata inoltre caratterizzata da un labor limae costante ma anche impedita, in esecuzione e circolazione, dalle ristrettezze economiche in cui il suo autore versava e tuttora versa. Eppure l’influenza di Anger viene citata da alcuni registi importanti (Scorsese, Lynch, Isaac Julien, Nicholas Winding Refn, Gaspar Noé, Harmony Korine) per alcune innovazioni tecnico-visive e soprattutto per i corti Fireworks (1949), Scorpio Rising (1963), Invocation of My Brother Demon (1969) e Lucifer Rising (1972-80).
Nel contesto di una una biografia eccentrica e difficilmente verificabile come lo sono del resto molte delle storie contenute in Hollywood Babilonia, questo strano libro rimane un oggetto a sé stante, che arricchisce sì la comprensione dell’opus Anger ma che funziona anche in autonomia, come uno spioncino sugli albori della moderna società dello spettacolo. Che uno sia interessato o meno a percorrere il legame con il cinema di Anger, Hollywood Babilonia si legge su due piani: superficialmente come un divertente libello extralarge, secondariamente come un documento importante per genesi e contenuti “sollecitatori” di temi che, aggiornati all’oggi, assumono nuova rilevanza. Concepito intorno al 1956 per racimolare qualche spicciolo, Hollywood Babilonia raccoglie decine di pettegolezzi più o meno fondati dell’industria del cinema (dal muto agli anni Cinquanta), divisi in capitoletti vagamente connessi tra loro e corredati da fotografie e immagini d’epoca.
Ogni bieco pettegolezzo che si rispetti è inseparabile dal giudizio che lo genera, e a muovere la penna di Anger sono anche le sue fantasie e una posa moralista, spesso per fini comici.
Ai non cultori della materia la maggior parte dei nomi suonerà inedita, ma nonostante la ripetitività di molte storie – abbondano vicende a sfondo sessuale, tabù di ogni sorta, alcool e droghe dappertutto – alcune di queste si sono impresse nella memoria collettiva diventando archetipiche, anche dove si è trattato di versioni falsate. Tra le prime e più scioccanti c’è una storia su “Fatty” Arbuckle, attore comico dalla mole imponente. Spesso sfruttato per “fango e baraonda, tomboloni e torte in faccia”, Fatty fu anche il primo stupratore accertato di Hollywood, e, come il suo successore Harvey Weinstein, cercò di occultare le prove che ricaddero poi a suo sfavore. A differenza dei moderni criminali, non fece in tempo a diventare seriale: la sua vittima fu solo una, l’attrice e stilista Virginia Rappe, che perse la vita per le torture subite – venne schiacciata dall’enorme Arbuckle. A un arcinoto Charlie Chaplin e alla sua “sposa-bambina” Peggy Hopkins, Anger fa risalire “il modello originario della ninfetta più leggendaria: Lolita”, per ovvie coincidenze: il romanzo di Nabokov usciva in Francia un anno prima di Hollywood Babilonia.
Al contrario delle molte attrici prese di mira (da Greta Garbo a Clara Bow passando dalla povera Frances Farmer, una delle biografie più violentemente represse dal patriarcato-cinema, poi cantata da Kurt Cobain), in genere i divi maschili sono punzecchiati saltuariamente, più con reverenza omoerotica che gusto di sfottò. Il laconico Robert Mitchum, arrestato per possesso di marijuana, vede la sua “popolarità indenne” dal processo, Errol Flynn incassa l’accusa di violenza carnale rimanendo “un magnetico seduttore marittimo”. Tra le righe più tragicamente note ci sono quelle su Rodolfo Valentino, “il primo sex symbol della storia del cinema”, a cui però Anger attribuisce una virilità flebile e sospetta (poco tossica, diremmo oggi) e non una ma ben due ex-mogli lesbiche. Intitolato “Rudy non era rude?”, il capitoletto su Valentino si chiude con una grande menzogna: che un collega del muto, Ramon Novarro, brutalmente assassinato anni dopo in circostanze omofobe, tenesse “in camera da letto, sotto una campana di vetro, un giorgino di piombo nero, adorno della firma” del divo italiano che morì di peritonite a trentun anni. Non sapendo cos’è un giorgino, ho scorso l’originale e letto “dildo”. Ecco una delle occasioni in cui la nuova edizione Adelphi poteva venir svecchiata. Altri passaggi includono, purtroppo, termini come “negro” e virgolettati in cui si mima la pronuncia di persone che non padroneggiano l’inglese, afroamericani soprattutto. La prima edizione Adelphi risale al 1979. Tradotta da Ida Omboni, rimane oggi inalterata. Del resto, come tramandare senza discriminare ma anche senza snaturare la scrittura di Anger, che rivela talvolta tendenze razziste e apertamente misogine?
Hollywood Babylon è prodotto di un’altra epoca, un’epoca che peraltro guarda al precedente periodo storico – gli anni Venti-Trenta – enfatizzandone l’atteggiamento proibizionista. Ogni bieco pettegolezzo che si rispetti è inseparabile dal giudizio che lo genera, e a muovere la penna di Anger sono anche le sue fantasie e una posa moralista, spesso per fini comici. Evidentemente l’autore non fu mai interessato a riportare la verità e a citare fonti, tanto che il libro venne inizialmente pubblicato in Francia, nel 1959, da Jean-Jacques Pauvert, editore celebre per aver dato alle stampe l’opera omnia del Marchese de Sade e il romanzo erotico Histoire d’O. Agli inizi del decennio Anger si trasferiva a Parigi, dove stringeva amicizia con Jean Cocteau e Anais Nïn (che comparirà ingabbiata e sorridente nel suo Inauguration of the Pleasure Dome, mediometraggio di trentotto minuti del 1954) e collaborava coi Cahiers. Da bambino Anger era rimasto impressionato dalle storie raccontate dalla nonna, la quale riportava le disavventure delle celebrità di inizio secolo come favolette morali. Cominciando a interessarsi di esoterismo, i gozzovigli, i drammi e i suicidi di quei personaggi finirono per comporre una mitologia pagana in cui Hollywood si ergeva come un Olimpo di cartapesta. Non a caso la raccolta si apre proprio con la fotografia dell’immenso set costruito all’incrocio tra Sunset e Hollywood Boulevard per raffigurare la Babilonia in Intolerance (1916) di D.W. Griffith. Con i suoi elefanti dorati, la scenografia diventava simbolo de “l’Epoca dei Dubbi Splendori” in cui gli attori “erano i nuovi sovrani, la Gente d’Oro”. Durante il soggiorno parigino, a incoraggiare la creatività di Anger c’era anche la Cinémathèque Française, dove Henri Langlois gli sganciava rotoli di pellicola gratis (accade per Rabbit Moon, 1950-79). Così nacque Hollywood Babilonia, forse col desiderio di ingraziarsi un pubblico europeo, nel dopoguerra ancora a digiuno di gossip coloriti.
Tornato in California negli anni Sessanta, Anger cominciò a far circolare una copia in inglese, che venne rapidamente bandita non solo perché certe frottole erano più facili da smentire in patria che oltreoceano, ma anche perché stampava molte immagini di cui non aveva i diritti. Era, insomma, poco più di una fanzine. Una fanza di successo però, poiché Anger dovette districarsi tra i bootleg, le copie taroccate, che gli facevano concorrenza. Come altrove nella sua tumultuosa biografia, le sue azioni ebbero un effetto boomerang: da regista “più mostruoso dell’underground” (come usava definirsi) a vittima dello stesso anti-mainstream, dovette aspettare il 1975 per un’edizione ufficiale per conto di Rolling Stone.
Cominciando a interessarsi di esoterismo, i gozzovigli, i drammi e i suicidi di quei personaggi finirono per comporre una mitologia pagana in cui Hollywood si ergeva come un Olimpo di cartapesta.
Negli anni Ottanta Anger cercò di bissare il successo con un secondo volume, anch’esso edito in Italia da Adelphi. Al lettore feticista della casa editrice, la copertina tascabile di Hollywood Babilonia, con Jayne Mansfield scontornata male, ricorderà forse un altro tomo, quello recante Liz Taylor-Cleopatra e il titolo America Amore. Facendo un torto all’amato Alberto Arbasino, letterariamente imparagonabile, si potrebbe però azzardare una somiglianza nei toni, nel piacere della divulgazione e nell’amore per la diceria quando nobilitata dall’intelligenza di chi scrive. La Babilonia di Anger è così una specie di “Arba goes Addams Family”, in cui il resoconto episodico di una materia super americana ma ancora in bianco e nero si traducono in un’inclinazione per il kitsch corporeo e un’erudizione ineguagliabile. Con gli anni la popolarità della raccolta assegnò impropriamente ad Anger il ruolo di esperto di “Tinseltown”, nomignolo dispregiativo di Los Angeles. Il massimo esegeta di “Mondo Hollywood”, in pratica, per citare un omonimo film del 1967, creato sul filone di Mondo Cane di Gualtiero Jacopetti, che esponeva in modo gonzo le nuove debosciate californiane e le future vittime di Charles Manson.
Usando di nuovo le parole di Karina Longworth, che dal 2014 cura un podcast storico su Hollywood, Kenneth Anger sa esprimere con esattezza lo spirito di quegli anni ma è completamente apocrifo nei dettagli. L’esempio più conclamato è quello intorno al suicidio della diva messicana Lupe Velez. Velez fu una delle prime attrici straniere a sfondare negli studios, e una delle poche a crescere di notorietà nella transizione tra muto e sonoro, prima di diventare protagonista di un proto-franchise, “La Sputafuoco Messicana”. Anger riporta correttamente la sua crescente angoscia psicologica (divorzi, carriera in discesa, forse una sindrome bipolare) ma oltre a farla parlare con marcato accento spagnolo (che nell’edizione italiana, chissà perché, diventa tedesco) le attribuisce grandi debiti e un suicidio andato storto: non spenta dai barbiturici (come accadde) ma abbracciata alla tazza del water, dove l’attrice avrebbe vomitato la sua ultima cena, “un sontuoso festino da Días dos Muertos”. La fine di Velez ripensata da Anger è stata ripresa pure dai Simpson, ma soprattutto da Andy Warhol, che la fece re-interpretare da Edie Sedgwick nel film Lupe del 1965.
Tra Warhol e Anger non correva buon sangue, perlomeno per quest’ultimo. Warhol era un rivale, non solo per la condivisione di temi e personaggi queer, ma anche per il recupero della cultura trash di cinema e TV, la sperimentazione formale a livello filmico, e pure l’atteggiamento incestuoso con alcune celebrità coeve. Entrambi devono però molto alla rassegna itinerante The Film-Makers Cooperative di Jonas Mekas, le cui proiezioni venivano spesso interrotte dalle forze dell’ordine, con confische di pellicole e arresti. Il cortometraggio che faticò di più a circolare agli inizi, proprio a causa delle forze censorie, è Scorpio Rising (1963), in cui Anger omaggiò la sottocultura motociclista già popolare per Dean e Brando poi ripresa da Easy Rider. Scorpio Rising si considera anche il primo film interamente sonorizzato da canzoni pop (vedi “Blue Velvet” di Bobby Vinton) ed è perciò ponte con il cortometraggio più lungo di Anger, Lucifer Rising (1972-80).
È intorno alla burrascosa produzione di quest’ultimo che si concentrano i nodi più memorabili. Il film è un tributo all’occultista inglese Aleister Crowley e alla sua teorizzazione di Lucifero non come angelo caduto bensì manifestazione dell’Eone d’Oro, uno dei capisaldi della religione Thelema. Comprensibilmente, ciò ci dice poco o niente: il film incorpora iconografie del culto di Iside e Osiride e venne girato in loco presso siti archeologici in Germania, Egitto e Inghilterra, a Stonehenge. Nel frattempo infatti Anger era stato a Londra, dove aveva conosciuto il miliardario Paul Getty Jr. (poi diventato, incredibilmente, suo mecenate), fatto amicizia coi Rolling Stones e coinvolto nella produzione Anita Pallenberg, Marianne Faithfull (che recitò) e infine Jimmy Page (anch’egli fan di Crowley). Un litigio impedì a quest’ultimo di completarne la colonna sonora come previsto, che invece fu concepita da Bobby Beausoleil. Beausoleil, aspirante rockstar con una passione per la mescalina, fu inizialmente ingaggiato per interpretare Lucifero (le sequenze che lo raffigurano confluirono poi in Invocation of My Brother Demon, 1969) ma finì sui giornali come corresponsabile di uno dei primi omicidi della famiglia Manson. La musica prog rock che sentiamo nella versione ufficiale del film venne infatti composta da Beausoleil ed eseguita dietro le sbarre (dove ancora si trova) da un’orchestra di detenuti.
Come Hollywood Babilonia, anche Lucifer Rising evoca connessioni con miti della cultura popolare odierna. Il montaggio guidato da associazioni allegoriche e la corrispondenza ritmica tra visivo e sonoro sono considerati precursori del videoclip musicale – formato e durata nuovi, da lì a poco promossi da MTV ben oltre le cerchie cinefile. Negli anni Ottanta Anger riversò alcuni corti in VHS, migliorando la propria notorietà ma non la condizione economica. Poi per un ventennio andò in pensionamento anticipato, prestandosi però alle glorificazioni del suo personaggio: va ricordato un doc della BBC intitolato Hollywood’s Babylon, di Nigel Finch, uno degli esponenti del New Queer Cinema britannico, e un’omonima serie TV molto camp narrata da Tony Curtis, che proponeva re-enactment di alcuni episodi narrati nei libri. Forse spinto dall’accessibilità di videotape e digitale, nei Duemila riprese a girare. Pur diversi dai corti più famosi, anche i nuovi lavori sono distinti dal caos e dall’impressione che inscenino qualcosa di molto intimo, l’inconscio, l’onirico o addirittura l’aldilà.
Warhol era un rivale, non solo per la condivisione di temi e personaggi queer, ma anche per il recupero della cultura trash di cinema e TV, la sperimentazione formale a livello filmico, e pure l’atteggiamento incestuoso con alcune celebrità coeve.
In questa maratona Anger, mi sono chiesta cosa ne penserà di tutti i video rubati su YouTube, dei montaggi schizofrenici su Tik Tok, delle celebrità che si riprendono in diretta Instagram. Nessuno oggi ha bisogno di riesumare i rotocalchi di Louella Parsons e Hedda Hopper, che inventarono i gossip come li conosciamo adesso. Forse è proprio il pettegolezzo, l’elemento più onnicomprensivo e affascinante del suo modus operandi, che nella sua ostentata resistenza alla convenzione coltiva anche la preferenza per un’informazione anti-autorevole e idiosincratica, quella che talvolta prende le vesti di fake news oppure si “sistematizza” in teorie del complotto. Hollywood Babilonia è un libro sia primitivo per come intende l’universo mediatico, sia esemplare e stimolante per lo spazio che ospita, in cui le biografie e identità altrui – a cui si guarda per emulazione, desiderio o rifiuto – sono rimaneggiate fuori da canoni ufficiali e norme. Come scrive il teorico di cinema Marc Siegel, il gossip “non è semplicemente un mezzo di comunicazione orale ma piuttosto una logica di pensiero speculativa, appropriata al cinema e centrale nella costruzione dell’identità e dell’intimità nei pubblici queer.” Partendo da una prospettiva queer, che a mio avviso trascende, il pettegolezzo è “un mezzo performativo capace di trasformare la propria relazione col sé e con la propria cerchia attraverso la circolazione di supposizioni sugli altri”. Forse quello che disturbava Anger di Andy Warhol era proprio la prossimità “da bolla” con la sua arte, con una scena che, se condivisa, limitava il raggio del gossip (o della fantasia) rispetto a se stesso e gli altri.
Come ho scritto, Hollywood Babilonia e alcuni dei cortometraggi emanano in svariate istanze un razzismo brutto e consapevole e una misoginia insopportabile proprio poiché proviene da un regista che tanto ha fatto per sviluppare l’immaginario queer. Entrambi i tratti sminuiscono considerevolmente l’aura del suo operato poiché anche se appaiono superflui a livello tematico sono innegabilmente presenti. Una distrazione infelice. Ma nello stupore che desta la contraddittorietà di queste combinazioni, c’è anche una nostalgia che non vuole essere reazionaria ma sincera rispetto ad artisti imprecisi e scorretti, fallimentari, parziali. Per usare una parola abusata, Anger risveglia nostalgia per un certo tipo di “audacia tout-court”, per un’originalità che proviene da ispirazioni sui generis e anche un rifiuto di prendere parte e conformarsi su qualsiasi livello, anche quello della propria comunità di affini. Non a caso sono gli anni Venti, il periodo che gioca il ruolo più importante nella sua carriera: epoca di grande innovazione, proprio per ammissione di Anger, ma anche di estrema polarizzazione politica e culturale, incarnata prima dal Proibizionismo e poi dall’introduzione del codice di condotta morale nel cinema statunitense. Un sistema di auto-stigmatizzazione che venne smantellato ufficialmente solo alla fine degli anni Sessanta, quando la controcultura che Anger aveva contribuito a creare cominciò a massificarsi. In un periodo come il nostro le differenze tra militanza e censura si neutralizzano e la qualità meno spendibile, per chiunque abbia l’ambizione di fare qualcosa in ambito artistico o politico, è l’ambiguità, l’incertezza, la contraddizione. Da sempre un outsider e un loner, come dice lui, forse Anger l’aveva sentita arrivare decenni prima, l’ondata woke. Oppure la sua è la libertà di una marginalità apparente, che continua ad alimentare la sua leggenda e a cui si dovrebbe guardare, ogni tanto, per ispirazione.