A
ttraverso la carriera di Toni Cutrone è possibile tracciare un numero sostanzioso degli eventi cardinali che hanno segnato la storia della musica italiana alternativa (e non solo) degli ultimi due decenni. Basterebbe infatti passare in rassegna la varietà delle sonorità che caratterizzano i suoi progetti, dai primi periodi del trasferimento da Crotone a Roma, con Dada Swing e Hiroshima Rocks Around, fino ai più recenti, con Metro Crowd, Salò e soprattutto Mai Mai Mai, la sua incarnazione più rappresentativa, per capire quanto eclettica sia stata e continui a essere la sua proposta. Nel mezzo di questo percorso, oltre a tante collaborazioni – tra le quali spicca, ancora per eterogeneità, quella con Calcutta, cui prestò il suono di Mai Mai Mai tra una melodia e l’altra di Mainstream, si capisce subito come una consistente parte delle sue energie sia stata impiegata non solo per suonare, ma anche per far suonare gli altri: gesta eroiche come aver tirato su insieme a poche altre persone un posto come il DalVerme di Roma, ormai chiuso da qualche anno, rientrano di diritto in quegli eventi di cui si parlava poco sopra. Perché l’aspetto più importante di queste attività non è l’aspetto musicale di per sé, ma la capacità di connettere persone sparse per il mondo che hanno le stesse attitudini. Il DalVerme è stato l’esempio eclatante. Altri di questo tipo sono la compilation Borgata Boredom, che raggruppava la congrega che gravitava attorno a un Pigneto non ancora gentrificato e che fece conoscere a tutti Roma Est; o il Thalassa, festival incentrato sull’Italian Occult Psichedelia (l’”hauntology italiana”) che fece innamorare i redattori più esigenti di The Wire. Attraverso la sua carriera si può vedere tutto questo, e quindi ragionare su come un quartiere sconosciuto di Roma possa trasformarsi in una zona molto attrattiva, depredata dai palazzinari e dagli imprenditori, ma anche su come sia stata poco valorizzata la tradizione della terra da cui proviene, la Calabria (ma del sud in generale), o infine, su come il vinile stia passando un brutto periodo.
Partirei dal tuo ultimo album, Omega Mai.
Mi trovavo spesso in Veneto durante il periodo di chiusure Covid, che ha bloccato qualunque mia attività lavorativa e, come saprai, anche gli
Squadra Omega sono di quelle parti. Matt Bordin, oltre ad essere un musicista, è anche un producer, e ha un mega studio sul Montello. Stando lì, abbiamo colto l’occasione per farci qualche suonata. È nato tutto così. Abbiamo fatto poche sessioni. Avevamo dei canovacci, ma l’idea era proprio quella di fare un’impro. Sono uscite tre o quattro ore di registrazioni che abbiamo poi tagliato, limato e rivisto.
Eravamo in tre, quindi io e Squadra Omega come duo. Bordin aveva dei synth modulari, Revox e nastri su cui mandava cose – poi ha suonato il sax a posteriori, mentre Giotto aveva il basso e altri synth. Io avevo il Moog e un po’ delle macchinette mie.
Sbaglio o ho notato pure qualche chitarrone?
Sì, ma questo sempre a posteriori insieme al sax. Però anche il basso è molto chitarroso. In ogni caso, sì, è stato tutto molto suonato. Non c’era una grande idea dietro, se non il far uscire fuori le nostre attitudini. È uscito fuori quindi questo viaggione onirico e oscuro.
Come mai non è uscito per NO=FI Recordings, la tua etichetta?
In realtà è un po’ ferma. Sono ormai due anni e mezzo che non faccio uscire cose, ma non è affatto morta. Tornerà… Questa invece è l’uscita numero uno per una nuovissima etichetta, una sorta di sottoetichetta della
Holidays Record. C’è sempre di mezzo Bordin. Nel suo studio passano i migliori artisti impro, jazz e avant che registrano di tutto. Magari registrano il disco, ma poi restano fuori cose ottime che non trovano spazio nell’uscita per cui avevano preso lo studio. L’idea è quella di far uscire la roba che merita registrata in quello studio. Si chiama Castel Sotterra, che è poi una caverna del Montello vicino allo studio. Le prime due release, uscite in contemporanea, sono Omega Mai e Giovanni Di Domenico. Sempre che ci sia modo di farli uscire questi vinili…
In che senso?
Non so se hai saputo che c’è una crisi nel mondo del vinile…
Avevo letto qualcosa, ma non ho approfondito.
Ci sono diverse cose. Per cominciare, in Europa è praticamente finita la plastica per fare i vinili. Inoltre, gli unici due produttori al mondo di placche per stamparli sono due, uno in Giappone e uno in America: quello in America, che è il più grande,
è andato a fuoco. Per concludere, c’è stata questa grande rinascita del vinile che le major stanno affossando totalmente, attraverso cose come le uscite nelle edicole. Per dirti, la super major va dalla stamperia e chiede quanto costa una copia. Mi sembra il prezzo sia intorno 1,30 euro a copia. La major gli offre 2 euro con l’esclusiva di avere tutte le macchine per sé quel mese. Cose del genere. In pratica blocca tutto l’underground e le piccole etichette.
Se metti i Pooh in edicola, con tirature di 3.000 copie (per esempio), quello è un problema. O i Maneskin che hanno 35.000 copie in vinile. C’è anche un discorso di contratti e di chi ha modo di pagarsi un certo tipo di avvocati. Se a noi la stamperia ci dice che l’uscita posticipa, oltre a imprecare possiamo fare poco altro. Con le major il discorso è diverso. Si parla di contratti che hanno giorni d’uscita ben prestabiliti, che se non vengono rispettati parte in automatico l’azione legale.
Ovviamente le major trovano il modo per stampare i loro dischi, le altre etichette no. I tempi di attesa sono passati da un mese e mezzo/due mesi a oltre sei mesi. Questo disco era andato in stampa a febbraio, ma l’abbiamo avuto intorno a settembre, mese in cui non aveva molto senso farlo uscire, così abbiamo aspettato novembre.
Incredibile…
Sì, sai questa roba uccide le piccole etichette, anche perché si trovano costrette a posticipare tutto. Nel senso, pensiamo a etichette piccole, ma già abbastanza strutturate – con sei uscite all’anno, per dire. Adesso hanno tutte uscite bloccate, quelle pianificate sei mesi fa ancora non uscite. E si ritrovano ingolfate a programmare il futuro con nuove proposte che non possono essere pianificate prima magari di due anni! Assurdo… Banalmente, questa cosa potrebbe far tornare il CD!
Insomma è vero che il vinile è affascinante. Io compro solo vinile da quando ho 15 anni e per dirti, non è mai uscito nulla in CD di Mai Mai Mai (di più di una decina di release), ma il CD lo stampano in otto giorni, il vinile in otto mesi. Per non parlare di quando ti arriva con dei problemi, di quando suona male, ecc…
Chiaro. Ma passiamo al Mai Mai Mai solista: il tuo ultimo disco risale al 2019. Ci sono dischi in uscita?
Beh sì. C’è un disco che uscirà in primavera – sempre che la produzione vinilica ce lo consenta. Mentre Nel sud era uscito con La Tempesta, questo uscirà per Maple Death, l’etichetta di Jonathan Clancy. Riprende il discorso sud/meridione/Mediterraneo, in una chiave ancor più “hauntology mediterranea”…
Spiegati.
Mi interessava far circolare un po’ di più gli spiriti presenti, così ho abbandonato l’arcaico e il rituale di
Nel sud per approdare a qualcosa di più contemporaneo; diciamo più sulla scia di
Secondo Coro delle Lavandaie. Quindi cose più vicine a noi, e legate in qualche modo a “costume e società”; meno magia e antropologia. Saranno tutte canzoni vere e proprie, cantate. Ci saranno diversi featuring di personaggi che provengono direttamente dall’etnica, o da gente che fa cose più contemporanee ma che si ricollega in qualche modo all’etnica. Ci sarà Lino Capra Vaccina, poi Mike Cooper…
Ormai con Mike Cooper siete amici.
Siamo amici da molto. Feci uscire in collaborazione con Nero un suo disco (
New Globe Notes, 2014) che permise a Mike di tornare a suonare in giro, e fare live nei nostri ambienti. Sono tanti anni che facciamo cose insieme e finalmente abbiamo trovato come trasformare in musica il nostro rapporto. Sai, lui sta portando avanti la sua linea “tropical gothic”. Prendiamo questo discorso e lo coniughiamo al mio “mediterranean gothic”, e ne è uscita questa traccia in cui lui recita un testo sulle streghe delle isole filippine, in inglese, quindi l’idea
spiritica resta, ma in maniera più pacifica, ecco.
Poi c’è Vera Di Lecce, che ora fa roba elettronica, hypnagogic, ma viene dal folklore: figlia d’arte di attori di teatro e musicisti impegnati con la tradizione salentina, ha cantanto con Nidi D’Arac, con Cesare Basile, e ha collaborato con Alfio Antico. Con lei abbiamo fatto un vecchio pezzo salentino che racconta della raccolta del tabacco, sempre in mano alle donne, tra sfruttamento, soprusi e abusi. Ci sarà anche un pezzo con Tullia Benedicta, col suo nuovo progetto che si chiama Nziria, in cui canta in napoletano su basi gabber – uscirà infatti per l’etichetta di Gabber Eleganza. Poi ci saranno le Faraualla che sono un quartetto di donne salentine che cantano a cappella in dialetto e in varie lingue inventate: quello che negli anni Novanta si sarebbe definito “world music”, insomma. Per finire alcuni cori in albanese.
Quindi dopo la Trilogia sul Mediterraneo e Nel Sud, questo sarà una sorta di prosecuzione della saga hauntologica: si chiamerà Rimorso.
Ti va di parlarmi un po’ di Italian Occult Psichedelia?
Risale al momento d’oro del Pigneto e dell’Italia tutta. Sai, nell’underground mi hanno sempre chiamato in maniera ironica “il creatore di truffe”, perché il mio metodo era un po’ questo: prendi una cosa e la gonfi tantissimo. In realtà però noi in Italia abbiamo cose fichissime che nessuno riesce a spingere, questa è la cosa assurda. Italian Occult Psichedelia era una di queste cose. Se facciamo il paragone con l’Italian Occult Psichedelia e l’Hauntology inglese alla fine potrebbe uscir fuori che la roba italiana è anche più interessante e ricca di storia. Poi chiaro, in Inghilterra avevano Simon Reynolds e Mark Fisher che ne parlavano, tutte le etichette che se ne interessavano, i festival con risonanza internazionale…
Diciamo più che altro una etichetta, nello specifico: la Ghost Box.
Sì, ma poi in mezzo ci rientrava pure gente come Leyland Kirby, Broadcast, la Warp, Boards of Canada, la Hyperdub e Burial… Questo per dire che quello significa esattamente “impacchettare bene qualcosa” e pomparla nel modo giusto, facendola arrivare a tante persone. Questo significa ovviamente che sotto c’è la sostanza, ma anche che sei riuscito a costruirci una cornice concettuale attraente, altrimenti non sarebbe arrivata dove è arrivata.
Per Italian Occult Psichedelia, a cui spesso è stata paragonata l’Hauntology, è stato un po’ lo stesso discorso. C’era questa scena musicale italiana (lo specifico perché molti pensano, per una serie di motivi che ora spiegherò, che era solo romana) che era proprio tangibile. Dal punto di vista del genere prettamente musicale non era facilmente inquadrabile perché avevi gruppi come La piramide di sangue che facevano psych-rock e la loro incarnazione più etnica: Gianni Giubilena Rosacroce. Poi c’era Father Murphy, la scena romana composta da me, gli Heroin in Tahiti, Maria Violenza, poi gente come Cannibal Movie e Donato Epiro, o anche Squadra Omega, Mamuthones, InZaire, Lay Llamas, Hermetic Brotherhood of Lux OR, Luminance Ratio, ecc… L’idea era ripescare dalle radici italiane, non più ripescare dai meandri dell’Inghilterra o degli Stati Uniti. Ripescare dall’Italia significava quindi recuperare quei suoni della tradizione italiana anni Sessanta e Settanta come lo Spaghetti sound, ma soprattutto la library music in generale, quindi colonne sonore di horror, gialli e mondo movies, immaginari neo realisti, evocazioni tra cattolicesimo e paganesimo, e provare a ricreare qualcosa di contemporaneo che nascesse però da un immaginario italiano. Questa è stata la cosa che è stata intellettualmente e musicalmente riconosciuta come filo conduttore.
Era uscito quell’articolo su Blow Up, ricordo…
Sì, di Antonio Ciarletta. Fu lui a coniare il termine. Quello era infatti un primo momento dell’”impacchettamento”. Dopo questa cosa ci confrontammo io e Valerio Mattioli e ci rendemmo conto che c’era questa cosa bella, ci avevano fatto un articolo e gli avevano dato anche un nome fico. Allora pensammo di fare un festival che fungesse un po’ da vetrina per questa Italian Occult Psichedelia. La cosa fica era che, a parte le connessioni culturali di background musicale, che a volte potevano risultare anche un po’ forzate, eravamo proprio tutti legati umanamente. Noi di Roma suonavamo in giro per l’Italia grazie a questi gruppi, questi gruppi quando venivano a Roma venivano a suonare nei giri che frequentavamo e spingevamo noi. Era una scena vera e propria, geolocalizzata sulla penisola da Nord a Sud (o viceversa) e fatta di rapporti reali: non solo Internet.
Boring Machines è stato un connettore forte da questo punto di vista.
Sì, era l’etichetta che aveva più nomi sotto di sé. Parte degli altri nomi li avevo io con NO=FI Recordings e altri ancora
Yerevan Tapes, più tante altre uscite super DIY.
Quindi, dicevi, avevate il nome, i gruppi e le etichette e avete deciso di fare questo festival…
Sì, e lo chiamammo Thalassa. Doveva essere un giorno, ma c’erano talmente tanti gruppi che alla fine ne facemmo tre; e questo per ben quattro anni! Per la prima volta al DalVerme si parlò di prevendite, era una cosa che non avevamo mai fatto.
Quella fu la prima volta? Io ricordavo che lo faceste per Evan Parker…
Anche per lui, che fece tra le altre cose un doppio show, ma era dopo Thalassa. Era la prima volta perché al Verme funzionava che se arrivavi tardi e non c’era posto semplicemente ti dicevamo che eri un coglione e restavi fuori. Invece in quell’occasione iniziò a scriverci gente da Milano, Bologna, Torino, Napoli, … per dirci che stavano arrivando, chiedendoci di assicurargli un posto dal momento che stavano prendendo i biglietti per i treni. La cosa fece abbastanza ridere perché tre giorni di festival sold out a una settimana dall’annuncio… per chi non era stato in quel posto, dall’esterno poteva sembrare un evento grandissimo e super-strutturato. Non sapevano che sold out significava 80 biglietti!
Visto che era andata molto bene, decidemmo di proseguire e puntare ancora di più sull’“impacchettamento”, questa volta a livello internazionale, facendo una seconda edizione in grande, perché non ho mai amato l’autoreferenzialità del Pigneto. Quindi scrissi a Joseph Stannard di The Wire chiedendogli se gli andava di parlarne e mi disse che sarebbe venuto lui in persona. Tra l’altro senza prendere un soldo, a parte il biglietto del volo da Londra. Quindi ogni sera veniva Stannard e noi avevamo un sacco di ansia…
Tipo il critico gastronomico di Twin Peaks…
Sì, una cosa del genere. Invece poi si rivelò un tranquillone e ogni sera finivamo per bere insieme e ubriacarci come nostro solito. Quindi lì ci fu la conferma internazionale, in un certo senso, perché Stannard rimase shockato dal DalVerme, dal calore di quella scena musicale italiana, dalla situazione e dai concerti. Scrisse un articolone, mi sembra di due pagine con foto, eccetera…, per la rubrica Global Ear, sulle varie scene nel mondo. Chiaramente la cosa ebbe una bella risonanza e l’Italian Occult Psychedelia iniziò ad avere parecchi fari puntati addosso dall’estero. Poco dopo, ad esempio, chiamarono me e Mamuthones, Lay Llamas, gli InZaire e altri esponenti del Bel Paese al Liverpool Psych Fest, che era uno dei festival di punta per la psichedelia mondiale in quegli anni. Mi è sempre piaciuto mettere da parte l’autoreferenzialità: basta, facciamo vedere al mondo quello che stiamo facendo! Che poi era la stessa cosa che avevamo fatto per
Borgata Boredom…
Ecco parliamo pure di Borgata Boredom, a cui sono particolarmente legato.
Be’, quello era più farina del sacco di Mattioli, perché fu lui a scriverne e a inventarsi il nome. Il resto accadde un po’ in maniera simile, nel senso che ci rendemmo conto del fatto che a Roma Est stava succedendo questa bella cosa di tanti gruppi che facevano musica molto fica.
La cosa bella è che da quel momento entrò nel vocabolario la parola “Roma Est”. Prima non esisteva, si parlava solo di Roma Nord e Roma Sud. Musicalmente c’era un po’ questo nemico (in maniera affettuosa e ironica, ovviamente) all’epoca: I Cani, che venivano da Roma Nord. Stavano sotto 42 Records, poi arrivò Bomba Dischi a rappresentare un po’ quella scena, anche se alla fine mise le mani sul “nostro” Calcutta …
Calcutta però non c’era su Borgata Boredom – anche se le prime cose che faceva avrebbero potuto rientrarci benissimo.
No, perché quando abbiamo stampato il vinile era il 2011 e rappresentava qualcosa che bolliva in pentola da due/tre anni. Edo ancora non aveva fatto niente come Calcutta. Era un personaggio che suonava a Latina con ottimi progetti scassatissimi e quando stava a Roma veniva a ubriacarsi con noi e faceva il panico, però non c’era ancora un disco di Calcutta o una cassetta:
Forse…, la cassetta uscita per
Geograph Record, è del 2012.
Tornando a Borgata Boredom, era da un po’ di tempo che collaboravo per le cose grandi con il Circolo degli Artisti, avevo fatto tutti i festival di NO=FI lì, questi compleanni-festival che attiravano 4/500 persone… altri tempi! Quindi chiesi a quelli del Circolo se poteva interessare una cosa del genere, con i gruppi di Roma Est, e loro si mostrarono subito interessati. In realtà c’è di più: mi chiesero di stampare un disco con questi gruppi per l’occasione. Quindi l’idea partì addirittura da loro.
La serata poi andò strabene, credo ci fossero 500 persone…
Sì, ricordo che c’era un hype incredibile.
Sì, da disco del mese su Blow Up (che all’epoca era qualcosa di inimmaginabile) fino a XL, la rivista musicale di Repubblica, la quale fece un articolo di sei pagine mi pare, con tanto di shooting fotografico. Una cosa per noi incredibile.
Però a parte questo, fu una cosa davvero bella perché da quel momento in Europa, dovunque andavi eri etichettato come Roma Est. Per farti un esempio, il mio gruppo Hiroshima Rocks Around non era etichettato “from Roma”, ma “from Roma Est”.
Meglio contestualizzare la nascita del DalVerme, e ricordarlo per chi non c’era: un minuscolo locale con un bar molto fornito e dei fantastici bartender e una scala per scendere fino a una minuscola stanzetta sotterranea per ascoltare ogni sorta di rumore…
Anche se ai tempi non la vedevo in maniera così lineare, è andata un po’ così: arriviamo a Roma e iniziamo a suonare. Capiamo che a Roma manca tutto quello che ci piace, quindi iniziamo a sbatterci per organizzarlo noi. Capiamo che non fanno i dischi che ci piacciono, quindi iniziamo a farli noi…
Stiamo parlando di un periodo precedente…
Sì, 2001/2002. Io sono arrivato nel 1999, però il primo disco degli Hiroshima, per farti capire, è 2001. Quel disco uscì per Vurt Recordz, che era un’etichetta d’oro dell’indie italiano, aveva gruppi come Ex-Otago e Yuppie Flu. Però chiedemmo di mettere comunque il nome NO=FI perché ci rappresentava come attitudine. E infatti da lì nacque l’idea: dal momento che non ci sono etichette che fanno musica che ci piace, facciamola noi.
Che intendi per musica che vi piaceva?
Be’, molte cose, per esempio le cose matte giapponesi, la psichedelia e il kraut, il noise americano o la roba della Skin Graft e di gente come gli U.S. Maple…
Ecco, proprio qui volevo arrivare. Io so che tu hai avuto un rapporto molto particolare con loro. Vi siete – come dire? – divertiti molto insieme…
Be’, non so se si possono dire certe cose.
Si possono dire.
Va bene. Allora, con gli Hiroshima Rocks Around facevamo un misto di garage (tipo Oblivians) e no wave (tipo DNA, James Chance, ecc…), che erano le nostre grandi fisse. Poi conoscemmo gli U.S. Maple e le nostre menti iniziarono a destrutturare tutto quello che avevamo in testa, iniziammo a immaginare in maniera diversa la forma canzone, come si incrociano le batterie con le chitarre, come vanno le voci. Ci hanno proprio cambiato la vita.
Quindi per voi è stato un gruppo “seminale”.
Sì, assolutamente. C’è un pezzo del primo disco degli Hiroshima che chiamammo proprio “Walkin’ Like U.S. Maple”… Insomma, finalmente arrivano gli U.S. Maple a Roma, tramite un’organizzazione di promoter romani primordiali in cui c’era Massimo Pupillo degli Zu, Pietro di DNA concerti e il nostro Marziano. Lo organizzarono al Brancaleone e quel concerto ci cambiò la vita. Quando tornarono nel 2002 a La Palma, quelli dell’organizzazione (HUP concerti, tra cui anche la nostra beneamata Lady Maru) ci chiesero se ci andava di aprire per loro, visto che sapevano che li amavamo. Per noi ovviamente andava bene. Però Bernie di UP, che gli faceva da manager a Roma, ci disse che c’era un piccolo problema: ovvero che Al Johnson era grossomodo un tossico. Ce lo disse anche perché sapeva della nostra confidenza con la roba, per via del nostro background di Crotone, dove c’era solo quella e che da quando avevamo quindici anni ogni tanto ci capitava di averci a che fare. Ma qui parlo solo per me e non per gli altri del gruppo, anche perché alcuni arrivarono dopo; insomma sarebbe lunga da spiegare… Perché alla fine noi eravamo dei “drogati”, ma di tutto, non ci fissavamo solo su una cosa. Poi io l’aspetto della droga l’ho sempre legato all’aspetto ludico, l’aspetto di sperimentazione, di lotta contro la Razionalità, il lato dionisiaco della Follia e della trance. Mai NOIA insomma. Quasi un approccio scientifico! Per esempio per me
Pulp Fiction in questo insegna molto: se tu hai da fare, fai una bella vita e hai addirittura i soldi per comprarti la roba buona, puoi andare avanti tutta la vita. Il brutto è quando inizi a fare cose brutte per trovarla. Se no puoi essere un tossico tranquillo, insomma. Penso… anche se il 99% delle volte non finisce così: va a finire male male e ho perso buoni conoscenti (mai amici per fortuna) e ho visto rovinata molta gente che avrebbe fatto grandi cose.
Noi avevamo questa cosa un po’ romantica tipo: dopo il concerto ci facciamo. Così quando suonavamo tornavamo a casa e ci facevamo; ma suonavamo una volta al mese, una volta ogni due mesi. Quindi capisci che ci avevano chiamato ad aprire per gli U.S. Maple anche per gestirli. Riuscimmo a gestirli piuttosto bene alla fin fine. Restarono un paio di giorni a Roma e trovammo una roba molto buona, ma Al si fece troppo. Quindi quando arrivò il momento in cui doveva salire sul palco stava fattissimo. Ricordo questa attesa lunghissima con lui che non si capiva se riusciva ad andare sul palco. Alla fine comunque suonò. Poi a fine concerto anziché andare in albergo venne in giro con noi e proseguimmo al meglio la serata fino al mattino. Lì partirono grandi promesse, “faremo grandi cose insieme”, tutte cose che ovviamente non furono mai mantenute.
Fu bello, anche perché era nel momento del loro apice, poi infatti non vennero più in Europa.
Torniamo al DalVerme.
Sì, diciamo che uno dei motivi principali per cui ci siamo interessati a una cosa del genere è che a quei tempi dovevi avere a che fare con i localari, quindi dovevi pagare l’affitto del locale e poi dovevi organizzare tutto: dall’ospitare la band, al cucinargli, all’occuparti del fonico, ecc… per poi avere roba come metà dell’incasso della porta. Per farti capire, quando organizzavamo sotto nome “micrO-Onde Concerti” il mio socio Nick preparava la cena per la band – che io avevo soprannominato “LA SIGNORA”: e la signora consisteva sempre in una pasta fredda e sempre con meno condimento (povere touring band dell’epoca!). A un certo punto invece abbiamo fissato un nuovo standard, ovvero il Pigneto-style. Ovvero, se portavi gente in un locale organizzando il concerto, il tizio del locale era contento perché non doveva fare niente; questo ovviamente a patto che l’artista proposto gli piacesse. E questo è stato il metodo del Fanfulla, DalVerme, ecc…
Il Fanfulla 101 è stato il primo, infatti.
Sì, il Fanfulla aprì nel 2007. Noi organizzavamo anche prima, ma facevamo cose al Sinister Noise, al Metaverso, al Rashomon, in generale molto a Testaccio o anche a San Lorenzo, al Mads e alla Locanda Atlantide. Facevamo anche robe negli squat, specialmente Strike o La Strada, qualcosa al Forte Prenestino, ma paradossalmente avevano altre problematicità a volte ancora più difficili da superare. Quindi anche lì ci venne l’illuminazione. Pensammo, ma perché dobbiamo complicarci la vita? Sappiamo organizzare concerti e abbiamo i contatti, sappiamo tutto del bere. Sappiamo potenzialmente gestire un bar. Storicamente, vedere un concerto significava bere merda. Noi invece volevamo unire la musica al bere bene, e alla fine fummo davvero tra i primi in Italia a proporre questa cosa. Vedere un concerto noise con gente che si mangia vetri e sanguina mentre bevi un bel Margarita in coppa, per giunta a un prezzo molto economico. Nonostante questo a Roma riuscirono comunque a dire che il DalVerme “era un po’ caro”. Vabbè.
Quando aprì ufficialmente il DalVerme?
Lo prendemmo nel 2008, ma finimmo i soldi. Facemmo tutti i lavori da noi (dunque molto lentamente) e finimmo per aprirlo che ormai era il 2009.
C’è da fare una piccola premessa però. Manu del Fanfulla, sapendo che organizzavo concerti di quel genere in giro per Roma, mi chiese se volevo fare cose con loro. Assieme a lui c’era altra gente, lui infatti curava solo due serate, e una di queste era il lunedì, dove ci passavano le cose più sperimentali. Da lì si creò questo famoso lunedì del Fanfulla in cui c’erano le cose più pazze e weird organizzate da me, Manu, Demented [Burrocacao], Mattioli e altri. Il Fanfulla però non poteva avere volumi troppo alti, mentre noi del DalVerme sì. Questo per dire che non ci pestammo mai i piedi perché avevamo delle proposte tutto sommato diverse: loro più incentrati sul folk e il lo-fi, noi più sui chitarroni e le batterie pestone – anche se, naturalmente, le cose si incrociavano spessissimo. Quindi se prima al Pigneto non c’era niente, da un certo momento in poi si creò questo quadrilatero in cui per le cose piccole si andava al Fanfulla e al DalVerme e per le cose grandi c’era il Circolo degli Artisti e l’Init. Facevamo anche cose tutti insieme. Poi ovviamente i locali hanno iniziato ad aprire a profusione.
Raccontaci un attimo anche degli altri del DalVerme.
Eravamo io, il Marziano, Marzia e Maru. Ma quest’ultima ci fu solo nella prima stagione, grossomodo. Inizialmente anche altri amici e soci ma che si staccarono chi addirittura prima dell’apertura, chi subito dopo.
Lei entrò come socia intorno al 2012. Si affacciò da noi per proporre roba punk e noise pesante. Noi eravamo contentissimi di avere una tipa che si sbatteva per cose del genere. Allo stesso modo lei era shockata da un locale che non ti chiede niente e che ti dà l’opportunità di fare, in sostanza, quello che vuoi, mettendoti a disposizione tutto. Noi mettevamo il fonico, l’impianto, il bere e il cibo per gli artisti, mentre chi organizzava doveva occuparsi di ospitare e di pagarli, ovviamente sottraendo la somma da quanto guadagnava dalla porta.
Dopo aver organizzato uno, due, tre concerti ci disse che le sarebbe piaciuto fare un discorso un po’ più continuativo, anche offrendosi di contribuire per alcune spese di tasca propria. Ci teneva a far parte del DalVerme e avere più potere decisionale. Per me fu una manna dal cielo, anche perché ero l’unico “direttore artistico”, se così si può chiamare. Era comunque un lavoro che mi impegnava a tempo pieno, motivo per cui in quel periodo suonai pochissimo: dalle 150 date all’anno, con metà anno passato in tour, passai a 40/50. Gli Hiroshima non potevano più andare in tour, perché se ci assentavamo io e Marziano era la fine.
Claudia si portò dietro tutta una scena e un giro di persone davvero fantastico, che inizialmente magari non si sarebbe avvicinato ad un posto come DalVerme (sai che Roma mantiene spesso le scene chiuse ermeticamente su sé stesse). Oltre ad organizzare, diventò praticamente il fonico fisso del DalVerme (quante bestemmie quando facevamo cose tipo Thalassa con 4 band in 2 ore, e 9 mq di palco, 200 strumenti diversi, 25 musicisti scoppiati). Con lei avemmo forze ed energie per andar avanti alla grande e tirar su anche festival esterni (come Pigneto Spazio Aperto, per due estati al Parco del Torrione. O Handmades per due edizioni a Villa De Santis.), collaborazioni con spazi esterni, squat o altri locali. Ora piango quindi basta.
Una domanda stupida. I cinque momenti più belli del DalVerme.
La prima che mi viene in mente, anche perché è tristemente la più recente, è la chiusura. Fu praticamente un mese di festa in cui vennero tutti a suonare. Gli ultimi quattro giorni furono particolarmente belli. Una serata in cui c’erano i Fine Before You Came, in cui presentavano anche il disco nuovo, ma fu un secret show. Un’altra con un concerto che era stato anche l’inaugurazione del DalVerme, ed erano i Movie Star Junkies, i quali suonarono insieme ai
Thetlvmth, ovvero Valerio Mattioli e Wolf Anus, che fecero questa reunion per la chiusura del DalVerme.
In quel mese ricevemmo tanto affetto. Anche perché non fu una chiusura immediata. Ci furono le guardie che vennero a comunicare, poi i vari finanziamenti che provammo a tirar su, ecc… Gli ultimi giorni venne gente da tutta Italia, proprio con gente che aveva preso l’albergo al Pigneto…
Quella cosa che si fece al Mandrione con Calcutta che suonò unplugged quale momento della chiusura era?
Lì era quando ci chiusero le guardie e chiedemmo un contributo ai partecipanti grazie al secret-show di Calcutta, che era già il Calcutta che tutti conoscono, quello di Mainstream. Era il periodo di #riapriamoilDalVerme, per intenderci. Quello fu un doppio concerto immediatamente sold out che ci diede una bella boccata d’aria, nonostante il periodo.
Tra l’altro fu un bellissimo concerto.
Sì, fu forse l’ultimo concerto di Calcutta con chitarra e voce. Poi un altro bel momento fu ovviamente Thalassa. Fu bello perché comunque avevi tutti i gruppi qui che erano venuti per suonare e restavano per tre giorni, già quello rendeva il tutto come una sorta di vacanza. Ricordo inoltre che vennero questi ragazzetti dall’Inghilterra e via mail ci scrissero se fosse possibile avere dei posti seduti, senza avere assolutamente cognizione di quale oscuro scantinato in cui si stavano andando a ficcare. Cose di questo genere insomma.
Poi boh, ce ne furono tanti di momenti. Quello che citavi prima di Evan Parker fu pure uno di questi. Voglio dire, Evan Parker al DalVerme che accetta di prendere pochissimo e che insieme a noi decide di fare due concerti per il sold out.
Un grande. Ricordo anche quello dei Supreme Dicks, che fu clamoroso.
Sì, anche quello bellissimo. Ah, poi un altro di quelli epici fu quello dei Destruction Unit, che fecero un casino allucinante. Be’, poi anche il primo dei Wolf Eyes fu un momento storico…
Ah sì, quello stupendo. Aspetta, ma pure James Ferraro venne al DalVerme…
Sì, James Ferraro dell’epoca d’oro a DalVerme fu una grande cosa. Un altro momento per me top fu il concerto con Otto Von Schirach. Poi pure Sun Araw nel suo momento super. Ah, facemmo anche i PORN, gruppo di Bill Gould dei Faith No More, con Tim Moss e Balazs Pandi. Bill Gould addirittura, dopo aver saputo che il DalVerme stava per chiudere, scrisse una mail al Comune di Roma dall’America!
Ricordo pure il video di Enrico Ghezzi sul DalVerme.
Enrico Ghezzi fu davvero un grande, venne a DalVerme a vedersi un paio di concerti nonostante non stesse già in ottima forma e poi fece un video – che diventò virale – di accusa al questore per aver chiuso il posto. Grande supporto. Anche Rabih Beaini o anche Jozef van Vissem col suo liuto, in un DalVerme super silenzioso. Altro concerto mitico furono i Doomsday Student, ovvero gli Arab on Radar, riformatisi con nuovo nome: fu il panico. E poi grandi emozioni con Peaking Lights, King Dude, Mdou Moctar, Lee Noble, i Sightings, Jarboe, Barn Owl, Ghédalia Tazartès e poi tanti altri.
Per chiudere parlerei dei Salò, il progetto con Giacomo Mancini, Emiliano Maggi, Demented…
Ma sai che ormai con Stefano [Demented Burrocacao] ci suono da un bel po’, perché a un certo punto entrò negli Hiroshima – come sassofonista, tra l’altro -, intorno al 2006. E alla fine ci suono da quel periodo fino a oggi con i Salò.
Diciamo che Mai Mai Mai è ormai il mio progetto principale, ma in fin dei conti io sono un batterista. A me manca molto suonare la batteria. Infatti a un certo punto ci fu la parentesi Metro Crowd, gran gruppo, nominato “all star band di Roma Est”, uscito prima su Legno e poi su Maple Death: ma come spesso capita alle band con tante persone coinvolte, le strade si dividono…
Per quanto riguarda Salò, è venuto tutto naturale, nel senso che con Emiliano Maggi si parlava di fare qualche feat insieme già col suo progetto Estasy, anche perché condividiamo questa cosa del suonare mascherati e abbiamo ambedue un immaginario, chi più chi meno, sognante e narcotico. Poi con Giacomo, col quale siamo sempre stati amici, abbiamo condiviso l’esperienza di La Fine, inoltre il suo gruppo, gli Wildmen, uscì per NO=FI e suonarono al DalVerme mille volte. La sua voglia di suonare è cresciuta con gli anni e non ce la faceva più a star fermo. Ecco formato il gruppo. Eravamo noi tre che non sapevamo suonare, così abbiamo pensato di chiamare qualcuno che lo sapesse fare. Allora ci siamo rivolti a Stefano Di Trapani, in arte Demented Burrocacao.
Il Maestro.
Eh sì, è l’unico tra noi che sa leggere la musica. Ormai da tempo fa parte del progetto anche Cosimo Damiano, ed ecco la formazione base al completo. Anche se per ogni performance, che viene sempre fatta ad hoc per lo spazio in cui avviene, la line up può cambiare e modificarsi. Possiamo essere meno o arrivare ad arrivare 5/6 ospiti sul palco con noi, tipo big band.
Ufficialmente la cosa nacque quando Emiliano per il vernissage di una mostra decise di fare una performance, ma questa volta non da solo. Lui propose di farla insieme, di suonare con gli strumenti e con dei vestiti fatti da lui. E già lì quindi iniziano a fondersi mondo dell’arte, moda e musica, persino Gucci supportò lo show dandoci i tessuti con cui fare i costumi. E alla performance successiva a Milano, quelli per fare tutte le scenografie.
Questa prima performance andò molto bene e creò un effetto straniante tra gli spettatori. Ci divertimmo parecchio, quindi decidemmo di non abbandonare il progetto. Da lì iniziarono a chiamarci diversi musei, una performance a Milano durante la Settimana della Moda in collaborazione con Nero e Fabio Quaranta, poi Robot Festival a Bologna, Roma Europa Festival, ecc… Il progetto è molto stimolante e ci divertiamo a metterci alla prova, a cambiare sempre, senza fossilizzarci sul lato musicale, ma pensando il tutto da ogni punto di vista. Forse da questo punto di vista siamo più simili a una compagnia teatrale che ad una band quindi.
Dal punto di vista concettuale come racconteresti i Salò?
Il nostro immaginario è legato alla Roma Barocca e Rinascimentale, al disfacimento dei costumi, alla dissoluzione sessuale, agli abusi del potere e della Chiesa, dell’inquisizione. Ovviamente noi siamo dalla parte di eretici, streghe e reietti che combattono e cercano di sfuggire all’appiattimento. Il punto è mantenere questa estetica facendo quello che vogliamo. Inizialmente infatti incentravamo il discorso solo sulla performance, poi abbiamo deciso anche di registrare qualcosa, visto che quello che usciva musicalmente dai nostri incontri ci piaceva parecchio. Così abbiamo fatto uscire questo primo 7’’ proprio per Nero, ribadendo il rapporto con il mondo dell’arte: anche perché il 7” è una limitatissima edizione che arriva in una busta di tessuto cucita su misura e serigrafata a mano, con dentro un libretto con disegni che illustrano i testi e il concept del disco.