L e grand bal è il quarto lavoro di Laetitia Carton, autrice francese di documentario che vive in un paesino di quattrocento abitanti in Nuova Aquitania. Il film è uscito a maggio anche nei cinema italiani ed è stato finalista ai César 2018 nella categoria miglior documentario. Racconta un piccolo festival dedicato ai balli della tradizione popolare europea. Il festival si chiama Le Grand Bal de l’Europe e si tiene ogni estate a Gennetines, in Francia, nella regione dell’Alvernia. Le grand bal utilizza il ballo per costruire un saggio poetico sulle relazioni tra corpi. O forse nell’autrice non c’è nessuna esplicita intenzione di costruire e dichiarare qualcosa, come è giusto che sia. Le Grand Bal è un’opera di attualità sconcertante, che merita tutta l’attenzione e il sostegno possibile. Senza mai pronunciare la parola “smartphone” o “Facebook”, Le grand bal parla dritto al cuore del nostro tempo.
L’inizio è affidato a una voce narrante, che torna di tanto in tanto per svolgere una serie di riflessioni esposte con tono intimo e sospeso. Che cos’è, per esempio, “la città rasserenata” a cui la voce narrante fa cenno, parlando a proposito delle danze in cerchio o in catena che vediamo passare sullo schermo? È la città nella quale noi tutti viviamo, attraversata da mille fasci di connessioni? È la Francia, l’Europa, è il mondo? È una citazione che non cogliamo? E significa che, restando nella metafora, è grazie a un cerchio o una catena che la città può ritrovare sé stessa? A tratti sembra di riascoltare l’accento caldo della scrittrice Annie Ernaux, la cristallina capacità analitica che le permette di ritrovare la propria immagine riflessa nella storia e nella forma dei rituali collettivi.
Il resto del documentario è costruito con lunghe scene di ballo. Nel montaggio non c’è dilatazione artificiale, ma la restituzione di un tempo reale, che consente di apprezzare per intero una melodia, il paradosso di danze lente come sabbie mobili, di studiare le variazioni di espressione sui volti, lo stato mentale, il su e giù delle spalle, il petto che respira sotto una canottiera. Scene lunghe e capaci di questo respiro permettono di percepire perfino il legno della pedana che scricchiola sotto le scarpe dei ballerini. Cioè l’organico e la materia sotto il flusso della musica. Le scene di ballo si alternano con le conversazioni raccolte tra la comunità del festival. Si discute di ballo scendendo in dettagli tecnici e coreutici, ma ci si confida anche sul senso o meno di ballare una mazurka con uno sconosciuto, sull’opportunità di fidarsi o no, su che cosa significa guidare, muoversi con lucidità o abbandono. Le persone, soprattutto, non parlano mai alla telecamera, ma sempre l’una con l’altra e in gruppo.
Le Grand Bal è un’opera di attualità sconcertante, che senza mai pronunciare la parola “smartphone” o “Facebook”, parla dritto al cuore del nostro tempo.
Il documentario Fyre, in onda su Netflix da qualche mese, è una sorta di doppio infernale di Le grand bal. È la città per niente rasserenata, ma truffata. Da una parte abbiamo il racconto di una frode ai danni del pubblico di un festival organizzato alle Bahamas, la cultura di Instagram, dei cuoricini e degli influencer, dall’altra Le Grand Bal de l’Europe, un evento nel mezzo dell’Europa rurale, poco interessato agli strumenti della comunicazione digitale e del marketing. Così come Le Grand Bal de l’Europe non sembra troppo preoccupato della parte di design e allestimento, diventata strategica nella progettazione moderna dei festival. Si balla su pedane coperte da comuni tensostrutture in plastica. L’illuminazione è semplice. Ogni tendone ospita un’orchestra che suona un diverso repertorio. Al mattino ci sono i laboratori. In una scena ascoltiamo un insegnante citare un film degli anni Trenta sui balli della Vandea. C’è insomma una grande attenzione alla storia sociale del ballo. La musica finisce intorno alle tre del mattino (anche se le orchestre improvvisate continuano a suonare fino all’alba). Dopo un pomeriggio e una notte trascorsi in ascolto di violini, fisarmoniche, cornamuse, clarini e ghironde, la melodia è come una sostanza penetrata nel sistema nervoso. Ecco perché si ondeggia con i fianchi mentre si aspetta in fila alla mensa. Sono diversi i ritratti di persone che ballano anche quando non c’è musica. Non è l’eros in agonia della società della prestazione descritto dal filosofo Byung-Chul Han, ma è l’eros sopravvissuto del quale Laetitia Carton testimonia la scoperta e il ritrovamento.
Del pubblico radunato a Gennetines colpisce l’assoluto miscuglio anagrafico. Giovani e meno giovani si parlano e partecipano alle stesse danze sotto i tendoni. È un aspetto dirompente e alternativo rispetto ai consueti luoghi del tempo libero che non prevedono contatto e mescolanza tra generazioni diverse. È più facile in un festival contemporaneo trovare un grande mix di etnie che non di generazioni. Inoltre: carni pallide o abbronzate, ventenni con fisionomie da film di Éric Rohmer o Il tempo delle mele, splendide signore sessantenni con l’aria di navigate e sagge femministe, corpi non necessariamente scolpiti o scattanti, anzi, flaccidi eppure vitali e reattivi, tipi dal naso bitorzoluto che paiono usciti da un fienile, omini smunti come vecchi professori di liceo, tutto quell’affresco, un po’ di campagna e un po’ di paese, che ricorda tanto i tipi umani dei cortei No Tav in Val Susa. Lo stesso si può dire del personale impiegato nell’organizzazione: non necessariamente giovane né fotogenico. Tuttavia ci sarà pure chi non balla – io sono tra quelli e forse per me una notte a Le grand bal de l’Europe potrebbe significare l’incubo dell’esclusione e l’inferno – e poi c’è chi non viene scelta, invitata, “una paria della pista da ballo”, che perciò entra in uno stato di caos, di sofferenza, ma nonostante tutto, dice la voce narrante, “una mazurca celeste vale tutte le lacrime del grand bal”.
A Le grand bal de l’Europe si ballano, tra gli altri, la bourrée, la mazurka, la pizzica, la chapelloise, il circolo circassiano, la maraichine: tutti balli tradizionali.
Ma c’è un aspetto – dicevo all’inizio di questo articolo – forse meno evidente, ma di grande interesse. Che cosa si balla a Le grand bal de l’Europe? Si ballano, tra gli altri, la bourrée, la mazurka, la pizzica, la chapelloise, il circolo circassiano, la maraichine. Cioè tutti balli tradizionali. Occorre chiedersi, quindi, che cos’è questo elemento che affascina tanto i danzatori, che sentono scorrere dentro di sé come un fluido vivo e inebriante. Quell’elemento è, nella forma del ballo e della musica, la tradizione. È il codice della tradizione, incarnato nei pattern melodici e nella voce dello strumento. E che cos’è la tradizione? Secondo il dizionario Treccani, è la “trasmissione nel tempo, da una generazione a quelle successive, di memorie, notizie, testimonianze”. Ma “tradizione” è anche una parola ambigua, opaca, a rischio, soprattutto per l’uso escludente che ne ha fatto la destra a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento. Oggi è una parola tornata in auge nella destra estrema, nella Lega che si siede al ristorante con Casa Pound, in Steve Bannon lettore di Julius Evola e tra i relatori del World Congress of Families di Verona. Non poteva che diventare una parola un po’ sospetta se guardata da sinistra e forse poco attraente per quel piccolo ma fertile e influente laboratorio critico della sinistra radicale che in questi anni abbiamo imparato a identificare con l’espressione “accelerazionismo”.
Eppure la tradizione può essere altro da come destra e sinistra hanno finito per considerarla, nel gioco di specchi che, oggi più di ieri, si nutre di polarizzazione. Sotto i tendoni del Grand Bal, dove si balla tra generazioni lontane, tra sconosciuti, tra etnie diverse, tra marito e moglie, tra amici, tra coppie dello stesso sesso, tra sorelle e tra fratelli, è proprio il torrente della tradizione, vivo nella forma del ballo, che salva e preserva la continuità tra generazioni ed epoche storiche distanti nei secoli. Negli anni in cui il cinema e le arti visive si sono nutriti di teorie postcoloniali, Laetitia Carton, in qualche modo, va in direzione opposta, riscopre il potenziale progressivo e liberatorio della tradizione, con un film intriso di cultura popolare bianca, contadina, cristiana e pagana, coraggiosamente eurocentrico e universale.