G eorge Schneeman (1934 – 2009), studente di lettere a Saint Paul, Minnesota, soldato a Verona, insegnante d’inglese e italiano a Siena, pittore tra i poeti a New York. George Schneeman ha saputo trasfigurare il Rinascimento italiano con sensibilità e libertà spirituale. Oserei dire che l’idea d’Italia coltivata da Schneeman supera per intelligenza e semplicità quella di molti celebrati artisti suoi contemporanei e nostri connazionali; Schneeman è l’americano, insieme a Philip Guston, capace di raccontare la nostra luce, i nostri muri, pietre e rovine, gli affreschi integri e quelli scrostati.
Ricercando testi sulla parola dipinta, mi sono imbattuta in “Painter among Poets”, il libro che narra la collaborazione tra Schneeman e i poeti di New York. Dopo alcuni mesi di studio, mi sono fatta l’idea che fosse un uomo dolce, serio e disilluso o disinteressato nei confronti del riconoscimento che altri rincorrevano. Schneeman non ha coltivato una carriera galleristica; la rinuncia al mercato e al mondo dell’arte è fondamentale per cogliere la levità dell’opera di Schneeman, l’estrema, intuitiva, libertà delle sue carte, che non dovevano piegarsi ad alcun calendario del collezionismo, bensì unicamente al proprio desiderio.
All’età di ventiquattro anni, lo studente di letteratura e filosofia George Schneeman presta servizio presso l’esercito americano a Verona – è il 1958. In caserma comincia a dipingere e stringe amicizia con altri due soldati, i poeti Charles Wright e Harold Schimmel. Nel 1959 sposa Kathryn Pratt, Katie, da cui ha tre figli; la giovane coppia sceglie di continuare a vivere in Italia anche dopo il congedo di Schneeman; si trasferiscono nel senese, appena fuori Asciano, in un casolare chiamato Rencine. Iniziano gli anni toscani: gli Schneeman vivono in una casa senza elettricità né acqua corrente, lavorano la terra e impartiscono lezioni d’italiano agli inglesi e d’inglese agli italiani. Steve Katz, che andò a trovarli, racconterà che tutto a casa di Schneeman, dagli utensili ai recipienti, sembrava “Made by George” e che un bambinetto toscano stazionava sempre davanti alla cascina per vedere chi entrasse, scocciato dal viavai di americani.
Schneeman visita Piero della Francesca a Monterchi, mentre a Siena studia i Lorenzetti; capisce, negli anni toscani, che il proprio destino, in Italia o a New York, è il Rinascimento, il primo Rinascimento, quello che a scuola è detto Umanesimo e che questa humanitas dell’Umanesimo non è dicibile con il colore a olio – riflettente, ingannatore – bensì con la tempera. Schneeman comprende che nella vita dipingerà a tempera e che parte della sua opera seguirà la tecnica dell’affresco, non necessariamente su base muraria: “Creo piccoli affreschi mobili perché è la tecnica dell’affresco – non la pittura muraria – ciò che mi attrae”. Schneeman legge molta letteratura italiana; ma in quegli anni l’Italia è dimora per altri letterati americani e ne conseguono importanti amicizie, tra cui quelle con lo scrittore Steve Katz e i poeti Peter Schjeldahl e Ron Padgett.
Quando i figli cominciano a diventare grandi, agli Schneeman si pone un dilemma: “nel 1966 giunse il momento di decidere se i nostri tre ragazzi dovessero crescere come americani o campagnoli toscani, ci trasferimmo a New York”. C’è da sottolineare che in Toscana gli Schneeman conducevano una vita priva di agi: per nove anni hanno vissuto con i Tuscan contadini, italianismo con cui s’intendono i mezzadri che in Italia andarono scemando a partire dalle leggi del 1974 e del 1982, rivolte a una graduale estinzione del contratto di mezzadria. Tornando nel senese verso gli ultimi anni della sua vita, dopo aver comprato con la moglie un antico appartamento a San Giovanni d’Asso dove trascorrere l’estati, Schneeman cercherà ancora la compagnia dei vecchi Tuscan contadini, testimoni per contratto di un passato remoto.
A New York, nei tardi Sessanta, Schneeman diventa il pittore dei poeti raccolti intorno alla St. Mark’s Church In-the-Bowery; con loro avvia collaborazioni, pitture su carta dove il poeta porta la parola, il pittore il disegno, ma il poeta aggiunge un segno, e il pittore un punto, e il poeta incolla un’immagine e il pittore la rimuove. I poeti di Schneeman sono Ted Berrigan, Larry Fagin, Allen Ginsberg, Ron Padgett, Anne Waldman e molti, moltissimi altri. Si sta in larga parte parlando della seconda generazione della New York School (la prima è costituita da poeti maggiori di dieci, quindici anni, Frank O’Hara per intenderci).
Se la prima generazione della New York School è passata alla storia anche per la proprie assidue collaborazioni con gli eroi dell’Espressionismo Astratto Willem de Kooning, Jasper Johns, Jackson Pollock e Larry Rivers, George Schneeman dichiarerà che nel lavorare con i poeti non ha in mente le collaborazioni tra O’Hara e gli espressionisti astratti – al contrario, i poeti con cui Schneeman collabora, sosterranno di essersi sentiti un po’ O’Hara davanti a Pollock.
La seconda generazione della New York School riprende molti temi forti della prima: la consapevolezza di appartenere a una grande famiglia d’arte (tutti citano tutti e tutti si omaggiano), l’ironia, l’interruzione, la scompensazione divertita che mai sfocia in destrutturazione, e soprattutto quella forma d’immaginario per cui leggendo una qualsiasi delle loro poesie si ha l’impressione di camminare per una strada su cui affacciano finestre e balconi grigi e fuori fuoco salvo per i dettagli che interessano al poeta – un cartellone, un cono gelato, una piantina di basilico; dettagli colorati cui si delega il sentimento e il senso della vita. A distinguere la seconda generazione dalla prima v’è anche il fatto che la seconda venera la prima, e canta la propria idolatria.
Tra questi geni sciamannati, gli Schneeman rivestono il ruolo di pater et mater familiae, la loro sala da pranzo rappresenta un paradiso domestico dove lavorare e divertirsi, l’uno non avverte più i dolori della cirrosi, l’altro smette temporaneamente di pensare al pagamento dell’affitto. Scrive Michael Brownstein a proposito dell’opera di Schneeman:
Dipinti delle persone della sua vita: sua moglie, i suoi bambini, i suoi amici.
La sua arte perenne, funzionale, familiare, autentica.
Mai presuntuoso, mai superbo, mai tattico.
Arte in cui scopriamo un balsamo e una pietra di paragone.
La sua autosufficienza ci libera dall’arrogante sogno febbrile dell’ego.
Spesso, nei propri componimenti, i poeti della NYS riportano versi in lettere maiuscole che trascrivono parole e frasi incontrate passeggiando: nomi di hotel, segnali stradali, menù – in un collage tra verso lirico e verso della strada. Lo stesso procedimento avviene nei collage dipinti che Schneeman crea con ognuno di loro, seduti intorno a un tavolo: la lettura è visiva, poi testuale, infine assume la forma del rebus, immagine completa colore, colore completa suono. Tutto, nell’arte di Schneeman, è collage, mai frammento; se nel frammento siamo usi trovare il sintomo di un’angoscia sociale, culturale, in Schneeman il sentimento è ben altro. Per il pittore americano l’assenza di continuità e senso è ancella della levità. Ci troviamo in quel raro regno, rifiutato da qualsiasi tipo di avanguardia, anche dalla più fintamente disimpegnata, chiamato leggerezza e allegrezza.
Schneeman racconta la propria vita tra vendite e mostre in una biografia pubblicata sul suo sito personale. L’umiltà e la sincerità del tono con cui espone brevemente le proprie scelte dicono quel che c’è da sapere a proposito della sua vita da artista. Scrive: “Dal 1976 al 1982 ho esposto regolarmente da Holly Solomon. Solo una di queste esposizioni – una serie di camicie a quadri dipinte ad affresco – ha venduto bene”; “Per quindici anni, sino alla primavera del 1996, ho allestito mie esposizioni personali ogni due anni nel mio studio del Lower East Side, mostrando dipinti, collage, ceramiche. Benché i guadagni servissero unicamente a coprire le spese, questo sistema ha mantenuto un pubblico per il mio lavoro, fino a che il proprietario di casa ha alzato l’affitto a più di quanto mi potessi permettere”; questo è un testo scritto nel 2008, Schneeman morirà nel 2009 e La Nazione riporterà la notizia. Il suo necrologio sul New York Times inizia invece così: “Se George Schneeman è stato un pittore “ingiustamente negletto”, come il New Yorker lo chiamò una volta, a lui non importò mai un granché”.
Intervistare artisti già celebri o sul punto di divenirlo è il più delle volte un’esperienza triste: il provocatore ribadisce incessantemente la propria persona con ansia da banditore o mestizia da popstar; il professionista – il peggiore – argomenta dettami da installatore d’impianti idraulici (tra le ultime che ho sentito: “Sto per modificare leggermente il mio stile, ma devo farlo con dolcezza, per accompagnare il pubblico verso il nuovo periodo”); l’ossessivo racconta la puntigliosità con cui ha perseguito ogni singolo dettaglio dell’opera pensando che i dettagli salvino l’opera; il divino sputa in faccia la propria superiorità, e certo, rispetto agli altri è inebriante, se non che poi quasi subito si tradisce con occhietto paranoico e il superomismo che stava tanto simpatico riprende le più che umane forme di complesso di castrazione. Sono giunta alla conclusione che chi si mantiene nella dignità e nella decenza, e dunque nell’Arte, sono gli Schneeman e i matti.
Viviamo anni in cui le mostre più importanti e adorate dal mondo dell’arte sono retrospettive dedicate ai “re-discovered”, grandi artisti anziani o defunti, spesso negletti, outsider o in esilio volontario negli anni della giovinezza e maturità, del cui elevato numero di lavori il mercato può nutrirsi a volontà; due esempi al femminile: Carmen Herrera (1915 – ) e Lee Lozano (1930 – 1999). Si (ri)scoprono i maestri come tuberi in un arido campo e ci si domanda: “Come mai non prima?”. La risposta è semplice: non sempre, anzi quasi mai, i grandi artisti sono bravi nelle public relations. Oggi, centenari e ventenni sono coetanei. Non so dire se pittori come Norman Bluhm (1921 – 1999) o George Schneeman, che hanno trascurato più radicalmente di altri le regole del gioco, saranno mai riscoperti dal grande pubblico o se la loro raffinatezza continuerà a penalizzarne la fortuna.
Bando alla biografia, ecco l’opera di George Schneeman, attraverso alcuni esempi. In Bent, collaborazione con Ted Berrigan, Schneeman sparge una chiazza di verde, rosso e arancione, la incornicia di una linea tremula, seghetta un altro tratto: il cane ringhia. How are you? – chiede. Berrigan scrive: “I’m feeling” – e sotto – bent BENT. [Bent: piegato, corrotto, invertito, omosessuale] Chi si sente bent? Berrigan? O la Bentley di cui vediamo in collage il radiatore? Il radiatore attira le farfalle. Forse la risposta non coinvolge “bent”. “How are you?” “I’m feeling”. I trattini che sgorgano dall’occhio del cane sono lacrime, o un cono ottico. Tanti elementi uniti da una difficile e perfetta armonia; nessun significato universale, ognuno di noi cade dove deve cadere. La mia fruizione del dipinto, per esempio, si ferma a “I’m feeling”. Non riesco a pensare che “I’m feeling” e “bent” siano parte della stessa frase ed è quello spazio bianco tra le parole disegnate che carico della mia pulsione di spettatrice. Ripeto “I’m feeling”, trattengo una pausa, aggiungo “bent”; intanto il cane mi guarda, caricando quella pausa della suo ringhio.
“Pink Panties” è un portable affresco. Il rosa delle mutandine da donna, o bambina, è lo stesso, in tonalità più fredda, del manto del Cristo nella Resurrezione di Piero custodita al Museo Civico di Sansepolcro. Il pannello è rotondo; nell’antichità l’imago clipeata ospitava antenati, personaggi celebri e uomini prossimi all’apoteosi. Le mutandine non occupano tutto il clipeo, bensì ondeggiano nella luce marmorea, leggermente centrate a sinistra; richiamano, nella loro assenza di sostegno, le mani senza corpo che accompagnano il Cristo Deriso di Beato Angelico.
Il clipeo è dunque epifania delle Pink Panties. Schneeman non sta giocando al citazionismo blasfemo come tanti amano pensare di fronte a immagini che richiamano simbolismi sacri, si sta appropriando di un ragionare pittorico; si pensi alle strane architetture di volta in volta assunte dal velo trasparente che copre il pudore di Cristo nei battesimi di Masolino, Piero, Perugino e di altri coevi. I grandi pittori dipingono immagini sacre, qualsiasi soggetto dipingano; se l’immagine dipinta appare dissacrante, questo significa che l’opera è fallita.
Su qualunque supporto Schneeman lavori, la luce è sempre quella di uno straniero con gli occhi in Italia, troppo rarefatta e uniformemente chiara per un vero italiano che non sia Piero; è una luce avvertita da occhi che vivono ancora i lunghi secondi del primo abbagliamento. È inoltre luce di chi ha già sperimentato la fascinosa asetticità dell’arte minimalista, di chi sa giocare con le perversioni del bianco – il bianco, i bianchi, come materiali e non come colori.
E poi c’è Big Nude. Per capire la grandezza, che è veramente assoluta, di Big Nude, bisogna paragonare l’opera a quelle di un altro grande maestro, Alex Katz (1927 – ). Schneeman è arrivato in un attimo là dove Katz si è adoperato una vita; l’uno e l’altro portando con sé tutti i pro e tutti i contro dell’attimo e della vita. Schneeman miscela due tonalità d’incarnato, due, e con queste occupa quasi tutta la superficie del dipinto; piazza una testa rossa come strano punctum d’apertura del quadro, una testa bionda pressoché invisibile in basso a sinistra, e una testa grigia, presumibilmente quella del più anziano capo di questa tribù urbana, al centro.
Che ci sia una testa grigia in centro all’immagine si nota solo dopo un po’ perché l’impercettibilità della testa bionda sottrae attenzione a quell’area di dipinto; di conseguenza, che una scena d’apparente esaltazione del corpo giovane, sia dominata da una figura più anziana per di più posta al centro, giunge come colpo di scena percettivo, una sensoriale uccisione del padre. Si nota, dopo qualche decisivo secondo, che la figura anziana non è l’unica a portare gli occhiali, anche altre due figure maschili l’indossano: la scena non è di nudo, ma di svestito, non siamo nel nude, bensì nel naked. Chi sono costoro? Coscritti del santone dal warholiano capello, serpenti in muta e poeti, i sedati e i tranquilli?
Ad affreschi, ritratti e collaborazioni con i poeti, si aggiunge un indefinito numero di paesaggi toscani, colli, casolari e campi delle Crete Senesi e dell’Amiata, dipinti con arida e assolata ruvidezza, la tempera risucchiata dalla carta. Nessuna pretesa se non quella dei tempi che furono: fregarsene, dipingere veloci, testimoniare sulla carta la luce che si sta guardando. Nelle amicali stanze di New York, Schneeman dipinge meglio di chiunque altro il tempo presente, intimo e divertito, l’anima bambina del beat; in Toscana si lascia assorbire da un mistero paesaggistico e antico.
Philip Guston, che Schneeman – mi racconta Ron Padgett – era arrivato a considerare il più grande pittore del Novecento americano, ha edificato la propria opera pittorica sulla monumentalità del frammento (il piede di un dio, la mano di un fascista), lezione impartitagli da Roma, e sull’irrealtà luminosa, lezione appresa a Venezia; Schneeman ha aperto le finestre sulla bidimensionalità brulla, sul muro graffiato, sulla parola magica: la lezione di Siena.
Si ringraziano Ron Padgett, Katie Schneeman, e The Estate of George Schneeman.