I ntonando il ritornello del brano che dà titolo al suo album più rinomato, edito nel maggio 1971, Marvin Gaye si chiedeva “cosa sta succedendo?”. “C’è una rivolta in corso”, avrebbe risposto poco più di cinque mesi dopo Sly Stone nel disco così ribattezzato proprio per replicare a quella domanda (in origine l’intestazione era Africa Talks to You). What’s Going On e There’s a Riot Goin’ On sono dunque capolavori complementari, che osservando la stessa situazione – lo stato dell’Unione in chiave afroamericana – offrivano punti di vista differenti: addolorato ma compassionevole, nel primo caso; cinico, cupo e quasi distopico, nel secondo. Qual era lo scenario, allora? L’arte e la cultura afroamericane si stavano insinuando nel mainstream con le proprie specificità, come auspicato dal teorico e militante Larry Neal nel saggio del 1968 The Black Arts Movement, che indicava agli artisti il “bisogno di sviluppare un’estetica nera”. Avveniva al cinema, attraverso gli antesignani del filone Blaxploitation (nel 1971 uscirono in sala Sweet Sweetback’s Baadasssss di Melvin Van Peebles e Shaft di Gordon Parks, insignito l’anno seguente dell’Oscar per la memorabile colonna sonora firmata da Isaac Hayes), e in televisione, con lo show di Don Cornelius Soul Train, diffuso settimanalmente su scala nazionale dal 2 ottobre 1971. A fare da ariete era stata la musica: dal “Suono della Giovane America” targato Motown al funk di James Brown, che nell’estate del 1970 aveva pubblicato il 45 giri Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine e varato la nuova band The J.B.’s, consolidando la propria posizione di emblema del Black Power (per certi versi contraddetta tuttavia nel 1972 dal suo endorsement a favore di Richard Nixon, la cui trionfale rielezione costituì la vera pietra tombale delle utopie coltivate nei tardi anni Sessanta), fino al jazz di Miles Davis, che – reduce dalla svolta elettrica del 1969 – nell’agosto 1970 aveva soggiogato una platea rock di 600 000 persone al festival sull’isola di Wight e nel 1971 pubblicò a metà novembre il doppio Live-Evil, dall’impronta marcatamente funky, preceduto a fine febbraio dalla colonna sonora del documentario Jack Johnson, dedicato al “Gigante di Galveston”, primo pugile afroamericano campione del mondo dei pesi massimi dal 1908 al 1915.
Altri due boxeur neri – entrambi imbattuti – si sfidarono per il primato nella medesima categoria l’8 marzo 1971 al Madison Square Garden di New York, in quello che fu definito all’epoca “il combattimento del secolo”: Muhammad Ali (dal 1964 affiliato alla Nation of Islam abiurando le proprie generalità “da schiavo”, ossia Cassius Clay) e lo “zio Tom” – parole di Ali – Joe Frazier, che si aggiudicò il match ai punti. La diretta televisiva dell’evento divenne motivo di distrazione collettiva, della quale approfittò una pattuglia di attivisti per trafugare da un ufficio della polizia federale in Pennsylvania i documenti che avrebbero svelato lo scandalo COINTELPRO. A quella struttura del controspionaggio, operativa in segreto dal 1956, il capo della FBI John Edgar Hoover aveva affidato da un paio d’anni il mandato di “neutralizzazione” delle Black Panther, autorizzando infiltrazioni, arresti con accuse false e omicidi (valga da ripasso il recente film di Shaka King Judas and the Black Messiah, basato sulla figura di Fred Hampton, ucciso in un raid il 4 dicembre 1969 a Chicago). L’organizzazione stava conquistando spazio da quando il movimento per i diritti civili aveva perso il suo leader, Martin Luther King, e andava perciò sgominata, come in effetti accadde: l’offensiva subita portò alla diaspora tra le fazioni guidate rispettivamente da Eldridge Cleaver e Huey P. Newton. Era questa la cornice in cui s’inquadrarono quei due dischi, considerati a ragion veduta – e soprattutto ascoltata – pietre miliari della musica popolare del Novecento, i cui contenuti riverberano argomenti che riguardano ancora l’attualità: basterebbe applicare il quesito posto da Marvin Gaye alle immagini dell’omicidio di George Floyd e la replica di Sly Stone a quelle delle conseguenti reazioni di piazza.
What’s Going On
All’età di 31 anni Marvin Pentz Gay Jr., che aveva aggiunto una “e” in fondo al cognome a inizio carriera, attraversava un periodo tormentoso: ai persistenti problemi di relazione con il padre, pastore pentecostale abbrutito dall’alcol (che avrebbe ucciso il figlio alla vigilia del quarantacinquesimo compleanno), il primo aprile 1984, si erano aggiunte l’angustia per la crisi in cui si stava avvitando il matrimonio con Anna Gordy, sorella di Berry, il boss della Motown che lo aveva scritturato nel 1961, e l’angoscia suscitata dalla malattia incurabile di Tammi Terrell, cantante con la quale dal 1967 si esibiva su disco e dal vivo, nonché amica del cuore, morta appena ventiquattrenne il 16 marzo 1970. Un concorso di negatività che lo aveva fatto inabissare nella depressione e nella dipendenza dalla cocaina. A scuoterlo dal torpore furono Renaldo “Obie” Benson dei Four Tops e il compositore Al Cleveland, invitandolo a rifinire e interpretare una canzone “politica” da loro abbozzata traendo ispirazione dalle violenze della polizia contro i manifestanti pacifisti a Berkeley nel “Bloody Thursday” del 15 maggio 1969: What’s Going On, impressa infine su 45 giri vincendo la ritrosia di Berry Gordy Jr. Della frizione tra i due riferisce Rickey Vincent nel volume monografico del 1996 Funk, scrivendo: “Marvin Gaye era un uomo problematico. Uno dei numerosi crooner pop frustrati dell’etichetta Motown, diede sfogo interiormente a dimensioni di sé che i suoi discepoli stanno cercando ancora di decifrare”. I dissapori con il fondatore della casa discografica risalivano alla prima occasione nella quale Gaye aveva manifestato l’intenzione di rendere engagée la propria musica, sull’onda dell’insurrezione razziale a Watts nell’agosto 1965. Gordy lo zittì bruscamente: “Non essere ridicolo!”, tagliò corto. L’attrito diventò clamoroso a proposito di What’s Going On, brano che l’impresario di Detroit considerava troppo schierato e perciò inadatto all’hit parade, arrivando a esprimere la sua disapprovazione in maniera lapidaria: “È la cosa peggiore che abbia ascoltato in vita mia”.
Fino ad allora Marvin Gaye era stato una macchina da singoli di successo, da How Sweet It Is (to Be Loved by You) a I Heard It Through the Grapevine, guadagnando la nomea di “Principe della Motown” e divenendone sex symbol. La dimensione dell’album – dieci in archivio, a quel punto – valeva essenzialmente da ricettacolo di canzoni già note. Con What’s Going On le cose cambiarono radicalmente: dal ruolo di produttore, da lui assunto per la prima volta, all’aspetto visivo (in copertina è ritratto con la barba che si era fatto crescere nell’ultimo anno). Ma soprattutto sul piano delle motivazioni, come spiega egli stesso nella biografia Divided Soul: “Guardavo quello che stava capitando a Woodstock e mi dicevo: ‘Ecco un’intera generazione di persone in marcia su un sentiero nuovo’. E capii che musicalmente dovevo imboccare un percorso individuale. L’attitudine aziendalista della Motown non mi dava spazio sufficiente per respirare, ma io cominciavo a sentirmi forte abbastanza da crearmi una strada personale. Quando mio fratello Frankie tornò a casa dal Vietnam e iniziò a raccontarmi ciò che aveva vissuto, il mio sangue cominciò a ribollire. Mi rendevo conto di avere qualcosa dentro: rabbia, energia, un punto di vista artistico. Era venuto il momento di smettere di giocherellare”.
L’imponenza statuaria dell’opera toglie tuttora il fiato: alla profondità spirituale e politica dei versi delle canzoni corrisponde l’opulenza degli arrangiamenti.
A rafforzarne le convinzioni fu il successo del 45 giri, pubblicato il 20 gennaio 1971 dopo un braccio di ferro con Gordy al culmine del quale Gaye aveva minacciato la serrata dell’attività e, come extrema ratio, la risoluzione del contratto. L’album era stato architettato su un canovaccio tematico, sia in senso narrativo – il Sogno Americano osservato in controluce, evidenziandone crepe e contraddizioni – sia nello sviluppo musicale, tanto che per volere dell’autore i brani scorrono in sequenza senza soluzione di continuità, sfumando l’uno nell’altro e chiudendosi a cerchio con la ripresa del primo verso dell’iniziale title track al termine del conclusivo “Inner City Blues”. Una novità concettuale non solo per Gaye e la Motown ma per la totalità della soul music, che infatti da quel momento avrebbe cambiato passo sia sul piano della forma sia su quello dei contenuti. Le registrazioni furono completate a marzo e il disco uscì il 21 maggio, insediandosi nell’hit parade statunitense per un anno e mezzo. L’imponenza statuaria dell’opera toglie tuttora il fiato: alla profondità spirituale e politica dei versi delle canzoni (che in “Inner City Blues” descrivono la desolazione urbana e in “Mercy Mercy Me” incanalano i presagi dell’ecologismo), esposti dalla voce maschile più sensuale in circolazione allora (durante quel periodo Gaye ne aveva affinato le qualità, estese su quattro ottave, dal registro baritonale di derivazione gospel al tipico falsetto che di lì in avanti ne caratterizzò le imprese, e nella circostanza la moltiplicò artificialmente, stratificandola attraverso il mixaggio), corrisponde l’opulenza degli arrangiamenti, che sfoggiano palpitanti venature jazz – influenzate dalla sua passione per Lester Young – e ampiezza orchestrale dalla spaziosità quasi sinfonica.
Grazie al successo dell’album, Marvin Gaye si trovò nella condizione di poter rinegoziare l’accordo con Gordy sulla base di un milione di dollari (all’epoca cifra record per un musicista nero), con la garanzia di un maggiore controllo sulla gestione del proprio lavoro.
Nella primavera del 1972, mentre What’s Going On si apprestava a varcare la soglia dei due milioni di copie vendute, intendendo dargli seguito con un disco almeno altrettanto impegnato in fatto di motivazioni civili, Gaye concepì un set di brani politicamente espliciti, fra i quali “Woman of the World”, “Where Are We Going”, “The World Is Rated X” e “You’re the Man”. Uscito in estate su 45 giri, quest’ultimo alludeva all’imminente corsa elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, esortando il candidato democratico George McGovern – poi sconfitto sonoramente da Nixon, che ottenne così il secondo mandato – a “raddrizzare le cose sbagliate”. In termini commerciali il singolo – un funk ipnotico sulla falsariga di “Inner City Blues” – fu però un fiasco e fornì a Gordy il pretesto per bloccare la pubblicazione del long playing omonimo, edito infine postumo nel 2019. Nel 2020, invece, aggiornando – come fa periodicamente – la propria lista dei 500 migliori album di tutti i tempi, Rolling Stone ha collocato What’s Going On in cima all’elenco, dove There’s a Riot Goin’ On figura appena all’ottantaduesimo posto.
There’s a Riot Goin’ On
Organizzata a metà anni Sessanta da Sylvester Stewart, detto Sly Stone, reclutando parenti (il fratello Freddie alla chitarra e la sorella Rose in voce e alle tastiere), partner (la trombettista Cynthia Robinson, cugina del bassista Larry Graham) e amici di pelle chiara (il sassofonista Jerry Martini e il batterista Greg Errico), la Family veniva da un 1969 fenomenale. Uscito nel novembre 1968, Every Day People aveva scalato la classifica dei 45 giri fino a conquistarne la vetta a febbraio, aprendo la strada al quarto album, Stand!: un luna park di soul caleidoscopico destinato a divenire best seller assoluto del gruppo. Era la vigilia dell’apoteosi: già protagonista in luglio – insieme a Led Zeppelin, Miles Davis, Frank Zappa e Sun Ra – del “Newport Jazz Festival”, la band si esibì a Woodstock domenica 17 agosto che ancora non albeggiava, dopo Janis Joplin e prima degli Who. Impressionante il colpo d’occhio, immortalato per gli assenti e i posteri nel documentario sul festival diretto da Michael Wadleigh: costumi da Era dell’Aquario, acconciature afro, vibrazione trance, coreografie stile Broadway. Sotto il palco: la folla esaltata dall’elettrizzante botta-e-risposta dello spiritual profano “I Want to Take You Higher”. Era tutto sbagliato, ma funzionava alla perfezione: “Le donne suonavano, gli uomini cantavano, i neri facevano i freak e i bianchi ci davano dentro con il funk”, nel resoconto dello storiografo Dave Marsh. Una rivoluzione artistica che incarnava lo zeitgeist: l’utopia degli hippie a braccetto con il Black Power, comunione simboleggiata dall’assetto multirazziale dell’organico (cinque neri e due bianchi), al quale corrispondeva d’altra parte una pluralità di genere (cinque uomini e due donne). L’epifania di una società libera dalle discriminazioni. E la musica, di conseguenza, aveva lessico da esperanto: le tradizioni gospel e doo wop nell’intreccio delle voci, un impeto ritmico alla James Brown, melodie a presa rapida dal gusto Motown e arrangiamenti di scuola Stax, mentre il basso distorto dal fuzz ammiccava al garage rock e il wah wah della chitarra sapeva di psichedelia.
There’s a Riot Goin’ On fotografava istintivamente lo stato delle cose: le Black Panthers in dissoluzione e l’utopia hippie in frantumi.
La natura composita di Sly and the Family Stone bazzicava dunque una zona intermedia fra i ghetti neri e le comuni di Haight-Ashbury. Nel 1970, dovendo localizzare l’identità del suo linguaggio, il capobanda affermò: “Non posso dire che sia rhythm’n’blues, non posso dire che sia rock, non posso dire che sia pop, perché nemmeno io so cosa sia”. Di sicuro una creatura meticcia, affine ai simultanei esperimenti compiuti da altri visionari di pelle scura come Jimi Hendrix, il “funkadelico” George Clinton e – con i Love – Arthur Lee. In quel modo Sly Stone assurse al rango di icona afroamericana nella stagione del Flower Power, il cui slancio naïf si riverberava nei titoli di alcune canzoni “familiari” (“Everyday People”, “You Can Make It If You Try”, “Everybody Is a Star”), essendo al tempo stesso contiguo all’attivismo radicale delle Black Panthers, che da un lato lo corteggiavano (riconoscendosi nella fierezza razziale di “Don’t Call Me Nigger, Whitey”) e dall’altro lo minacciavano (a causa dei visi pallidi in formazione e del manager – David Kapralik – ebreo). Proprio nel momento del trionfo, la storia aveva preso però una brutta piega: “La merda cominciò quando ci trasferimmo a Los Angeles nel 1969. Sly era un ragazzo ingenuo e Bel Air gli fece esplodere il cervello. Divenne quasi subito ostaggio di magnaccia, spacciatori di coca e trafficanti, gente che lo adulava dicendogli: ‘Che genio sei!’”, raccontava Jerry Martini. Gli effetti collaterali furono evidenti: forfait ai concerti e conflitti con il pubblico, avendo sempre intorno a sé una corte dei miracoli degna di un romanzo di James Ellroy, fra guardie del corpo armate e ringhianti cani al guinzaglio, pusher e malavitosi. Una vita in bilico fra paranoia e megalomania. Arrivato un giorno del 1971 in extremis – con elicottero noleggiato apposta – a un talk show televisivo del network ABC, alla domanda del conduttore sul suo metodo creativo, rispose: “Quando scrivo, mi guardo allo specchio”.
Apogeo artistico e punto di non ritorno fu l’album di quell’anno, da lui confezionato pressoché in solitudine (“Sto così bene dentro me stesso da non volermi muovere”, dice il verso chiave del pezzo d’apertura: “Luv n’ Haight”), avvalendosi dei contributi di session man quali Billy Preston, Ike Turner e Bobby Womack più che del resto della band. Illustrato in copertina da una mutazione della bandiera statunitense, con il nero al posto del blu e soli floreali anziché stelle, There’s a Riot Goin’ On fotografava istintivamente lo stato delle cose: le Black Panthers in dissoluzione e l’utopia hippie in frantumi. Il diario personale di una crisi collettiva: “Morire giovane è duro da sopportare, ma svendersi lo è ancora di più”, si ascolta in coda a “Thank You for Talkin’ to Me Africa”, epilogo del disco. Si trattava di un capolavoro pari al debutto dei Velvet Underground – positivo anch’esso a un eventuale controllo antidoping – e perciò altrettanto influente sul corso dei futuri eventi musicali. La portata dell’ascendente esercitato nel tempo da quella trasfigurazione del funk, scandita da rudimentali ritmi elettronici e complicata da un’elaborata trama di sovraincisioni dalla “densità claustrofobica” (mutuando l’espressione del biografo Jeff Kaliss), è stata enorme: tanto fra i contemporanei (il suono della Motown cambiò per emulazione e così il jazz attraverso Davis) quanto in epoche successive (dal funk avveniristico di Prince all’hip hop iridescente degli OutKast). All’epoca fu oggetto in verità di giudizi contrastanti, conquistando comunque la prima posizione nell’hit parade americana, come già il singolo apripista “Family Affair”. Di lì in avanti la Famiglia iniziò tuttavia a disgregarsi, perdendo la sezione ritmica originaria e proseguendo con passo incerto per altri tre anni, fino alla separazione nel gennaio 1975. Dopo di che Sly prese a scivolare su un piano inclinato il cui capolinea divenne un camper parcheggiato in un sobborgo di Los Angeles, dove fu avvistato una decina di anni fa: senza casa, nella terra dei nomadi.