Graziano Graziani
/ IMMAGINE: Change le monde: trouve la guerre di Fabrice Murgia, foto di Federico Pitto
2.11.2021
I summit e i manganelli
La Storia vent’anni dopo sul palco a Genova: il “G8 project 2021”.
Graziano Graziani è tra i conduttori di Fahrenheit (Rai Radio 3), ha realizzato documentari radiofonici e televisivi (Rai 5), scrive per minima & moralia e il Tascabile e ha collaborato con diverse testate (Carta, Lo Straniero, Frigidaire, I Quaderni del Teatro di Roma). Si occupa principalmente di teatro e letteratura. Ha scritto vari libri, tra cui due inventari letterari per Quodlibet – l'Atlante delle micronazioni e il Catalogo delle religioni nuovissime – e il romanzo Taccuino delle piccole occupazioni per Tunué.
Q
uando verso l’una di notte, dopo una giornata intera passata a vedere spettacoli tra il teatro Ivo Chiesa a Brignole e il teatro Gustavo Modena a Sampierdarena, Fausto Paravidino ha chiamato sul palco uno dei ragazzi che vent’anni fa si trovavano all’interno della scuola Diaz, il ruolo che il teatro può giocare nella coscienza di una città, la sua capacità di lettura e ricomposizione dei fatti collettivi, è diventato potentemente chiaro a tutti i presenti. Mark è uno dei 93 attivisti inermi che dormivano nella scuola durante i fatti del G8 del 2001 e che furono pestati dalla polizia. Oggi è un uomo adulto e quando sale sul palco accettando l’invito di Paravidino lo fa non tanto per cercare di sanare una ferita che, nella sua brutalità, resterà a suo modo insanabile, quanto per ricomporre il fili di un discorso interrotto senza la retorica delle occasioni istituzionali.
La cornice è quella di “G8 project 2021”, una manifestazione immaginata da Andrea Porcheddu, chiamato a ricoprire il ruolo di dramaturg dal nuovo direttore del Teatro nazionale di Genova Davide Livermore. Un progetto costruito invitando nove drammaturghi di varie nazionalità presenti a Genova durante le manifestazioni di vent’anni fa a scrivere un testo che ragionasse su quel momento passato ma anche sul presente, per diventare poi materia di riflessione collettiva (gli spettacoli sono andati in scena tutto il mese di ottobre). Genova 21 di Fausto Paravidino, regista e drammaturgo che proviene da quelle zone e che si era già confrontato con il tema del G8 con lo spettacolo Genova 01, è stato sia il momento conclusivo della lunga maratona d’apertura – il 9 ottobre è stato possibile vedere tutti gli spettacoli in un solo giorno – sia uno dei più toccanti. Perché, a suo modo, ci invita a fare della memoria non un feticcio ma uno strumento. Il momento in cui Mark sale sul palco, infatti, è preceduto da una sorta di invocazione all’amnesia. I nomi dei protagonisti della repressione poliziesca – i nomi dei poliziotti – vengono proiettati su uno schermo assieme ai loro ritratti a fumetti, disegnati con tratto incerto. Paravidino, capocomico allo stesso tempo divertente e sferzante, ricorda asciutto che qualcuno di essi è stato promosso, qualcuno è morto e qualcun altro è perfino finito a fare il sindaco a Imperia (De Gennario e Canterini, La Barbera, Scajola). Non li nomina, però, affinché non siano per l’ennesima volta i carnefici a dominare la scena. “Se c’è un Dio, che li giudichi lui. Noi ce ne dimentichiamo”, dice, e i ritratti scompaiono. Quello che riempie il palcoscenico, a quel punto, sono i nomi dei 93 attivisti picchiati alla Diaz, nomi che nessuno ricorda se non chi ha seguito da vicino le cronache dell’epoca. Nomi pronunciati uno a uno, all’interno di questo esercizio di ricomposizione.
Lo sguardo di Paravidino e della sua compagnia – Iris Fusetti, Matteo Manzitti, Barbara Moselli, Enrico Pittalunga – evita il vicolo cieco in cui ci spinge la memoria dei fatti tragici, stringendo vittime e carnefici tra l’incudine dell’autoassoluzione e il martello della persecuzione. E ci invita a chiederci cosa sia successo e cosa possiamo fare oggi con i “cocci” di quella frattura. Dopo un inizio in cui riassume alcune delle tappe salienti della globalizzazione, giocando con comicità sulle differenze tra una persona del Novecento (come erano i manifestanti) e una persona del 2021, lo spettacolo ci porta dritti dentro le contraddizioni del presente, incarnate dal monologo di una ragazza di quarantadue anni, che all’epoca del G8 ne aveva ventidue e che, a causa degli scontri, ha riportato una lesione al polso per via di una caduta. Poca roba, è vero, ma da quel momento non ha più potuto giocare a pallavolo. C’è un prima e un dopo Genova, c’è una cesura. E quella cesura ha significato, per la ragazza del monologo, una bruciante presa di coscienza: “Prima credevo al Quirinale, ai partiti, a Repubblica. Ma dopo che hanno difeso la polizia non ho creduto più alle istituzioni”. È in effetti agghiacciante sentire le parole con cui Ciampi – il presidente più “bonario” nell’immaginario repubblicano – anziché stigmatizzare la repressione, chiede ai manifestanti aggrediti di smettere con la violenza (e come sarebbe stato possibile?) perché “al summit stiamo costruendo un mondo migliore”. La prospettiva del 2021 da cui ascoltiamo questo appello – quella della crisi ecologica, del capitalismo avanzato, del multilateralismo – rende superfluo aggiungere qualunque commento.
Agghiacciante sentire le parole con cui Ciampi – il presidente più “bonario” nell’immaginario repubblicano – anziché stigmatizzare la repressione, chiede ai manifestanti aggrediti di smettere con la violenza (e come sarebbe stato possibile?) perché “al summit stiamo costruendo un mondo migliore”.
Il personaggio di Paravidino, a causa della sfiducia nelle istituzioni, finisce per votare Lega – “Lo so che sono razzisti, ma quando mi si chiede di fare qualcosa per il bene comune io non ci credo più, è per il bene comune che ci hanno massacrati”. Non è solo una provocazione. Negli articoli che sono usciti a luglio per riflettere sui vent’anni dal G8, molti commentatori si sono soffermati su quanto il popolo di Genova avesse anticipato temi critici – la crisi ambientale, quella pandemica, il lavoro precario – che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che allora, invece, i “corpi intermedi” di giornalismo e politica si ostinavano a raccontare con ottimismo sfacciato quanto ipocrita. Quello che si è tralasciato, in questa ricostruzione, è quanto alcuni temi dell’epoca sono finiti per diventare moneta di scambio per le forze politiche sovraniste o per la frangia più estrema dei Cinque Stelle. Dal reddito di cittadinanza alla Tav, per citare quelli più concreti, fino all’euroscetticismo e alle posizioni no vax (che in parte hanno origine nella sfiducia nei confronti delle multinazionali del farmaco). La sinistra atlantista, aziendalista, guerrafondaia di quegli anni e di oggi, emarginando certe questioni che mettono in crisi l’attuale modello di sviluppo e di gestione dello stato, ha lasciato un vuoto, e in politica i vuoti si riempiono sempre. Le istituzioni, coprendo se stesse, hanno fatto il resto. E di questa frattura, oggi, ancora paghiamo il prezzo.
Un’altra frattura è quella che ha a che vedere con il sistema economico. Il “there is no alternative” di thatcheriana memoria si è dimostrato drammaticamente veritiero, ma non nel senso in cui speravano gli alfieri del neoliberismo. L’alternativa non c’è perché il sistema di sviluppo è in un vicolo cieco che rischia non tanto, come recita la retorica mediatica, di distruggere il pianeta (ennesima professione di antropocentrismo), quanto di rendere impossibile la vita umana sulla Terra. Non è il pianeta che va salvato, casomai sono gli esseri umani che devono salvare loro stessi. Due delle scritture più interessanti della maratona teatrale hanno scelto di non parlare dei fatti di Genova, ma del presente che si è venuto a disegnare dopo che quel movimento è stato ridotto al silenzio. Si tratta dei testi dell’autore giapponese Toshiro Suzue e del russo Ivan Vyrypaev. Il vigneto di Suzue – messo in scena da Thaiz Bozano – racconta di un’azienda gestita da quattro donne che è, allo stesso tempo, un’occasione di emancipazione personale e una sorta di piccola utopia lavorativa. L’equilibrio si rompe quando due delle ragazze decidono di rimanere incinte: non saranno più in grado di lavorare a tempo pieno, la stagione successiva, e questo per il vigneto, che riesce a malapena a restare aperto, significherà il collasso economico. La maternità non è compatibile col lavoro, le altre due donne lo hanno già sperimentato quando sono diventate mamme: hanno dovuto accettare lavori part time. Il gruppo si trova così nella prospettiva di vendere l’azienda tramite un mediatore, ma quando avranno saldato lui, i debiti e i fornitori, non resterà quasi niente, sarà come buttare otto anni di lavoro alle ortiche. La colpa di questo stato di cose è delle delocalizzazioni operate dalle aziende multinazionali che hanno avuto il duplice effetto di far contrarre il settore agricolo e di impoverire il welfare. Se si aggiunge una burocrazia estenuante, che ancora una volta favorisce le grandi imprese, usando l’arma dei controlli fiscali per spingere i piccoli produttori ad adeguarsi e perdere così ulteriori margini di guadagno, il quadro diventa disperante.
La sinistra atlantista, aziendalista, guerrafondaia di quegli anni e di oggi, emarginando certe questioni che mettono in crisi l’attuale modello di sviluppo e di gestione dello stato, ha lasciato un vuoto, e in politica i vuoti si riempiono sempre.
Quello che colpisce della scrittura di Suzue è che, a differenza di molte opere europee, punta dritto alle questioni economiche. Dopo anni di narrazioni ottocentesche che, da Hugo a Dostoevskij, hanno raccontato i meccanismi vessatori in cui può finire schiacciata la vita del singolo, oggi questo aspetto sembra essere poco interessante per la scrittura del vecchio continente. Ovviamente non è giusto generalizzare, ma è singolare il fatto che proprio nel momento storico in cui la tecnologia rende capillare e coercitivo il sistema di gestione dell’attività lavorativa, a vantaggio delle imprese transnazionali, il tema economico sia spesso trascurato dalle scritture per il teatro come in quelle letterarie. Toshiro Suzue la rimette al centro della sua drammaturgia come atto di riflessione sul presente, che è stato edificato proprio a partire dalla sconfitta del movimento altermondialista e dei suoi temi.
La maternità è diventata, lo sappiamo, una variabile economica negativa, così come lo sono diventati i diritti del lavoro. In questa moderna tragedia il momento più toccante è quando una delle ragazze confessa di non aver voluto davvero suo figlio, ma di avere accettato la maternità perché il suo compagno era felice di diventare padre. L’effetto che questa scelta avrà sul suo destino, però, è devastante: ha scelto di lavorare al vigneto per non diventare come sua madre, una donna ingabbiata nei doveri famigliari verso il marito e i figli, ma sa che i lavori part time che dovrà accettare quando il vigneto chiuderà la condurranno proprio verso quel destino, diventare come sua madre. Una catena che procede di generazione in generazione e che non è possibile spezzare. Brave le quattro attrici – Maria Genna, Lisa Lendaro, Francesca Santamaria Amato, Irene Villa – nel rendere credibile un testo che oscilla, con sapienza, tra dramma umano e dramma a tesi.
Dati sensibili: new constructive ethics di Ivan Vyrypaev è probabilmente il testo più bello dell’intera rassegna, sicuramente il più compiuto e ambizioso. Portato in scena da Teodoro Bonci del Bene, che ha tradotto molte opere dell’autore siberiano e che ha contribuito con forza alla sua conoscenza in Italia, Dati sensibili mette in scena un focus group attraverso il quale si dipanano vicende personali che si intrecciano a questioni globali, come la crisi climatica, i conflitti etici come quello che contrappone la visione cattolica a quella secolare nel tema dell’aborto, la concezione di superiorità che gli esponenti del progressismo laico occidentale nutrono rispetto alle persone e ai regimi violenti, una visione del mondo che, da posizione liberal, può finire nel rovesciarsi in una forma di classismo. Monika, figlia di uno degli uomini più ricchi della Polonia, è andata a New York a studiare alla Columbia, dove diventa psicologa; con Rachel e Morgan, che lavorano nella stessa università come biologa la prima e neurobiologo il secondo, si sottopongono a una serie di domande che spaziano dall’utilizzo di droghe alle convinzioni politiche, dalle abitudini sessuali più o meno promiscue alle teorie scientifiche oggetto delle loro ricerche e/o convinzioni. Ne esce un ritratto di un mondo dolente e allo stesso tempo anestetizzato, che finisce per ammantare le proprie posizioni di teorie asettiche che dovrebbero, in teoria, giustificare il loro sguardo sul mondo, ma finiscono per rivelarsi delle griglie ideologiche, su cui poggiano rapporti di forza consolidati. La mia famiglia è benestante, ho studiato nelle migliori università, ma se ho successo è principalmente farina del mio sacco. Gli uomini si dividono in progressisti e conservatori a seconda delle loro posizioni di partenza, non perché ragionano. L’aborto può essere classificato come omicidio, come sostiene la chiesa, ma solo perché homo sapiens è una specie animale che, come molte altre specie, pratica l’omicidio e ha il diritto naturale di praticarlo. Con dei sottili giochi retorici le posizioni degli intervistati scivolano di contraddizione in contraddizione, cavalcano tesi scandalose, e in questo modo rivelano le ombre profonde che accompagnano le convinzioni dell’Occidente. Se tutto è scritto nei geni, che spazio resta per l’essere umano? È giusto dire che i totalitarismi, che di solito governano nazioni dove c’è scarsa attenzione ai temi climatici e forme di razzismo e omofobia fortemente radicate siano, di per sé, i killer di questo pianeta? Ovviamente tutto andrebbe rapportato ai dati reali – come quello che ci dice che democrazie come gli Stati Uniti e l’India hanno un peso specifico importante in quei problemi – ma Vyrypaev non cerca la veridicità, quanto una rappresentazione del braccio di ferro di intelligenze che rende anche gli ambienti scientifici campi tutt’altro che neutri, soggetti cioè a visioni politiche, a manipolazioni di pensiero. Un gioco senza uscita che, dipanandosi sullo sfondo di una crisi ambientale di vaste proporzioni, suggerisce – senza ricorrere ad espedienti fantascientifici o futuribili – un panorama distopico inquietante. Pur conservando lo schema dialogico delle interviste, Teodoro Bonci del Bene sceglie di interpretare l’intero testo come un monologo, aiutato nel rimpallo delle battute da un gioco di luci. Ne esce fuori una scena ulteriormente straniante, sorretta da una notevole prova attoriale oltre che dalla pacata ferocia del testo.
Con dei sottili giochi retorici le posizioni degli intervistati scivolano di contraddizione in contraddizione, cavalcano tesi scandalose, e in questo modo rivelano le ombre profonde che accompagnano le convinzioni dell’Occidente.
La regia più bella e compiuta dell’intera manifestazione, invece, è senza dubbio quella di Giorgina Pi, che porta in scena Sherpa di Roland Schimmelpfenning. Il testo dell’autore tedesco ci riporta dritti dentro il G8 di vent’anni fa, tracciando una dinamica che racconta i potenti e i drammi di allora in relazione ai drammi di oggi, attraverso un classico meccanismo da tragedia: due fratelli che abitano due mondi contrapposti, il primo in piazza coi manifestanti, il secondo che lavora per uno dei potenti della terra che proseguono il loro summit in una nave da crociera. Quella nave rappresenta il “tetto del mondo”, il luogo dove ministri e plenipotenziari discutono dei destini di milioni di persone di cui ignorano vite, dinamiche e relazioni. Chi lavora per loro è chiamato “sherpa”, come le guide che portavano gli esploratori europei in cima all’Himalaya. Se la metafora di Schimmelpfenning è decisamente esplicita, le atmosfere disegnate da Giorgina Pi ci catapultano invece con sapienza in un ambiente al rovescio, dove all’esercizio del potere corrisponde un’ambiente claustrofobico dipinto quasi con tinte hardboiled, dove uno strepitoso Gabriele Portoghese – indubbiamente uno degli attori più dotati della scena di questi ultimi anni – snocciola con efficacia il discorso di Schimmelpfenning. Assieme alle presenze magnetiche di a Fabrizio Contri, Carolina Ellero, Cristina Parku e Aurora Peres, che plasmano con intensità e rigore i contorni di una scena livida, quella che si viene a creare sul palco è una realtà inquietante da tragedia contemporanea.
Sono gli autori europei, dunque, a rievocare direttamente la memoria del G8, il trauma indelebile segnato da quei giorni di luglio di venti anni fa. Lo fa anche Fabrice Murgia con Change le monde: trouve la guerre, diretto da Thea Dellavalle, spettacolo di apertura della maratona del 9 ottobre. Una scelta quasi obbligata, perché l’autore Belga decide di sovrapporre nel modo più esplicito, ma anche stilisticamente più chiaro, il presente e il passato. Al centro dello spettacolo c’è la vicenda di una donna che nel 2001 aveva vent’anni e che, oggi, decide di tornare a Genova per provare a sanare la propria ferita. Una ferita di cui conosce le cause, ma non l’origine, perché non ricorda nulla di quanto avvenuto tra il primo colpo di manganello ricevuto dalla polizia e il momento in cui si ritrova sul treno, salva, mentre si allontana da Genova e dai suoi giorni di violenza. Nella sua borsa ha un hard disk, con una serie di filmati dell’epoca, girati in analogico, che le permettono di calarsi nuovamente in quel contesto che ha segnato la fine dell’innocenza per una generazione e la brusca interruzione della speranza di poter edificare un mondo più giusto.
Lo spettacolo si sorregge soprattutto grazie all’interpretazione di Irene Petris, in scena con Alice Torriani e Emanuele Righi, altrettanto intensi nella loro presenza all’interno di un dispositivo drammaturgico piuttosto frontale e diretto. A Murgia non interessa creare un’estetica, ma mostrare dei materiali, dei reperti audiovisivi che – a partire dalla loro fattura, analogica, di una qualità lontana dalle riprese di oggi – segnano con potenza il solco dei venti anni che sono passati dal G8, rendendo ancora più evidente come la ferita sia tutt’altro che rimarginata, perché gli audio di urla dei manifestanti (Paravidino ricorderà nel suo lavoro che le parole più dette nei filmati sono “basta” e “così lo uccidi”) operano nella memoria di chi ha vissuto quel momento come una madeleine avvelenata.
Venti anni sono passati, ce lo ricorda la qualità dei video d’archivio, e nel frattempo anche il mondo è cambiato. Se la ferita non può essere sanata, essa diventa però parte del nostro presente. Non per restare come incantati a guardare un passato che non passa, come vorrebbe certa retorica identitaria legata alla memoria. Chi in maniera più marcata, e chi creando cortocircuiti tra il 2001 e il 2021, i nove drammaturghi chiamati a raccolta dal Teatro di Genova hanno indugiato poco sui fatti dell’epoca, utilizzandoli piuttosto come strumenti operativi per interrogarsi sul presente. Il fatto che il teatro sia un luogo privilegiato dove far esplodere le contraddizioni ha reso questo momento un rito collettivo prezioso. Tra i cortocircuiti più interessanti ed evidenti c’era anche quello di un discorso apertamente critico verso le istituzioni declamato di fronte alle istituzioni stesse. Certo, i protagonisti di allora non sono quelli di ora, ma i temi con cui hanno oggi a che fare scaturiscono proprio dal mondo che si è venuto a creare in quegli anni, a partire dal mancato ascolto delle istanze dei più deboli. Clima, debito e lavoro sono alcuni di quei temi roventi.
Secondo Paravidino il peccato originale di questa, come di altre storie italiane, risiede nell’autoritarismo delle istituzioni. Un autoritarismo che affonda le sue radici nel fascismo, probabilmente, ma che si è trascinato nella storia repubblicana come un tabù difficile anche solo da pronunciare.
L’altro cortocircuito plateale è stato l’inevitabile discorso di sfiducia verso un altro apparato delle istituzioni, quello di polizia. Può sembrare paradossale che tutto questo avvenga in un teatro pubblico, ma d’altronde spesso il teatro che ha senso è quello che genera paradossi. Come disse Umberto Eco all’indomani dei fatti di Genova, tutto l’immaginario televisivo che negli anni aveva cercato di dipingere la polizia come un organismo vicino al cittadino è stato spazzato via di colpo in quei giorni. Nonostante la presenza costante nelle fiction del servizio pubblico di poliziotti, commissari e carabinieri dal volto bonario, quell’immaginario non è stato mai risanato. Lo ricorda ancora una volta Paravidino nelle ultime battute del suo lavoro, citando i casi di Stefeno Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e delle altre persone morte in stato di detenzione. Di fronte a questa frattura non rimarginata, anche Paravidino gioca la carta del paradosso, ma, attenzione, di un paradosso che poggia i piedi non sull’assurdo, ma sul come le cose dovrebbero stare, su una normalità talmente distante, talmente lunare, da aver finito per assumere toni aleatori, onirici. “Io sto con la polizia”, dice l’attore e drammaturgo, e se quelle parole possono suonare strane dopo ore di spettacoli che hanno ricostruito la violenza di quei giorni, suonano meno strane se si ragiona su cosa dovrebbe essere, in un paese democratico, un corpo di polizia. Secondo Paravidino il peccato originale di questa, come di altre storie italiane, risiede nell’autoritarismo delle istituzioni. Un autoritarismo che affonda le sue radici nel fascismo, probabilmente, ma che si è trascinato nella storia repubblicana come un tabù difficile anche solo da pronunciare. “Io sto con la polizia”, ribadisce Paravidino chiudendo il suo spettacolo e questa giornata così intensa, “e per questo chiedo di abbandonare la violenza come strumento, il paternalismo come metodo, l’autoritarismo come cultura”. Sipario.