E ra il 2011 e Simon Reynolds, il celebre critico e giornalista musicale, chiudeva il suo Retromania con le seguenti parole: “Il futuro, secondo me, deve ancora arrivare”.
La frase, presa così, può suonare pretenziosa, ma posta a conclusione di quasi cinquecento pagine in cui ci si chiedeva se la musica avesse smesso di evolversi assumeva un senso di destabilizzante e precisa comprensione del presente.
Retromania è un’opera ricca di ricerche e di intuizioni suggestive che hanno avuto un influsso indiscutibile sul presente, non solo dal punto di vista musicale. La sua composizione ebbe luogo in un periodo in cui la musica sembrava aver perso la capacità di reinventarsi e dirigersi verso il futuro, preferendo invece battere in ritirata, rimanendo ad annaspare mentre gli allori su cui riposava sprofondavano in una palude. La causa occasionale, per così dire, di quest’opera fu perciò proprio la percezione di alcuni segnali d’allarme, che sembravano indicare come non fosse più possibile creare qualcosa di veramente nuovo.
Il testo si apre con un breve focus sul termine “nostalgia”, e sullo slittamento semantico che nel corso del tempo esso ha subito: dall’iniziale accezione spaziale (“dolore per il ritorno”, quindi relativo alla terra d’origine), fino all’odierna concezione, molto più orientata verso una prospettiva temporale. Il rimpianto per un’età irreversibilmente perduta divenne progressivamente, da malattia individuale quale era, un sentimento diffuso collettivamente: tale sentimento rimane ancora oggi dominante, se si fa eccezione per qualche istantanea apparizione di luce fioca e incerta, tra i prodotti culturali, proprio per via di quell’inscindibile legame tra memoria personale e cultura di massa. Per retromania si intende proprio l’unione di “rétro” e “mania”: vale a dire la mania per qualcosa di immerso nella cultura popolare, relativo a un passato tendenzialmente recente, del quale si possa avere memoria diretta e che possa essere immediatamente ricostruito o riprodotto. Il passato, nell’era del capitalismo contemporaneo, assume le forme di un simbolo da feticizzare, sul quale investire passioni emotive.
Per questo motivo gli oggetti di nuova fattura molto spesso ricordano questo passato irrecuperabile, mentre gli oggetti sopravvissuti al passato, “gli oggetti del passato” appunto, assumono una funzione cultuale: immuni allo scorrere del tempo, hanno mantenuto inalterate le loro caratteristiche storiche. Questa tendenza è ben documentata nel più retromaniaco dei film, Solo gli amanti sopravvivono (2013). I due vampiri plurisecolari, protagonisti del film di Jarmusch sono alla costante ricerca di strumenti, libri e feticci di ogni epoca: uno di loro, Adam, è addirittura un musicista underground che se ne sta rintanato nella sua casa lontano dai fan. Invece di mordere al collo fanciulle vergini, come facevano i vecchi vampiri, sopravvivono facendosi procurare sangue dai loro fornitori, dai quali effettivamente dipendono, così da evitare ogni potenziale contaminazione dal sangue infetto degli umani del secolo Ventunesimo. La colonna sonora fu affidata a Josef van Wissem, liutista e compositore olandese che sembra aver notato poche delle cose successe dal 1600 delle corti francesi a oggi: i suoi lavori sono perlopiù incentrati su una sua personale scoperta che decostruisce idiomaticamente le partiture barocche del liuto, arricchendole con alcune tecniche contemporanee come il cut-up usato da Burroughs in letteratura e il field recordings.
A detta di Reynolds i Duemila furono il decennio del riciclaggio. Oltre alla riesumazione di band di dinosauri, pur dalle carriere di tutto rispetto, e alle varie operazioni di depolveratura, lucidatura e riverniciatura di vecchi generi musicali, si è soprattutto assistito all’ostentazione di una consapevolezza retrologica quanto mai marcata, che ha prodotto una sequela interminabile di documentari, retrospettive, musei, serate. Tutto questo è spesso confluito nell’attitudine neoconservatrice (in tutti i sensi) di musealizzare il musealizzabile, nel tentativo di mitigare l’ansia provocata dalle rapide innovazioni tecnologiche che modificano lo spazio circostante cercando un rifugio sicuro nel patrimonio culturale del passato. Seguendo questa linea di pensiero, la bellezza, e con essa la verità, sono da rintracciare negli anni passati, sia perché sopravvissute fino a oggi, sia perché nel bene e nel male hanno mantenuto un livello di vita accettabile. Come ricorda lo stesso Reynolds, il “mal d’archivio” di Derrida, il vizio di bibliotecari e docenti universitari di reperire, assimilare e catalogare quantità impressionanti di informazioni, è un qualcosa che ha a che fare con la morbosa tendenza di tornare archeologicamente con ripetitività all’origine, al cominciamento delle cose.
Prima di Internet, catalogare dati e contribuire a un determinato contesto scientifico o culturale comportava armarsi di pazienza e cercare di rendere utili ore e ore di lavoro lungo ed effettivamente faticoso, ma tutto sommato gestibile e monitorabile. Nel momento in cui l’accesso a Internet è divenuto di massa, la riproduzione e la diffusione di testi, foto, video e quant’altro sono divenuti processi sempre più rapidi e alla portata di tutti. Un colosso come YouTube, dal suo ingresso in campo nel 2005 alla metà del 2009 (anno in cui Retromania era in pieno corso di stesura) stimava qualcosa come venti ore di video al minuto caricati dagli utenti di tutto il mondo. Johnny Ryan, nel suo Storia di Internet e il futuro digitale, ricorda che soltanto con l’introduzione delle funzioni di commento e valutazione il sito cominciò realmente a decollare, facendo dell’interazione e della condivisione di feedback tra gli utenti il setaccio per separare il grano dal loglio, così come il peer review aveva fatto nei circoli accademici a partire dalla metà del secolo XVII23. Ma già nel 2000 Kevin Kelly, cofondatore e direttore della rivista Wired, lamentava il fatto che, all’inesorabile espansione del web corrispondeva in effetti una diminuzione della qualità complessiva di ciò che vi si ritrovava, mentre l’utilità delle valutazioni comparative rimaneva limitata. Ciò che è successo subito dopo, tra proposte di leggi anti-fake news e scandali a nome Cambridge Analytica, mette in luce la gravità di un sovraccarico sempre più pesante di dati la cui complicata gestione, se da un lato mostra la sua mai definitiva amministrazione, tutt’ora plastica e modellabile, dall’altro demitizza un certo modo di intendere il senso comune e il giudizio, arricchendo di sottili sfumature il quotidiano.
Secondo Reynolds, “l’inarrestabile proliferazione labirintica della memoria collettiva di YouTube è una lampante conseguenza della crisi di iperdocumentazione innescata dalla tecnologia digitale”. YouTube ha effettivamente contribuito in misura decisiva al mutamento tecnologico che intercorre tra web 1.0 e web 2.0. La fruizione distratta e interconnessa dell’utente di fronte a tale oceano culturale, solo illusoriamente completo dal momento che non tutto vi può essere caricato e quello che è caricato è spesso soggetto a rimozione, scoraggia l’approfondimento, foraggiando al tempo stesso la sensazione di avere l’intera conoscenza umana già a portata di mano. Ne scaturisce una rinnovata articolazione creativa dovuta all’accesso immediato a video, musica e immagini da modificare e vivisezionare, nella quale la porzione e il frammento assumono un’importanza cruciale, tale da assumere un’identità propria. Ma nel marasma di contenuti, e specificazioni di questi, è facile perdersi e ritrovarsi inebetiti da troppi stimoli. In Retromania c’è un’interessante comparazione tra questo spaesamento e il disco di Flying Lotus COSMOGRAMMA (2010), che alle orecchie di quei tempi risultava impegnativo, tanto frammentato e saturo da definire il suo genere di appartenenza proprio “web 2.0”. Ma ancora più interessante è l’attribuzione di una sfumatura anarchica alla tendenza di fagocitante archiviazione attivata dalla Rete: il termine anarchivio sta a indicare proprio quel recipiente illimitato che galleggia nell’eterno presente del web, dai confini potenzialmente infiniti e difficilmente gestibili, che non assicurano alcuna garanzia di autenticità. Il suo discorso, chiaramente, non ha nulla a che vedere con tendenze tecnofobiche, anzi, lui stesso ha confessato di fare largo uso di YouTube e musica in streaming, così come ha dichiarato, in un’intervista uscita per Repubblica, che il libro avrebbe benissimo potuto intitolarsi Lost in Archives. Gli anni tra il 2008 e il 2011, quelli in cui fu scritto, furono effettivamente abbastanza tristi per quanto riguarda la produzione musicale rivolta a un pubblico affamato di novità e futuro; anche tra le cose più interessanti aleggiava un’aria di impossibilità nel dare le spalle al passato.
Estratto da Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro di Riccardo Papacci (Arcana edizioni, 2019).