F reaks Out è stato uno dei film italiani più attesi di inizio stagione, le immagini del film, immaginifiche e accattivanti si sono rimpallate suoi social per giorni, mentre la gente si riversa nelle sale cinematografiche per vederlo. Il regista, Gabriele Mainetti, è un autore molto apprezzato per la ventata di novità che il suo film precedente, Lo chiamavano Jeeg Robot, ha portato nel cinema italiano, coniugando temi tradizionalmente lontani dalle pellicole del nostro paese (il fantastico, i supereroi) a uno sguardo particolarmente felice su Roma e sui tipi umani che la abitano. Nel suo secondo film ha confermato la formula cercando però di rilanciare, perché Freaks Out ha l’ambizione del kolossal, e sceglie come protagonisti di una storia ambientata nella Roma occupata dai nazisti dei “fenomeni da baraccone”. Anche se sembra che il successo commerciale del film non abbia raggiunto le vette sperate, sicuramente Freaks Out ha avuto una buona accoglienza, piazzandosi tra i migliori dieci film al botteghino; un po’ fredde sono state le riviste di settore, ma il giudizio è sostanzialmente benevolo.
Il mio è un caso, invece, di spettatore partito con le migliori aspettative – ho amato Jeeg Robot e sono stato immediatamente sedotto dai trailer di questo secondo film – e arrivato in fondo alla proiezione con un po’ di delusione. Cerco di spiegarla qui. Contrariamente a quanto altrove è stato sostenuto, non è un film storico, ma un film fantastico che si appoggia su una pagina di storia reale per creare un pout-pourri di immaginari. L’esempio perfetto è fornito dall’antagonista Franz, che è a sua volta un freak perché è un pianista con sei dita, ideatore e direttore di uno sfarzoso circo nazista, ben più ricco e apprezzato del circo scalcagnato con cui i protagonisti del film hanno cercato di svoltare le proprie misere esistenze. La disabilità di Franz si rivela in realtà un “superpotere”, poiché Franz, pianista virtuoso, al circo si esibisce in versioni appassionate di brani di epoche future, come quelli dei Radiohead e dei Guns ’n’ Roses. Come è possibile? È possibile poiché Franz, oltre alle sei dita, ha anche la capacità di vedere (e sentire) il futuro.
Il mondo di Freaks Out, dunque, pesca a piene mani dall’immaginario Marvel e DC comics, dove i superpoteri sono anche generatori di problemi e rendono “diversi” i personaggi che li possiedono. In alcuni casi, come in Daredevil, personaggio affetto da cecità, la disabilità è evocata esplicitamente. Nel film di Mainetti si mescolano invece forme classiche del freak – il nano, l’uomo bestia – con poteri che assomigliano a quelli dei fumetti – il controllo degli insetti o dell’elettricità. Anche se piuttosto patinati, Fulvio, Matilde, Cencio e Mario sono dei reietti, e il fatto che siano capitanati da un impresario ebreo, Israel, rende ancora più netto il confine tra chi appartiene a una minoranza (che rischia di essere sterminata) e chi appartiene a una maggioranza che si pretende perfetta e, proprio per questo, stigmatizza coloro che non rientrano nel canone che essa stessa ha stabilito. Il piccolo tassello contraddittorio di un villain nazista-freak è giustificato dal fatto che la disabilità di Franz lo rende un ur-tedesco che suona il piano divinamente, e dal suo obiettivo di trovare degli ur-freak che, con i loro poteri, siano in grado di far vincere la guerra alla Germania.
Nonostante tutti i tasselli al posto giusto – probabilmente inseriti per cercare di confezionare un blockbuster, un film che parla al grande pubblico internazionale – in Freaks Out c’è qualcosa che non torna. La prima questione è proprio l’eccessiva stratificazione dei segni archetipizzanti, i buoni solo buoni e i cattivi cattivissimi; di certo, del carattere inquieto e ispido di Enzo Ceccotti alias Jeeg Robot in questo film non c’è traccia. C’è poi un’altra questione: nonostante qualcuno abbia definito Freaks Out un film storico, in realtà si tratta di una di quelle pellicole che contribuiscono a spingere il nazismo in un luogo indefinito e atemporale dell’immaginario collettivo. La colpa, ovviamente, non è di Mainetti: più ci si allontana da quella pagina di storia, continuando però a sfornare prodotti di intrattenimento che la prendono come base delle proprie sceneggiature, e più la vicenda reale si fonde con l’immaginario. Un immaginario inevitabilmente bidimensionale, dove il nazista assurge a un livello di mostrificazione senza appello non solo per lui, ma anche per la complessità delle storie raccontate (l’esempio più calzante di questo processo è Bastardi senza gloria, probabilmente il peggior film di Tarantino, assieme al finale di C’era una volta a… Hollywood, il cui intento favolistico è riportato a chiare lettere fin dal titolo, entrambi modelli di una volontà di portare il discorso morale nell’entertainment al livello di quello di un bambino delle elementari).
Certamente freaks, ma in fin dei conti anche fighi, i protagonisti del film sono assai poco ‘diversi’ dal mondo che li circonda. E sono, in tre casi su quattro, assolutamente normodotati.
Il male assoluto, nella rappresentazione artistica, se non ha la portata mitologica – e dunque simbolica – di personaggi del calibro di Cthulhu, di Sauron o di Satana, è molto spesso una scorciatoia narrativa. La scorciatoia che ci permette di assolvere noi stessi dalla partecipazione al male, raffigurandolo come il radicalmente altro da noi (l’opposto della definizione di Arendt, per intenderci). È una prassi narrativa che continuiamo a utilizzare anche nel racconto mediatico dei grandi antagonisti dell’Occidente democratico, come i terroristi islamici o i dittatori – l’ultima notizia che trovo su internet, in ordine di tempo: “Nordcorea. Kim Jong Il vieta i giacchetti di pelle” (fonte AdnKronos). Il male mostrificato è qualcosa su cui, come suggerisce Tarantino, si può infierire senza stare troppo a sottilizzare. Il nazista, nel racconto storico, è il candidato perfetto per questo processo, così come lo zombi lo è nel racconto horror.
Intendiamoci: scrivendo questo non intendo certo dire che occorra riabilitare i nazisti nelle pellicole di intrattenimento (ci mancherebbe) o che si debba per forza ritrarli con complessità e maggiore stratificazione. Esistono, anzi, esempi godibilissimi di film che giocano sulla bidimensionalità del nazista male assoluto – tra questi, a proposito di horror, c’è il film norvegese del 2009 Dead snow, che inventa la forma iperbolica dello zombi-nazista, e soprattutto Iron Sky, film tedesco finlandese del 2012, pellicola fantascientifica in cui i nazisti sbarcano dalla Luna, rifugiati in gran segreto dopo la disfatta del 1945. La differenza sta nel fatto che Iron Sky è un film dove l’intento satirico è molto spiccato, così come il ricorso al paradosso; mentre Freaks Out, pur essendo di fatto un prodotto di intrattenimento, sceglie di poggiarsi su un discorso morale. Un discorso che risulta inevitabilmente piatto, già visto, in una parola strumentale. Il problema, nel film di Mainetti, si rispecchia però anche nell’altra polarità narrativa: i buoni. Certamente freaks, ma in fin dei conti anche fighi, i protagonisti del film sono assai poco “diversi” dal mondo che li circonda. E sono, in tre casi su quattro, assolutamente normodotati.
L’occasione di ragionare attorno al corpo disabile in scena (sia essa cinematografica o teatrale) me lo fornisce una conversazione con Chiara Bersani, organizzata per un gruppo di ragazze e ragazzi adolescenti di Prato, per il progetto del Teatro Metastasio “School of Met”. Giovane performer molto apprezzata, Chiara Bersani lavora attorno all’idea di “corpo politico” a partire (anche) dalla sua biografia, essendo lei stessa un’artista con un corpo non conforme, affetto da disabilità a causa di una patologia ossea. In un percorso che l’ha portata ad essere di volta in volta collaboratrice – ad esempio di Teatro Lenz; coautrice – lo è di fatto nel lavoro svolto con Alessandro Sciarroni e con Marco D’Agostin; e infine autrice – molto apprezzato il suo Gentle Unicorn; Chiara Bersani è stata premiata con un riconoscimento come quello alla “miglior performer under 35” ai Premi Ubu. È lei stessa a portare il film di Mainetti come esempio di elusione di un discorso, quello sul corpo disabile in scena, che lontano dai confini italiani – soprattutto in nord Europa – ha già prodotto riflessioni molto avanzate.
Chiara Bersani prende parte alle creazioni artistiche altrui in quanto persona con un corpo affetto da disabilità, artista con un proprio immaginario complesso e stratificato che fa anche i conti con la propria fisicità.
Pur esprimendosi con la consueta gentilezza e sgomberando il campo da intenti polemici, Chiara Bersani si è domandata – e ha domandato ai ragazzi – se sia accettabile oggi, nel 2021, che un “freak” venga rappresentato in questo modo. Di più: ha anche domandato se sia accettabile che nessuno degli attori coinvolti abbia davvero a che fare con la disabilità, con un corpo che si misura con difficoltà sconosciute ai corpi “normali”. La questione è ampia e complessa, le risposte a questi interrogativi possono essere diverse, forse anche in contraddizione tra loro, ma non per questo si tratta di un tema meno urgente. Anzi, ci aiuta a mettere in chiaro come sta cambiando il nostro immaginario anche a partire dal racconto delle cosiddette “diversità”.
Per scendere nel dettaglio la prima cosa da fare è un’autocritica. Anche se i freaks di Mainetti nella mia percezione sono risultati problematici, non avevo minimamente preso in considerazione i corpi reali degli attori che li interpretano. Partendo dalla prospettiva di chi non vive una disabilità fisica, semplicemente non mi sono posto il problema. Il discorso di Chiara Bersani, invece, è quello di un’artista che ha compiuto un percorso che l’ha portata da essere una performer disabile che prende parte alle creazioni artistiche altrui in quanto persona con un corpo affetto da disabilità, ad essere un’artista con un proprio immaginario complesso e stratificato che certamente fa anche i conti con la propria fisicità, ma non è necessariamente determinato da essa. La sua domanda, rispetto alla questione, è quindi di tipo pratico, oltre che etico: se non diamo la possibilità agli attori con disabilità di lavorare e prendere parte alle produzioni più grandi nemmeno quando i personaggi hanno quelle stesse caratteristiche fisiche, quando sarà possibile equiparare il loro lavoro a quello degli altri attori e attrici? Una domanda sull’inclusività, certo, ma con una declinazione molto concreta.
Lo stesso discorso può essere fatto in teatro, per uno spettacolo recente e molto apprezzato come Misericordia di Emma Dante, dove un attore – per altro bravissimo – come Simone Zambelli interpreta un ragazzo muto e “spastico” (ovvero affetto da spasiticità), cresciuto da tre prostitute. Zambelli è un attore con un fisico assolutamente nella norma.
La seconda cosa da fare, per cercare di mettere a fuoco la questione, è considerare nel suo complesso il percorso degli artisti con disabilità nelle arti performative e nello spettacolo. Un percorso che, inevitabilmente, chiama in causa anche i veri “freak”, i fenomeni da baraccone dei circhi ottocenteschi. I circhi, in molti casi, costituivano l’unica fonte di guadagno per le persone con disabilità. Quando furono chiusi i “freak show”, a causa della mutata sensibilità sociale, si venne a creare paradossalmente un problema di sostentamento. Muta la sensibilità e comincia a mutare anche la rappresentazione. Un punto di svolta è costituito da Freaks, il film del 1932 in cui il regista Tod Browning impiega veri “freaks” come attori. Chiara Bersani, nel suo discorso, pone l’accento su una delle scene centrali del film, dove la trapezista Cleopatra – che ha finto di innamorarsi di Hans, affetto da nanismo (o microsomia), per puro interesse – viene “accettata” dagli altri freaks come “una di loro” attraverso un brindisi collettivo. In quella scena i freaks sono tutt’altro che rassicuranti e patinati, anzi, piuttosto appaiono come figure inquiete e minacciose, come poi si riveleranno essere nella fase successiva della storia. La loro rappresentazione non addolcita né edulcorata – costata importati censure a Browning e al suo film – è un passo importante verso un’immagine più complessa del performer disabile, affrancato dall’aura gotica e stigmatizzante del freak show, ma non per questo imprigionato nell’immagine pietista di una società più progressista ma non ancora inclusiva. Un’altra raffigurazione inquieta, realizzata coi toni della commedia acida, la fornisce un film spagnolo del 1993 prodotto da Almodovar, Acción mutante di Alex de la Iglesia, dove un gruppo di terroristi mutanti (metafora del freak) si lanciano una folle impresa rapendo la figlia di un miliardario. Il terrorista freak, stilizzato nel simbolo dell’omino in carrozzina con un kalashnikov, che fa da logo per il film, è quanto di meno addomesticato si possa produrre in termini di immaginario sul corpo disabile.
Il salto successivo, quello in cui il performer con disabilità è un autore in prima persona, che compone un’opera magari a partire anche dalla propria fisicità, ma che non è per forza determinato da essa, è un percorso appena cominciato.
Sul fronte teatrale, anche restando nel nostro paese, sono diversi gli esempi di utilizzo del “corpo diverso” come corpo poetico, che segnano un cambio di passo importante nell’immaginario. Si possono citare lo stesso Teatro Lenz, ovviamente Pippo Delbono, ma anche alcune opere della Socìetas Raffaello Sanzio. Queste esperienze artistiche, pur avendo il merito di aver traghettato la figura del performer disabile dal teatro sociale a un teatro compiutamente d’arte, hanno però spesso utilizzato questi corpi in quanto “segni”, come un elemento di una composizione visiva da contemplare. Il salto successivo, quello in cui il performer con disabilità è un autore in prima persona, che compone un’opera magari a partire anche dalla propria fisicità – come Chiara Bersani nel suo Gentle Unicorn – ma che non è per forza determinato da essa, è un percorso appena cominciato (almeno in Italia). Un percorso che passa attraverso forme associative, come l’esperienza di “Al. Di. Qua. Artists” – l’acronimo sta per Alternative Disability Quality –, che ha lanciato un manifesto sulla disabilità nel campo dell’arte che si connette alle battaglie eco-trans-femministe e che pone l’accento, tra le altre cose, sulla quasi totale assenza di persone disabili nei ruoli decisionali del settore artistico. Tra gli esempi di cambio di prospettiva che cita c’è quello dell’attrice comica australian Stella Young, perfomer in carrozzina che durante una TED conference disse “Tante grazie, ma io non sono la vostra ispirazione”, il simbolo di un nobile intento per l’umanità, criticando aspramente la “pornografia motivazionale” che utilizza i corpi disabili anziché dare spazio reale di azione alle persone che con quei corpi convivono. È un percorso recente, dicevamo, fatto anche e soprattutto di biografie artistiche, ben raccontate sul fronte italiano da un libro appena uscito per Bulzoni editore, Lost in traslation. Le disabilità in scena di Flavia Dalila D’Amico, che contiene molte interviste ad artisti con disabilità come il danzatore Giuseppe Comuniello, la coreografa scozzese Claire Cunningham, oltre che alla stessa Chiara Bersani.
Il terzo passaggio da fare è tornare, in forma critica e autocritica, allo spazio teatrale – e più in generale alla sfera dello spettacolo – e agli immaginari che si porta dietro, alle relazioni che instaura tra pubblico e artista, alle condizioni con cui tutto questo viene realizzato. Parto con un’ammissione: affermare che sia “inaccettabile” che, oggi, un attore non disabile interpreti un personaggio con disabilità è un’idea che nella sua radicalità apre delle interessanti prospettive di inclusione ma che, per altri versi, assume per me una sfumatura inquietante. Perché va ad impattare su una caratteristica intrinseca del teatro, la possibilità di calarsi nei panni dell’altro. Anche del radicalmente altro da sé.
Questa mia perplessità, che pure ha a che vedere con uno degli aspetti centrali del teatro, va tuttavia analizzata nel dettaglio, per evitare che diventi a sua volta un dispositivo mentale scivoloso, un alibi da invocare per non mettere in discussione lo stato delle cose.
Andiamo con ordine.
Da un lato c’è il cinema: a differenza del teatro, che lavora con il suggerimento e l’evocazione immaginativa, i prodotti audiovisivi utilizzano la realtà come segno della propria estetica. La scelta di corpi normali per interpretare corpi con disabilità risulta quindi esteticamente più disturbante proprio per il rapporto con la realtà che il cinema intrattiene; e anche dal punto di vista di accesso al lavoro, in virtù della sua dimensione di industria, ben diverso da quella di compagnia teatrale, è una scelta difficile da giustificare. Certo, rimane il diritto di un regista di voler lavorare “proprio con quell’attore/attrice”, ma l’effetto percettivo sarebbe comunque stridente (immaginate Tyrion Lannister, in Game of Thrones, interpretato da un attore con un corpo normale anziché da Peter Dinklage).
Non è detto che un teatro dove solo i disabili interpretano i disabili sia desiderabile e produca automaticamente riflessioni artistiche migliori.
In teatro la questione assume una dinamica differente. Se da un lato la rappresentazione della realtà non viene più vista, giustamente, come un atto neutro, dall’altro lato l’effetto di questa stigmatizzazione del gesto dell’“impadronirsi” delle storie altrui – siano essere reali o immaginarie – sta progressivamente spostando il gesto artistico verso una vertigine biografica e autobiografica, che in certi casi è in grado di produrre discorsi molto intimi e affascinanti, ma altre volte li spinge verso una dimensione ombelicale e egoriferita, per altro in perfetta sintonia con la deriva individualistica del nostro tempo (che si occupa molto del sé e poco dell’altro). È chiaro che ogni gesto artistico è un gesto a sé, che può funzionare o meno a prescindere dal dispositivo che sceglie di utilizzare, ma proprio per questo anche il superamento di certe dinamiche che oggi riteniamo “irricevibili” non può passare da scelte prescrittive, ma da un processo collettivo di acquisizione di consapevolezza.
Per dirla più chiaramente, non è detto che un teatro dove solo i disabili interpretano i disabili – così come un teatro dove ogni etnia o minoranza sia portata in scena solo da appartenenti a quella specifica etnica e minoranza – sia desiderabile e produca automaticamente riflessioni artistiche migliori. Ma non si può nemmeno fare finta che oggi, nella percezione diffusa, la rappresentazione artistica di soggetti “altri da noi” venga associata alla “presa di parola” di quegli stessi soggetti (non si tratta della stessa cosa, anche se sicuramente esistono delle zone dove rappresentazione e presa di parola si sovrappongono). Non è quindi accettabile che questo processo avvenga senza uno studio approfondito e senza interpellare realmente quell’“altro da sé” che si evoca in scena.
Un esempio lo fornisce la polemica del 2018 attorno al lavoro di Robert Lepage. L’artista canadese era stato criticato per lo spettacolo musicale Slav, basato sulle canzoni degli schiavi africani, dove solo due cantanti tra quelli impiegati nel cast erano non bianchi. Dopo aver invocato l’idea stessa di teatro, che consiste nel calarsi nei panni di qualcun altro, contro le accuse più estreme di appropriazione culturale, il regista – dopo essersi confrontato con le comunità afrodiscendenti del suo paese e aver ascoltato le loro opinioni – ha poi ammesso la sua “goffaggine” nel portare in scena una pagina di storia coloniale così delicata.
Non conosco casi altrettanto eclatanti sul tema della disabilità e della diversità dei corpi in scena – e probabilmente farebbero comunque meno notizia del caso di Lepage, che si è andato a infilare nel nocciolo rovente di una questione molto dibattuta come quella coloniale. Ricordo però la sensazione di straniamento nel vedere, alcuni anni fa (era il 2014), un Riccardo III interpretato da Alessandro Gassmann. Attore dal fisico prestante, Gassmann, che dello spettacolo era anche regista, aveva scelto di “indossare” la disabilità fisica di re Riccardo simulando una gamba matta, un arto rigido che muoveva con ampi scatti, con una cifra fumettistica. Alto ed elegante, sembrava tutto meno che una persona a disagio con il proprio corpo e con difficoltà di movimento.
Tornando all’interrogativo posto da Chiara Bersani sul fatto se sia o meno accettabile che corpi disabili vengano rappresentati da performer non disabili, credo che non ci sia una risposta netta da dare se non che è in corso un processo di acquisizione collettiva di consapevolezza che non può essere ignorato. È una questione che non si può risolvere in maniera prescrittiva, stigmatizzando a prescindere un attore che interpreta qualcosa che è “altro da sé”, perché questo vorrebbe dire al contempo confinare attori e attrici disabili nei soli ruoli legati alla disabilità (mentre sarebbe interessante considerare il loro lavoro creativo anche a prescindere, così come facciamo per gli attori non disabili che si confrontano col “radicalmente altro da sé”). Allo stesso tempo, tuttavia, non si può far finta che la percezione collettiva non sia cambiata, che i performer con disabilità non siano già parte del nostro immaginario e che un’evocazione stilizzata ed estetizzante della disabilità in scena non risulti, già oggi, qualcosa di almeno in parte stridente.
Tornando invece alla scena, confinare i corpi nei limiti esatti della loro fisicità, così come confinare le storie nel perimetro esatto della loro cultura d’origine, è qualcosa che nega l’essenza stessa del teatro, che contempla la metamorfosi e la contaminazione. Ma se questo è vero, l’incontro con l’altro non può essere solo il frutto di un’operazione estetizzante (potremmo dire esotizzante), ma deve avere a che fare con la conoscenza e con il dialogo.