I n origine l’hip-hop ha rappresentato anche un modo di rendere manifesta l’invisibilità a cui la (ri)segregazione aveva relegato migliaia di giovani cresciuti in aree urbane abbandonate a se stesse. Era una rivendicazione linguistica tesa a riformulare tanto le relazioni simboliche all’interno di quei contesti quanto quelle con l’esterno. L’asse intorno a cui ruotava tale rivendicazione era la sintesi di personalità e capacità d’innovare propria di ogni interprete del genere. In una parola: il suo stile.
Al di là delle innumerevoli variazioni individuali, l’hip-hop si caratterizzò presto per quello che in storia dell’arte si definisce “stile di scuola”: l’insieme di strumenti, tecniche e codici condivisi da tutto un movimento. Da subito e in modo spontaneo, il concetto di flow (“flusso”) emerse come uno dei cardini di quell’insieme, al punto che lo si ritrova ancora oggi in tutte le diverse espressioni (visuali, musicali, performative) dell’hip-hop. Con flow si intende appunto la capacità di un’artista di creare una continuità fluida all’interno della sua opera. Per un dj essa si riflette nel mixare i break in maniera così precisa da farli sembrare ritagli di un’unica canzone. Un writer wildstyle la esprime nel modo in cui incastra le varie lettere di un graffito una dentro l’altra senza soluzione di continuità. Per un ballerino di breakdance significa scivolare in una dinamica di gesti così armonici da far scorrere un movimento nel successivo con piena naturalezza. Per un rapper, infine, tutto questo si traduce nell’applicazione di schemi metrici e tonali tale da concatenare le proprie rime in un fluire molto riconoscibile.
L’aspetto comune a queste declinazioni del flow è che in tutti i casi si tratta di liberare porzioni di linguaggio – ovvero di significante – dalle imposizioni del significato per risignificarle in una nuova configurazione. Isolato dalla canzone da cui proviene – ovvero dalla propria originale concatenazione di significato – un break si trasforma in una “particella elementare” di musica che, attraverso l’ars combinatoria del missaggio, ha la possibilità di diventare uno degli elementi costitutivi di una nuova composizione (un fatto che si rende ancora più evidente nel campionamento). Sottratte alla necessità di costituire parole, le lettere di un graffito, di un burner o di una tag vengono riconsegnate alla loro natura primordiale di puro segno a volte quasi non più leggibile. Allo stesso modo l’intervento di un mc/rapper sulle parole punta a disarticolarle in fonemi, minime unità di suono e significato, da ristrutturare poi in una certa caratteristica cadenza, inequivocabilmente personale, che ne costituisce la cifra stilistica. Ovvero, appunto, il suo flow.
Writer e rapper della prima ora, artista visuale e teorico esoterico, il compianto The RAMM:ELL:ZEE (1960 – 2010) è stato uno dei personaggi più eccentrici ma anche interessanti dell’intera cultura hip-hop. Seppure in testi talora arcani, The RAMM:ELL:ZEE ha cercato di mostrare come, attraverso questa manipolazione degli elementi del linguaggio, l’hip-hop tentasse di smantellare le sovrastrutture di potere insite nel linguaggio stesso. Come sa qualunque sociolinguista, i segni linguistici non sono mai neutri o arbitrari bensì prodotti sociali carichi di valenze implicite, mediate da un confronto-scontro di potere tra le componenti sociali di un’epoca. Valenze che, nel loro complesso, formano negli utilizzatori del linguaggio una mappa mentale che ha l’implicito effetto di calcificare i rapporti di potere che hanno contribuito alla sua stessa formazione e di ratificare i sistemi di controllo e disciplina a cui sottopone i soggetti subalterni. Viceversa, secondo The RAMM:ELL:ZEE, la fuga nell’astrazione delle lettere di un graffito così come la disarticolazione fonetica alla base del flow di un rapper rappresentano entrambi tentativi di sciogliere il linguaggio da quelle relazioni ormai ossificate in modo da rimetterlo in movimento e armarlo contro di esse. Questo è un punto di vista interessante, soprattutto se si considera in quali contesti e da quali soggetti sociali, estremamente subordinati, sia nato l’hip-hop. Questi soggetti, storicamente, avevano tutte le ragioni per diffidare – e voler decostruire – le strutture di potere inscritte nei segni grafici con cui per secoli erano state scritte giurisprudenze che sancivano la possibilità di comprare, sfruttare e vendere i loro avi, di segregare i loro nonni, di discriminare i loro padri.
Come spiega Russell A. Potter in Spectacular Vernaculars: Hip-Hop and the Politics of Postmodernism:
La triade hip-hop formata da graffiti, ballo e rap è composta da arti postapocalittiche per definizione, graffi sulle pareti decadenti dell’America urbana postindustriale; non sono monumenti di un romanticizzato «spirito dell’umanità» ma fondamentalmente arti antimonumentali. Se ci sono momenti analoghi nelle cronologie dell’arte europea non sono da ricercare nella Dublino di Joyce o nella Londra di Eliot, ma nella demenza carceraria della Roma di Piranesi o nelle giustapposizioni situazioniste della Parigi di Debord. Il tempo dell’hiphop è postapocalittico e il suo proscenio è la Società dello Spettacolo, in cui la forma di mercificazione definitiva è quella dell’immagine spettacolarizzata. Anziché, come farebbero molti testi modernisti, rigettare questa società anelando al ritorno a un mondo ricomposto nella sua completezza e coerenza dall’arte, l’hip-hop ambisce a un mondo scomposto, caratterizzato dall’aporia, che fratturi il frammentato, graffito su graffito. […] Anziché grandi progetti artistici scolpiti a partire da un singolo blocco, l’hip-hop ricostruisce l’arte a partire da porzioni, mobili e ricombinanti.
Tali caratteristiche fanno dell’hip-hop una forma espressiva pienamente inserita nel discorso del postmoderno, specie nel senso in cui intendeva il termine il compositore e teorico musicale Jonathan Kramer, ovvero come un’attitudine più che un periodo storico dai confini precisi. Un’attitudine che diffida della coerenza narrativa – la “letteratura maggiore” di cui parlavano filosofi post-strutturalisti come Deleuze – inerente al progetto della modernità. Comunità che avevano vissuto sulla propria pelle fenomeni quali la schiavitù, la segregazione e una condizione di costante “alterità” avevano inoltre tutte le ragioni per percepire come “sospetto” quel progetto. Ed è proprio perché parte da una posizione di “sospetto” rispetto alle cosmesi storico-politiche caratteristiche delle narrazioni “maggiori”, che l’arte afroamericana è spesso riuscita a raccontare con anticipo fenomeni storici quando erano ancora soltanto leggere increspature sulla superficie del mondo. Nel caso dell’hip-hop, scrive appunto Potter, questi fenomeni si situano all’incontro tra il declino tardocapitalistico e l’ascesa definitiva dello “spettacolare” come l’ultima, se non l’unica, merce possibile.
Se il linguaggio – come notava già Platone – è una tecnologia, il flow in quanto suo principale strumento linguistico è la tecnologia dell’hip-hop. E, come qualsiasi tecnologia, anch’esso attraversa le sue fasi, i suoi cicli di progresso. In alcuni casi essi sono lineari e frutto di un sotterraneo lavoro collettivo sulla forma, in altri improvvisi e diagonali grazie alla comparsa di qualche straordinario e geniale innovatore, portatore di intuizioni inimmaginabili fino al giorno prima. William Michael Griffin Jr. è stato uno di questi innovatori eccezionali.
Nato nel 1968 a Wyandanch, nello stato di New York, e cresciuto a Long Island, William proveniva da una famiglia in cui il talento musicale non mancava. La zia era la cantante r&b Ruth Brown, autrice di hit soul come “Lucky Lips”, e fin dalla tenera età William si era interessato al jazz, diventando un discreto sassofonista con una particolare predilezione per John Coltrane, Dexter Gordon e Charlie Parker. Non ancora maggiorenne si era quindi avvicinato alle due culture che avrebbero segnato il resto della sua vita: la religione musulmana, a cui si convertì appena sedicenne, e il rap. E proprio dall’islam ricevette in battesimo il nome con cui sarebbe passato alla storia come uno dei più grandi mc di sempre: Rakim Allah.
Era la metà degli anni Ottanta e il rap newyorkese era dominato dal suono di Rick Rubin e dal flow secco e dritto di artisti come Run-DMC e LL Cool J. Rapper che dispiegavano il loro stile all’interno di schemi metrici piuttosto tradizionali: distici in cui tutta l’enfasi era posta sulla necessità di stare con precisione sul tempo del beat e in cui le uniche rime erano baciate tra le ultime sillabe di ogni verso (in gergo line, “linea”, o bar, ovvero “barra”). Sebbene fosse un significativo passo avanti rispetto allo stile cantilenato dei primissimi rapper, il flow che andava per la maggiore negli anni Ottanta risulta, col senno di poi, ancora piuttosto legnoso e monotono. Tuttavia all’epoca rappresentava un canone a cui era consigliabile attenersi, specie se si volevano incontrare i favori del pubblico. Allo stesso tempo era però una gabbia che non lasciava grande spazio per esprimersi. La costrizione a rispettare un certo schema metrico non solo limitava le possibilità di personalizzare il proprio flow (col risultato che gli mc suonavano tutti abbastanza simili), ma soprattutto restringeva di molto il vocabolario che potevano utilizzare e i concetti che potevano esprimere (ovvero portava gli mc a dover ricorrere a forzature linguistiche e tonali per riuscire a dire ciò che volevano).
A un giovane cresciuto assaporando la totale libertà con cui si muovevano i grandi interpreti del free jazz, una simile gabbia non poteva che apparire particolarmente claustrofobica e arbitraria. Come ha raccontato in numerose interviste, fin dai suoi primi approcci al rap, il giovane Rakim cercò di incorporare nel suo flow e negli schemi metrici dei suoi testi le ritmiche che aveva appreso in anni di studi jazz:
Una delle idee con cui mi piaceva giocare era cercare di scrivere in uno stile simile a quello degli assoli di John Coltrane. È così che un sacco dei miei stili si sono sviluppati: in modalità solista […] andando su e giù dalla scala armonica, cercando di prendere qualunque ritmo mi andasse di prendere, senza preoccuparmi di avere un unico ritmo fisso per l’intera canzone.
Nel 1985, tuttavia, se una simile concezione del rap non costituiva un’eresia ci andava molto vicino. Che un mc potesse piegare gli schemi metrici alle sue necessità espressive e non il contrario era impensabile: per quanti passi avanti avesse fatto la figura dell’mc rispetto all’epoca in cui era poco più di un supplemento vocale rispetto allo spettacolo del dj, i rapper non erano ancora del tutto percepiti come il fulcro carismatico dell’intero genere e ci si aspettava da loro che rispettassero la struttura dei beat su cui rappavano.
Per questo motivo Rakim incontrò non poche difficoltà a trovare un produttore sintonizzato sulle sue stesse frequenze e interessato a seguirlo in quel viaggio verso la disarticolazione metrica. Lo incontrò nella persona di Eric Louis Barrier, in arte Eric B. Cresciuto in una famiglia middle class del Queens e tre anni più anziano di Rakim, Eric B. era frustrato dalle limitazioni stilistiche dei beat della sua epoca almeno quanto il suo futuro compare lo era da quelle metriche. Dj e produttore dotatissimo, con precedenti esperienze come trombettista e batterista, nonché titolare di una sconfinata cultura in campo soul e funk, Eric B. non era particolarmente a suo agio con l’idea, tipica delle produzioni minimali di Rubin, che i beat sostanzialmente si riducessero a un’unica sezione ritmica ripetuta per tutta la canzone (il cosiddetto backbeat) sulla quale poggiava di solito un unico campione melodico. Voleva provare a sperimentare un po’ con quella struttura.
Nonostante questa affinità d’intenti, l’incontro tra Eric B. e Rakim ebbe molto di causale. Sul finire del 1985 Eric B. lavorava infatti come dj per la radio newyorkese wbls e lì conobbe Alvin Toney, un promoter del Queens. Sapendo che Eric stava cercando un mc che cantasse sopra alcuni beat che aveva prodotto, Toney gli propose di accompagnarlo un pomeriggio a casa di un rapper suo amico: Freddie Foxxx. Quel giorno Foxxx però non era in casa e così Toney ripiegò su quella che, per lui, era un po’ una seconda scelta: Rakim. Una volta fatte le presentazioni, Eric e Rakim scoprirono di vederla allo stesso modo su parecchie cose e si diedero quindi appuntamento in uno studio di registrazione dove, nel giro di poche sessioni, registrarono “Eric B. is President”, il loro primo singolo che vide la luce nel 1986.
Costruito su una linea di basso campionata da “Over Like a Fat Rat” della cantante r&b Fonda Rae, un successo pop di tre anni prima, “Eric B. is President” contiene in nuce tutti gli elementi che diverranno caratteristici del sound di Eric B. & Rakim: bassi funk pervasivi, una sezione ritmica meno pestata di quella delle produzioni a loro coeve e, soprattutto, il caratteristico flow di Rakim. Seppure vocalmente ancora acerbo, fin dall’attacco di quel suo primo pezzo, lo stile di Rakim sembra essere piovuto sulla terra da un universo parallelo in cui, anziché calcare l’accento sulle sillabe finali di ogni rima irrigidendo inevitabilmente la propria cadenza, gli mc si esprimono come se il rap fosse la loro lingua naturale e non il risultato di un insieme di regole e codici stilistici.
Nel giro di poche settimane, “Eric B. is President” mise in subbuglio l’intera New York, producendo uno scisma tra chi fu immediatamente in grado di apprezzarne la radicale novità e i tradizionalisti arroccati sulla difesa dello status quo. In ogni caso le vendite furono sufficientemente buone da convincere la Island Records a mettere sotto contratto il duo per un primo lp – Paid in Full – che uscì nel luglio del 1987 dimostrando che non solo Eric B. e Rakim avevano davvero deciso di riscrivere tutte le regole a cui il rap si era fino a quel momento attenuto ma che disponevano pure del talento per riuscirci.
Su dieci composizioni dalla forte impronta deep- e dark funk, Rakim srotola infatti versi (scritti, leggenda vuole, entro un’ora dal primo ascolto del beat) che ignorano del tutto le gabbie metriche al cui interno i rapper si erano mossi fino a quel momento. Per tutta la sua durata, il flow di Rakim è levigato ed elegante, spontaneo e impassibile, privo di enfasi e forzature, capace di modularsi intorno al beat senza restarne impigliato. Giostrando tra timbri vocali, sincopi, enjambement e metriche estremamente avanzate, Rakim riesce a rendere il proprio flow molto più vario e policromo di quello degli mc suoi coevi. Cedendo parte del controllo sulla propria cadenza garantito dagli schemi metrici canonici, Rakim dimostra in realtà di essere il primo mc davvero in pieno controllo del proprio strumento espressivo.
Tra le altre cose, questo azzardo gli consente di giocare con assonanze e rime interne alle barre, all’epoca estremamente rare, che si rivelano architravi essenziali per reggere il peso del suo flow rivoluzionario. L’inizio di “Eric B. is President” in tal senso è tanto una dichiarazione d’intenti (“non permetto più che il microfono mi magnetizzi”) quanto l’esemplare perfetto dello stile di scrittura di Rakim: un vorticare quasi espressionista di pensieri e immagini, condensato in uno stile in cui più che il messaggio complessivo o le singole parole conta la musicalità delle concatenazioni fonetiche.
I came in the door, I said it before
I never let the mic magnetize me no more
But it’s biting me, fighting me, inviting me to rhyme
I can’t hold it back, I’m looking for the line
Taking off my coat, clearing my throat
The rhyme will be kicking until I hit my last note
My mind remains refined, all kind of ideas
Self-esteem makes it seem like a thought took years to build
But still say a rhyme after the next one
Prepared, never scared, I’ll just bless one
And you know that I’m the soloist
So Eric B. make ’em clap to this
Sono entrato dalla porta, l’ho detto prima
Non permetto più che il microfono mi magnetizzi
Ma mi morde, mi combatte, mi invita a rimare
Non posso tenermela dentro, cerco la frase
Mi tolgo la giacca, mi schiarisco la gola
La rima scalcerà finché non prendo la mia ultima nota
La mia mente rimane raffinata, ogni tipo di idea
L’autostima fa sembrare come se un pensiero ci mettesse anni a comporsi
Ma comunque continuo a dire una rima dopo la prossima
Preparato, mai impaurito, ne benedirò una
E lo sai che sono il solista
Quindi Eric B. fagli applaudire questa roba
Se, come detto, l’intervento di un mc/rapper sulle parole punta a disarticolarle in fonemi da ristrutturare poi in una certa cadenza, Rakim è stato il primo a elevare questa prerogativa del rap da una semplice caratteristica del genere a una forma d’arte del tutto (auto)consapevole. Con conseguenze che si ripercuoteranno su tutti i rapper successivi, i cui debiti d’influenza nei suoi confronti sono incalcolabili.
Un estratto da Rap. Una storia, due Americhe di Cesare Alemanni (minimum fax, 2019).