F lavio Giurato l’ho conosciuto relativamente tardi. Ora non ricordo bene quando, però mi pare fosse a fine anni Novanta. La cosa ancora più divertente è che l’ho sentito nominare a causa del fratello, Luca Giurato, che ovviamente era ed è un personaggio assurdo e che ho sempre visto come una mina impazzita all’interno dei palinsesti “perbene” della televisione generalista, con i suoi lapsus incredibili. Non mi ricordo chi, forse Marco “Marcuse” Sciscio’, il chitarrista degli Shokogaz, che era il mio gruppo di allora, mentre parlavamo delle grandiose gaffe di Luca, mi disse che Luca Giurato aveva un fratello che era più matto di lui e faceva il cantautore. Da lì ho spulciato un po’ in giro, ma era difficile trovare i suoi dischi, che è uno dei motivi per cui ci sono arrivato tardi. Magari a casa dei parenti trovavi un De André, un Bennato… se ti diceva bene c’era Mimmo Cavallo, ma di Flavio nessuna traccia. Solo con Soulseek e il file sharing post Napster sono riuscito ad avere accesso alle sue cose. Negli anni Settanta/Ottanta Giurato era una rarità in un ambiente – quello della musica leggera – che costantemente cercava di tenersi a galla tra le mode. Lui no: tanto che anche avendo la possibilità di fare il fatidico” botto” con Il tuffatore (1982), il suo disco osannato dalla critica, preferì invece concentrarsi sulla musica, ed è uno dei motivi per cui nelle case degli italiani non ci sono i suoi vinili, ma tutti i derivati delle sue intuizioni (vedi l’itpop odierno). E concentrarsi solo sull’essere autore è poi quello che fa ancora adesso, non essendosi mai fermato. Fu proprio la sua produzione in generale, il suo modo di approcciarsi alla musica che mi ha fatto capire che, sì, c’era qualcosa di molto potente che è riscontrabile solo nei grandi cantautori, cioè il fatto di essere Flavio Giurato e nessun altro. Riconoscibile tra mille, insomma.
Quest’ultima frase l’ho detta anche a Giuliano Ciao, che è l’autore del libro di cui sto per parlarvi: Le gocce di sudore più duro è uscito da poco per Crac edizioni, ed è una biografia critica di Flavio Giurato, della sua vita e della sua opera. All’epoca della stesura, Giuliano mi contattò per avere il mio parere sul Maestro, e come a me lo chiese a molti altri della “scena” musicale italiana, tra critici e musicisti: avessi avuto all’epoca un libro del genere tra le mani non mi sarebbe stato difficile fare la quadra su Flavio, ed è una cosa eccezionale che oggi si possa riscoprire in un libro un autore così seminale per la musica italiana.
Per Ciao un libro su Giurato non è stato un dovere verso la storia della musica. “Quando ho iniziato a buttare giù qualche riga sulle canzoni di Flavio l’ho fatto perché ne ho sentito il bisogno, e non pensavo a una pubblicazione”. L’occasione, per uno scrittore che si definisce dilettante, è arrivata grazie alla Crac Edizioni di Marco Refe, ma cercando di “mantenere questa attitudine da dilettante”, vista l’enormità del compito di essere “il primo a contestualizzare l’opera di Giurato”. Ma storicizzare Giurato non era un vero problema: “Giurato, secondo me, è un “minore”, nell’accezione positiva che Deleuze utilizza ad esempio per Carmelo Bene o per Kafka. Giurato, da questa prospettiva, non è nella storia, perché la sua arte, il suo linguaggio, non risulta inquadrabile all’interno della cultura dominante, anche se d’improvviso vendesse tre milioni di dischi. Giurato, a mio avviso, è un rivoluzionario, lui il linguaggio della cultura dominante l’ha costantemente mutilato, capovolto, sovvertito”.
Se c’è un disco di giurato che mi manda fuori di testa è Marco Polo, anno 1984: è una cosa talmente personale che non ha uguali e per questo va messo sul piedistallo senza tante motivazioni. Forse potrei magari paragonarlo a certi esperimenti di Pino Daniele sempre del periodo, dischi come Ferry Boat, in cui tentava un crossover tra mediterraneo rock blues world music, fusion… Flavio va da tutt’altra parte in apparenza, ma in realtà la loro ricerca ha molto in comune nel modo di interpretare certi input musicali. C’è una sperimentazione a largo raggio che ci infila anche la new wave e probabilmente delle visioni di post rock ante litteram. Però è talmente atipico che è difficile metterlo in relazione a qualcosa e qualcuno. Sicuramente per gli anni Ottanta Flavio è stato un innovatore estremo, tanto che solo ora se ne sono accorti tutti. Direi che il suo campo, più che di artista di culto, è quello del “cantautorato weird”. Ma un simile epiteto è uscito prepotentemente negli anni duemila, quindi i suoi dischi degli Ottanta andrebbero contestualizzati proprio in un humus di trenta anni dopo! Sembra folle, ma è così: con Giurato si ritorna al futuro.
E per questo per scrivere di Giurato si deve chiedere al futuro. Così dopo aver appuntato pochi nomi da intervistare, Ciao è arrivato a una sessantina, con tante cose da dire, mille pagine di trascrizioni, da montare, assemblare “in un enorme mosaico collettivo, un’orchestra di voci che si susseguono e che ritornano. Inoltre, dato che le testimonianze ricoprono l’intero arco della vita di Flavio, non ho voluto mantenere l’andamento cronologico degli eventi, ma creare una drammaturgia fatta di continui salti temporali fra passato e futuro. L’aspetto che mi incuriosiva di più dell’effettuare tutte queste interviste riguardava la natura archeologica dell’operazione: scavare nella vita di un artista, inseguirne le tracce, ampliare il territorio di scavo, far emergere una polifonia di suoni. È stato come entrare nella tomba di un imperatore che non aveva mai rilasciato sue memorie. Questa pluralità di voci e di opinioni spero possa aver trasmesso al libro un movimento, o meglio, una felice instabilità”. Per non immobilizzare Giurato con un monumento, per “rilevarne l’incredibile mobilità. Ecco: se proprio deve essere un monumento, spero che sia una statua con le rotelle.”
Non ho mai avuto occasione di vedere Flavio Giurato suonare dal vivo se non su Youtube. E devo dire che le sue capacità performative sono magnetiche. A volte spaventa pure per la carica che ci mette. Nel video di “Le promesse del mondo” la sua performance è disarmante e fiera, il modo in cui semplicemente guarda in macchina dice tutto. Segno che c’è una visione d’insieme molto più ampia, multimediale. Il suo stesso fare musica è impostato su una narrazione cinematografica ben precisa. A volte sembra quasi che non sia reale, che sia inavvicinabile. Eppure sono riuscito, al contrario, a conoscere di persona Flavio Giurato intervistandolo per Noisey all’interno della rubrica Italian Folgorati e il libro di Giuliano mi ha portato fortuna: prima che lui mi contattasse con le domande per il libro, ogni volta che proponevo Giurato per un’intervista i piani alti mi dicevano… “Ma no…non è abbastanza appetibile commercialmente!”. Poi invece, come per magia, le cose si sono sbloccate. La storia da una parte si ripete, come da una parte a spuntarla è sempre Flavio. Ma la cosa migliore credo sia andarlo a trovare per un caffè, molto meglio che fargli perdere tempo con domande del cazzo. Lui è molto gentile e disponibile, e direi deliziosamente caotico. Ricordo che quando andai da lui aveva la montatura degli occhiali attaccata con lo scotch, sembrava uno scienziato pazzo, che tra l’altro proprio per questo non aveva grande dimestichezza con la moka. Cosa che lo rendeva ancora più simpatico e umano di quanto già a prima vista non fosse.
Anche per Ciao è così: “Flavio è ormai un amico, e la nostra amicizia è nata nel momento in cui io sono riuscito a non avere più l’atteggiamento formale dello scrittore-critico-giornalista, permettendo a lui di svestire i panni del cantautore – che mai vorrebbe indossare del resto. Quando vado a casa di Flavio vediamo partite di baseball o passeggiamo. Questo per dire che Flavio è un uomo che non ama parlare di sé, né tanto meno parlare dei suoi dischi e del suo passato. Per quanto riguarda il libro, Flavio mi ha aiutato molto, soprattutto passandomi i contatti delle persone che man mano volevo intervistare, e non mi ha mai e poi mai posto limitazioni circa cosa potevo o non potevo scrivere della sua vita personale. Allo stesso tempo però ha mantenuto dal libro una certa distanza, anche se poi si è aperto totalmente nell’intervista fluviale che chiude il volume. Non so se mai lo leggerà, e trovo che questa sia una cosa umanissima e giusta, e mai lo forzerei a farlo. In che modo non sentirsi in difficoltà nei confronti di un libro che scava nel tuo passato, magari rievocando persone o episodi ormai sepolti? Inoltre Flavio non ama essere celebrato e non guarda mai indietro, ma è sempre assorbito dai nuovi progetti che sta continuamente sviluppando.”
Flavio giurato ha collaborato con tantissimi musicisti italiani, molti dei quali sono citati nel libro (si va dai Camillas, ai Maisie, e via discorrendo). Si è prodotto in parecchi featuring ma mi sono sempre chiesto se fossero necessari. Forse no: non mi sembra un personaggio che stia bene in un feat. È talmente potente che qualsiasi canzone non sua sarebbe subito smascherata: se è brutta, lo capisci perché l’ingresso di Flavio te la rende bella. Se è bella, Flavio riesce a rendertela “brutta” (o meglio, brut è la parola giusta) togliendo ogni patina di pretenziosità superflua. In ogni caso non è una canzone di Giurato, e la differenza si sente.
Per Ciao, Flavio, come tutti i grandi artisti, è solo, immerso “in una competizione atletico-artistica di cui è l’unico partecipante ma anche l’unico antagonista – e da qui il sudore del titolo. Lui continua a correre, a combattere, a vincersi, all’interno di una gara che non ha premi, che non conduce a fortuna, e malgrado non ci sia possibilità di vittoria ciò non lo porta mai ad abbassare la guardia, a demordere. Nel quotidiano Flavio sembra portare le tracce di questa faticosa competizione, e sembra in qualche modo sottrarsi, nascondersi. Io credo in realtà che, senza mai mostrarlo all’esterno, lui si sottrae qui perché è troppo occupato di là, nella sua personale lotta, dove investe tutto sé stesso. Partecipare a un suo concerto è l’esperienza incredibile nella quale il nostro mondo e il suo si ricongiungono. Ci viene data la possibilità di partecipare alla sua personale competizione, di assorbire un po’ del suo sudore. Perciò entrare in contatto con Flavio può non essere facile, bisogna sintonizzarsi sulle frequenze di questo altro mondo. Marco Polo e La Scomparsa di Majorana sono i dischi più estremi da questo punto di vista, sembrano parlare la lingua di quest’altrove, ma sono anche dischi molto diversi fra loro”.
I dischi di Giurato dunque: sono l’evoluzione di un percorso esistenziale che va sempre più a sottrarre, ad arrivare all’essenza. C’è aria di misticismo, ma la carne e il sangue sono ben presenti. Come ad esempio ne Le promesse del mondo del 2017, disco nato sull’onda del dramma degli immigrati che giungono in Italia sperando in una vita migliore, un disco fortemente umano, in cui siamo tutti improvvisamente catapultati su barconi rovesciati e si diventa un fascio di muscoli e nervi pulsanti. Fin dal primo disco del 1978 Per futili motivi, storia di un ragazzo durante il periodo del fascismo che si ritrova proiettato nella seconda guerra mondiale dal giorno alla notte. Ogni registrazione è un nuovo passaggio di stato, una trasmutazione dei protagonisti, un’epifania continua, un lottare senza tregua. “In Marco Polo la grande epopea del viaggiatore veneziano tiene insieme tutto, unifica i pezzi, i luoghi, i sentimenti, ed è grazie ad essa che Flavio riesce a modellare la sua esigenza espressiva. È un mondo, ha una sua geografia riconoscibile, malgrado in esso infurino gli elementi e la nave rischia di naufragare – così come il disco stesso. Majorana è un disco in cui pezzi, vicende e sentimenti si sono disgregati, tutto è frammentario. Del resto è il mondo stesso che si è spezzettato, e in esso non esistono più le grandi narrazioni. Flavio, avendo intuito tale passaggio epocale, spezzetta il corpo delle sue canzoni, combina immagini anche molto diverse fra loro, rende a tratti indecifrabili i contenuti. E non è un mero gioco estetico il suo, ma è il modo per parlare delle sue inquietudini, quelle di un uomo all’interno di un mondo sempre più disperdente e disgregato, in cui risulta sempre più difficile comunicare ed essere amati.”
Rimane da chiedersi se un libro del genere possa attirare le nuove generazioni verso un tipo di musica diversa, lontana dai meccanismi dei vari Tik Tok e del “narcisismo” di ritorno: sicuramente una cosa difficile ma non impossibile, poiché come già detto Flavio ha seminato molto e la sua influenza nel pop italiano moderno è chiarissima. Anche se ovviamente parzialmente compresa, e forse la chiave del cambiamento potrebbe essere quella: non averlo compreso del tutto lo rende un evergreen, un patrimonio che non si finisce mai di studiare. “Credo, piuttosto, che Flavio non abbia le caratteristiche del maestro. Il maestro mi pare colui che insegna, che parla cioè dall’alto di una conoscenza consolidata, a cui viene riconosciuta un’autorità. Spesso i ‘discorsi’ di coloro ai quali viene riconosciuto questo ruolo ufficiale mi appaiono normalizzati, accettabili, anche se apparentemente si scagliano contro il potere o denunciano le ingiustizie del mondo. Flavio mi dà piuttosto l’idea di un eterno principiante, un discolo, sempre intento a giocare, a sperimentare col linguaggio, mai immobile su delle posizioni assodate. La sua voce non credo possa far proseliti, mi appare costituzionalmente anti-autoritaria perché costantemente rivoluzionaria, lontana da qualsiasi ufficialità. A volte mi viene da pensare che i grandi fatti artistici sono frutto di un’eterna solitudine. L’artista è solo nella sua buca, nella sua stanza-deserto, come quella di Flavio. La sua voce non è rivolta a nessuno, non vuole indicare soluzioni né tanto meno esprimere messaggi, o mettersi in testa ai cortei. Può capitare però che qualcuno metta l’orecchio sulla porta di quella stanza, o si sporga a spiare dall’orlo di quella buca profonda, e che per caso senta la voce di questo uomo seppellito vivo, che continua però a cantare e a suonare, senza scopo, senza velleità, nel vuoto del suo deserto, ma con ostinazione. Ecco, la vita di chi ha origliato può cambiare per sempre, e spero che il mio libro possa spingere qualcuno a tendere di più l’orecchio.”