L a prima cosa che ho letto di Mario Perniola è stato Il Sex appeal dell’inorganico. Uscito attorno alla metà degli Novanta, questo saggio tracciava una linea di pensiero che univa in modo inedito la sperimentazione artistica, il pensiero postmoderno e la critica culturale. All’epoca, era il 1994, divenne un piccolo best seller. Il titolo è una frase presa a prestito da Walter Benjamin, che si riferiva alla seduzione esercitata dalle merci e che dava lo spunto a Mario Perniola di riflettere su un cambio di segno della sessualità, da organica a inorganica, ovvero neutra, dove non è più il desiderio a guidare l’esperienza sensoriale dell’uomo ma la disponibilità immediata del godimento. Legato al pensiero di Breton e di Debord, Perniola conferiva alla sessualità un territorio molto più vasto di quello che le si attribuisce nel pensiero comune, indagando questa metamorfosi nelle derive della sperimentazione artistica, dal cyberpunk ai rave, dall’arte contemporanea alle performance teatrali, passando per gli stili di vita, l’uso di droghe e l’ossessione per il look. In quegli anni – che per quel che riguarda chi scrive coincidono con quelli dell’Università – Roma era un’esplosione di luoghi e progetti artistici fortemente influenzati dalle derive estetiche postmoderne, ibridate in modo peculiare con la militanza politica, e in quell’ambiente multiforme e magmatico il libro divenne in breve un cult.
Perniola, che è stato uno dei principali studiosi di estetica in Italia, ha fornito a chi si occupa di arte, teatro, letteratura degli spunti critici illuminanti e originali, continuando a pubblicare saggi e riflessioni fino a pochi mesi prima della sua morte, il 9 gennaio 2018. Negli ultimi anni si era soffermato sulla crisi dell’arte e di alcune retoriche che dall’arte sono tracimate nella società – dalle derive edoniste all’autoreferenzialità – in una prospettiva che andava oltre l’estetica o meglio, che utilizzava l’estetica come lente per osservare il mondo. In un’epoca dove il mainstream culturale spinge con forza verso un’arte désengagé, dove la dimensione dell’evento ha soppiantato quella dell’opera, la crisi dell’arte riflette una crisi più profonda che è quella del modello occidentale. Un tema che mi è capitato di affrontare direttamente con lui in alcune interviste radiofoniche e incontri pubblici e che, dalla mia piccola prospettiva biografica, mi sembrava in qualche modo connesso all’esaurirsi della spinta artistica che negli anni Novanta aveva contagiato me (e tanti altri) fino a spingermi a occuparmi di teatro e letteratura. Ma anche nei confronti di quella stagione, a ben guardare, Perniola aveva indirizzato delle critiche premonitrici della situazione attuale, che nell’esaltazione degli anni giovanili – dove, forse in virtù di un atteggiamento vagamente ascrivibile al punk, apologia e critica finiscono per sconfinare l’una nell’altra – avevo evidentemente scambiato per elementi secondari.
Discutendo attorno a L’arte espansa – un agile volumetto che pubblicò per Einaudi nel 2015 – Perniola sottolineava come la crisi dell’arte abbia a che fare soprattutto con una crisi di autorevolezza. Le tante storie di oggetti quotidiani scambiati per pezzi d’arte perché collocati all’interno dei musei o, viceversa, di opere vere e proprie fatte di oggetti quotidiani che per tali vengono prese – come l’installazione di spazzatura buttata via da una “incauta” addetta alle pulizie – vere o spurie che siano, ci raccontano proprio questo: l’incapacità di dire cosa sia veramente arte, se non attraverso un sistema (poco limpido) di cooptazione. “L’arte si trova in un momento di estrema difficoltà perché ha perduto ogni credibilità – osservava –. Qualunque cosa può essere isolata e ricollocata in un contesto artistico, per così dire, e acquistare un altro valore”.
L’anno dopo, nel 2016, esce per Mimesis una raccolta di “storiette” – termine che si rifà a degli antecedenti della letteratura francese del Seicento – che raccoglie prose e riflessioni a cavallo tra l’autofiction e il saggio. Il titolo, emblematico, è Del terrorismo come una delle belle arti, e pur essendo un assemblage di storie e riflessioni varie, si inserisce nel cuore di uno dei nodi simbolici della crisi dell’Occidente, il terrorismo suicida. Non è la prima volta che arte e terrorismo vengono associati – basti pensare a Stockhausen, che definì l’11 settembre “la più grande opera d’arte possibile” suscitando un vespaio di indignazioni – ma Perniola coglie soprattutto il nesso che riguarda l’ansia di dissoluzione che, dall’arte, si propaga nell’intera società.
È una riflessione che viene da lontano, basta pensare che il libro di Thomas De Quincey ‘L’assassinio come una delle belli arti’, a cui il mio titolo si ispira, fu scritto nella prima metà dell’Ottocento. Lo scopo di questo titolo provocatorio era di mettere in relazione l’arte e la devianza. In questo caso, addirittura con la criminalità. Io ho sempre riflettuto sul rapporto con il terrorismo, perché l’arte ha una componente autodistruttiva che parte da Duchamp, ma volendo la si può rintracciare già prima con il Romanticismo. Alla ricerca di trasgressioni sempre maggiori, l’arte finisce in una spirale autodistruttiva, un po’ come succede agli attentatori suicidi.
Andando ancora a ritroso, nel 2012, Perniola partecipò a un incontro pubblico assieme a Giuliano Compagno presso il festival Short Theatre di Roma. L’iniziativa, organizzata da me e Attilio Scarpellini, prevedeva l’invito di vari intellettuali a rispondere, davanti a un pubblico, alla domanda “Dov’è finito l’occidente?”. Durante quell’incontro si sono toccati molti argomenti, incluso – ancora una volta – una riflessione sul terrorismo a partire dalla figura di Anders Breivik, l’estremista di destra norvegese che nel 2011 uccise settantasette persone. Un personaggio che, secondo Perniola, va considerato tutt’altro che pazzo, perché anzi ha operato dal punto di vista mediatico in maniera molto efficace. In questo modo Breivik si è ritagliato una sua dimensione culturale, per quanto aberrante, e così facendo ha destabilizzato profondamente quella norvegese, basata sulla tolleranza. Un altro esempio, per quanto estremo, di come il sistema di valori su cui si fonda l’Europa e l’Occidente sembra, in certi momenti, tendere a una frantumazione che parte dal suo interno.
A chiusura di questo articolo vorrei riproporre una parte delle riflessioni di quella serata, rimaste finora materiale inedito. Perché la prospettiva di Mario Perniola si connetteva ancora una volta con il tema del cupio dissolvi dell’Occidente, ma da un punto di vista particolare che oggi più che mai dovrebbe farci riflettere. Il punto di partenza è una costatazione: ai nostri giorni, soprattutto in Italia, si assiste a un continuo declassamento “di tutto ciò che ha una logica, una cultura alle spalle, un minimo rigore”. L’obiettivo, più o meno consapevole, più o meno dichiarato, è quello di una guerra agli intellettuali.
Cominciando la sua riflessione, Perniola cominciò cercando di precisare l’idea di Occidente: “Sono esistite tre grandi civiltà: la civiltà occidentale, la civiltà indiana e la civiltà cinese. Cos’è l’Occidente? L’Occidente è una croce. È una croce che mette insieme almeno quattro eredità: la civiltà greca, la civiltà romana, le religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo e Islam) e la civiltà germanica. Tutto questo è Occidente. L’attenzione oggi è focalizzata sulla contrapposizione tra Islam e Ebraismo e tra Islam e Cristianesimo. A mio avviso, però, queste non sono contraddizioni fondamentali. Il vero centro della questione è un altro. L’Islam, a mio modo di vedere, è semplicemente un altro Occidente. È per noi un altro Occidente, ma è sempre e comunque parte dell’Occidente. L’Oriente comincia un po’ più in là, con l’India, e poi diventa Estremo Oriente. Per cui, se parliamo di contraddizioni, dobbiamo chiederci quale sia quella fondamentale del nostro presente?”.
“Bene: contraddizione fondamentale di oggi è tra il capitalismo neoliberistico e tutto il resto. Il capitalismo neoliberistico può distruggere l’Islam così come la nostra tradizione, così come il pensiero e la cultura americana, così come l’ebraismo. Tutto questo è da mettere da parte. Perfino la contraddizione fondamentale tra la borghesia e il proletariato. Il capitalismo neoliberistico oggi può distruggere sia la borghesia sia il proletariato. È un processo che oggi arriva in Italia ma che è cominciato almeno trent’anni anni fa. Basta guardare alla condizione delle cosiddette classi medie, oggi in costante declino. Una serie di studi americani e francesi hanno dimostrato questo declino in termini di reddito e status sociale, posizionando l’inizio di questo fenomeno addirittura negli anni Ottanta. Perché è finita quella fase di espansione sociale cominciata alla fine della Seconda Guerra Mondiale e terminata all’incirca nel 1975. A partire dal 1975 la borghesia ha vissuto un costante declino. Ma lo stesso si può dire a proposito del proletariato”.
“E ciò avviene, tra le altre cose, perché il capitalismo neoliberistico fa perdere ‘valore informativo’. Oggi persino chi è a capo di un’impresa può non sapere nulla di cosa accadrà in futuro. Le informazioni, che una volta erano appannaggio della classe dirigente borghese, sono passate di mano. Quella che si va creando è una società dove esiste una piccola classe di persone ricchissime, una upper class globale, e una vastissima classe di borghesia immiserita, di classi medie immiserite e di un proletariato che non esiste praticamente più. Ovvero, a vari livelli, una classe di poveri. Di persone ridotte in miseria. Questa è a mio avviso la contraddizione fondamentale oggi. Mao, in un famoso scritto, si interrogava su quali sono le contraddizioni fondamentali e quelle secondarie. Penso che oggi dovremmo porci la stessa domanda e dire che, quella tra Occidente e Islam, non è altro che una contraddizione secondaria”.
L’impoverimento, secondo Perniola, definisce non soltanto i rapporti di forza all’interno della società, ma anche di riflesso la perdita di centralità della riflessione intellettuale, che era stato uno strumento tanto della borghesia che del proletariato. Basta guardare alla condizione di chi, un tempo svolgeva lavori altamente qualificanti da punto di vista sociale, economico e professionale.
Prendete un ingegnere. Oggi si trova in una situazione in cui ha pochissimo potere direttivo ed è costantemente in pericolo di essere licenziato. È una situazione molto, molto precaria. Nella nuova organizzazione del lavoro non esiste una solidarietà tra i quadri e gli operai. C’è un’estrema frammentazione di situazioni sociali, e il punto più basso è quello dei senza casa. I senza casa sono una figura emblematica della situazione attuale.
Già, ma come siamo arrivati a questo? In che modo e a partire da cosa? Il fischio d’inizio, ancora una volta, riguarda il modello economico che stiamo vivendo, quello per cui un famoso primo ministro britannico coniò uno slogan con cui facciamo i conti tutt’ora: there is no alternative. “L’Occidente ha cominciato a distruggere se stesso negli anni Ottanta, con l’elezione della Tatcher in Inghilterra e quella di Reagan negli Stati. Mao, durante la rivoluzione culturale cinese, che inizia nel 1966, inaugura quella che fu ribattezzata ‘la lotta ai quattro vecchiumi’: una lotta contro le vecchie idee, la vecchia cultura, i vecchi costumi, e le vecchie abitudini. Nessuno sapeva cosa fossero questi quattro vecchiumi. Ebbene, io credo che esista una stretta analogia tra la lotta ai quattro vecchiumi condotta da Mao e la lotta ai quattro vecchiumi condotta dal capitalismo neoliberista. Il capitalismo neoliberista, ad esempio, considera anche la chiesa cattolica un vecchiume, il che è del tutto naturale. Perché in fondo che cosa corrisponde al neocapitalismo dal punto di vista religioso? L’esoterismo. Tutto quello che sono le chiese di tipo tradizionale, che hanno dietro di sé una cultura, una filosofia, un pensiero, tutto questo deve essere messo da parte a favore di un esoterismo semplicistico”.
Già, ma che strada prendere per cercare di darci una prospettiva possibile per uscire da questo impasse? Con una prospettiva che potrebbe spiazzare più di una persona, Perniola – in conclusione del suo ragionamento – suggeriva nuovamente di guardare alla Cina:
La follia della lotta ai quattro vecchiumi è finita con la morte di Mao, nel 1976. A partire da quel momento, le cose sono cambiate completamente. C’è stata, ad esempio, la rivalutazione di Confucio e quindi una fortissima rivalutazione degli intellettuali. Gli intellettuali, che erano considerati dalla rivoluzione culturale maoista ‘la nona categoria puzzolente’, diventano insieme ai contadini e agli operai le assi portanti della nuova società. A partire dagli anni Ottanta la politica cinese è completamente cambiata dal punto di vista culturale, puntando su quello che oggi viene comunemente chiamato soft power e che in Italia oggi manca completamente. Un esempio concreto dei risultati di questo soft power si è manifestato con l’apertura di centocinquanta Centri Confucio in tutto il mondo. Non si può dire alla gente soltanto pagate le tasse, producete e comprate sempre di più. Bisogna dare una prospettiva e, soprattutto, fare un discorso sulla qualità. Oggi, nel processo di civilizzazione che in Cina è in corso da trent’anni, la persona di qualità svolge un ruolo centrale. Non voglio dire con questo che la Cina ha risolto le sue contraddizioni, ma ha indicato una strada. L’Occidente, al contrario, oggi sta distruggendo la propria cultura. Nell’Islam – per tornare alla contraddizione non fondamentale da cui siamo partiti – agli intellettuali viene riconosciuto un ruolo importante che oggi, agli intellettuali italiani, non è più riconosciuto.