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arlando di Bodies of Water, la tredicesima Biennale di Shanghai, il chief-curator Andrés Jaque ha detto che “come esseri viventi, non abitiamo ambienti, siamo ambiente”. Jaque, già curatore di Manifesta 12 e direttore del programma di progettazione architettonica avanzata della Columbia, crede che dovremo superare la separazione degli spazi, perché “i corpi sono sempre collettivi e molteplici e operano come ecosistemi, come reti, come alleanze trans-specie, come ambienti e infine come clima”. Qualche anno fa a Madrid ha disegnato Run Run Run, un progetto che ripensa il modo in cui dividiamo case e città – la zona giorno e la zona notte, lo zoning urbano – per produrre ibridi, dare alternative che trasformino lo spazio attraverso una dimensione ludica: emanciparci dalla separatezza per creare occasioni di incontro trans-umano.
In Filosofia della casa (Einaudi Stile Libero, 2021), Emanuele Coccia propone una dimensione relazionale dell’ambiente simile a quella di Jaque e una teoria dell’ibridazione delle case e dei soggetti che le abitano, partendo da una dimensione materiale e biografica – l’abitudine, quasi tendenza esistenziale, del filosofo al trasloco che gli ha fatto cambiare trenta appartamenti e svariate nazioni e continenti. “Se la casa del passato è stata una macchina della distinzione”, scrive, “nel futuro dovrà diventare la disciplina collettiva della mescolanza” di classi, identità, popoli e culture.
È dalle scatole di cartone, dai mobili e visite a nuovi appartamenti che Coccia conduce la sua analisi della casa. In questa prima ricognizione degli spazi interiori, che lascia l’impressione di essere un grado zero per una successiva e più massimalista discussione, Coccia riflette su come la specie umana abbia imparato ad abitare, separare e riunire il mondo. La filosofia stoica dava alla pratica di far casa il nome di oikeiosis, intendendo con quel termine l’appropriazione o assuefazione di sé alle cose e viceversa: “Traslochi”, “Amori”, “Bagni”, “Cose di casa”, sono alcuni dei capitoli in cui Coccia prova a dire lo spazio, a nominarlo; il sottotitolo a questo saggio potrebbe essere dalla casa all’universo e ritorno, perché se Coccia parte dalla sua esperienza lo fa per estendere il suo ragionamento in termini celesti e cosmologici, ma senza mai dimenticare il piano materiale, perfino oggettuale, su cui la storia umana si sviluppa.
“Lo spazio nella sua purezza geometrica è fisicamente inabitabile”, scrive, riflettendo su come il tentativo di essere felici inizi da un’opera “di manipolazione di sé e di affinamento che chiamiamo cultura”. Dice una cosa piuttosto banale, cioè che la forma delle cose (anzi, delle case) è una forma culturale, una manipolazione del mondo che ha radici storiche, ma è banale dirlo se viviamo ancora in case vecchie, pensate per strutture familiari obsolete, stancamente nucleari, come se quella configurazione dello spazio fosse eterna e non avesse influenza sul modo in cui pensiamo la forma delle relazioni?
È dalle scatole di cartone, dai mobili e visite a nuovi appartamenti che Coccia conduce la sua analisi della casa, riflettendo su come la specie umana abbia imparato ad abitare, separare e riunire il mondo
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In Brave New Housing, l’urbanista Diana Lind spiega come dopo il 1918, in seguito all’influenza spagnola, il governo degli Stati Uniti avesse deciso di fare propaganda in favore della casa di proprietà. Il programma di Herbert Hoover si chiamava semplicemente “Own Your Own Home” e indicava un netto cambio di rotta in un paese in cui per tutto il secolo precedente era stata prassi comune avere inquilini in casa, vivere in hotel, condividere lo spazio con sconosciuti. L’epidemia, però, aveva mostrato il bisogno di diminuire il sovrappopolamento delle case: rimediare alla promiscuità degli spazi era una questione di salute pubblica, ma per poter diventare dominante la nuova soluzione abitativa era stata ammantata di superiorità morale; tra le altre cose, possedere casa voleva dire aver risparmiato, investito piuttosto che speso. La storia culturale e immobiliare degli Stati Uniti, un paese in cui la mobilità geografica è incomparabile rispetto a quella italiana, sarà pure diversa dalla nostra, ma il programma governativo di Hoover è un esempio perfetto di tutte le questioni in cui al piano materiale e storico si sovrappone il discorso, l’ideologia: non tanto il possesso, quanto l’esclusività degli spazi, la separatezza delle case ci è sembrata fino a oggi una condizione eterna e inviolabile.
Vivere soli è uno dei pochi segni di maturità a cui ricorriamo, uno dei pochi passaggi di stato accessibili: l’impressione è che si sia sempre fatto così, perché è così che dimostriamo di essere giusti, adeguati, decorosi, di successo. Allo stesso tempo, all’inizio dello scorso decennio solo nell’Unione Europea erano più di ottanta milioni le persone che vivevano in costellazioni non familiari e orizzontali – si tratta principalmente di studenti, migranti, giovani professionisti, anziani che affittano stanze: proprio Andrés Jaque ne aveva fatto mostre, libri, ricerche d’archivio sotto il nome di The Rolling House for the Rolling Society.
Scrivendo a un secolo di distanza dal 1918, durante un’altra pandemia che ha ugualmente reso morali le questioni di salute pubblica, in Filosofia della casa Emanuele Coccia analizza il portato storico e filosofico che nelle case non intravediamo quasi, perché, spiega, la casa per secoli è stata il “resto”, quello a cui si tornava, mentre la vita avveniva nello spazio pubblico cittadino – motivo, tra gli altri, per cui “della casa la filosofia ha sempre parlato pochissimo”. Una trasformazione però c’è stata ed è arrivata con il mondo che entra in casa via cavo: “l’invenzione della televisione ha fatto crollare la frontiera psichica tra la vita urbana e quella interna alla casa, portando lo spazio pubblico dentro le abitazioni,” internet poi ha fatto il resto e per Coccia è la rivoluzione digitale a ridefinire gli spazi reali in cui viviamo. “Comparati a essa [alla casa digitale] i nostri appartamenti sembrano dispositivi psichici di distanziamento che mettono da parte tutti i corpi che non appartengono alle nostre famiglie genealogiche,” mentre, “i telefoni assomigliano più ai falansteri di Fourier che all’immaginario borghese che struttura le nostre città”.
Il tuo saggio parte dalla constatazione che sulla casa si è fatta poca filosofia, così come letteratura tecnica, ma rispetto a quest’ultima spieghi che la casa nulla “ha a che vedere con l’architettura e il design” perché la casa è “la realtà morale per eccellenza”: se non è il regno dell’oggettivo, ma del soggettivo, perché allora non è un tema della filosofia? Vorrei chiederti non solo quali sono le ragioni di questo vuoto, ma anche cosa hai potuto indagare con questo libro, perché è in virtù di questa poca considerazione che la casa diventa lo spazio del rimosso: dentro ci trovi tutto quello di cui non vogliamo davvero parlare o che diamo per scontato, pur di non parlarne.
Non è solo un fatto di vuoto cognitivo, questa negligenza si misura soprattutto nella vita quotidiana, nel fatto che le case sono fatte molto male, che sono uno spazio di violenza, tristezza, depressione; non solo le case minerali, ma anche le famiglie, le coabitazioni, le forme di convivenza sono forme di cui in realtà riusciamo a parlare poco. Delle relazioni amorose, ad esempio, parliamo moltissimo della fase iniziale di innamoramento, ma poco di cos’è una convivenza di vent’anni, cosa vuol dire abitare con cinque persone e dire sto benissimo. In realtà, quindi, questo vuoto non è un vuoto di saperi, di conoscenza, ma un troppo pieno di realtà che, in qualche modo, rende impossibile la vita. Quello che bisognava fare – o che ho voluto e potuto fare – è una specie di battesimo; in fondo nel libro faccio molto poco, è un battesimo preliminare, cioè, prima di capire che cosa è questo gesto per cui facciamo case, cioè spostiamo oggetti e persone e continuiamo a tornare in questa collezione di oggetti e persone, capire perché lo facciamo, togliere di mezzo le idee un po’ balorde per cui il fare casa è legato al clima, ai bisogni materiali… Per poi cominciare una prima ricognizione delle forme che questa morale materiale ha preso e cogliere qualche struttura, capire quali sono le potenze. Quello che ho voluto e potuto fare è stato chiedermi che senso ha decidere di vivere con un’altra persona, quanto ne ho bisogno e quanto no. Allora rovescerei la domanda, direi che non c’era un troppo vuoto, ma un troppo pieno, nello stesso senso per cui quando uno non si occupa di qualcosa, lo spazio si riempie; se non te ne occupi, un prato diventa una foresta, le case diventano invivibili perché si accumulano cianfrusaglie, oggetti, rifiuti, topi e non c’è più spazio per te. Quello che ho voluto fare è far spazio, liberare e capire dove sono, perché mi sembra che stiamo nelle famiglie, nelle coabitazioni, nelle relazioni di coppia, nelle case senza sapere troppo perché lo facciamo. Anche perché poi ci vengono proposte case già fatte, prefabbricate, ci installiamo e poi capiamo dopo cosa vogliamo farci.
Il tuo è un libro personale, parla di te, di tutti i tuoi appartamenti, ma non potrebbe essere diversamente: come dici nel capitolo “Cose di casa”, quando a seguito di un trasloco in Germania ti trovi a vivere in una casa completamente vuota, senza arredi, “in quei giorni ho capito che lo spazio nella sua purezza geometrica è fisicamente inabitabile”. A proposito dei loro film Bêka & Lemoine dicono che lo spazio in astratto è difficilmente comprensibile, ma che appena ci metti qualcuno dentro cominci a vederlo; è come se lo spazio si attivasse solo in questa relazione dinamica. È in questo senso che il libro è personale, perché è necessario che qualcuno entrasse nella casa, che non fosse un ideale platonico per poterla abitare. Quello su cui vorrei ragionare è l’io che usi perché non è solo tu, in quanto Emanuele Coccia, ma è il soggetto necessario per capire come viviamo in casa. Come gli oggetti, non occupi, ma apri lo spazio.
È personale perché in fondo l’idea del libro è molto semplice: costruiamo case per stare meglio; poi uno può dare a questo meglio il contenuto che vuole – meno bagnati, meno freddi, più accompagnati, più ricchi, più poveri – ma la casa è l’atto di cambiare il mondo per stare meglio e, dunque, la natura di questa casa è questo meglio, che un nome possibile della felicità in tutte le sue forme. La casa è un’intensità di felicità; lo è dovunque, a Milano, a Parigi, a Dakar, indipendentemente dalla forma che prende. Parlare di felicità, però, significa iniziare a dire io: l’io è la condizione di possibilità per cui un enunciato sulla felicità è sensato; senza è una menzogna o è un gesto pretesco, una legge, un decreto governativo che c’entra con la giustizia ma non con la felicità. È importante: la felicità non è la giustizia, non basta vivere in un mondo giusto per essere felici. Questa è stata la ragione per cui dovevo per forza dire io e, anche se non avessi detto io, la felicità di cui parlo è quella di cui io ho avuto esperienza. L’io che parla non è l’io che conosce, non è l’erudito o il professore, è la parte di me che vuole essere felice nonostante tutti i sabotaggi. Filosofia della casa doveva essere un libro personale, in cui cercavo di non mentire, almeno non sulle cose fondamentali. Come sul fatto che racconto che all’inizio non sapevo cucinare: dovevo spiegare qual era il punto di partenza e quale il punto di arrivo e, se parlo anche di cose di cui forse avrei potuto non parlare, non lo faccio per mettermi in mostra, ma perché in fondo la casa è una specie di bozzolo metamorfico che ti permette di produrre felicità, di secernerla da dove non c’è. Per capire come è costruito questo bozzolo devi dire anche il punto di partenza. L’io in questo caso è la pulsione minima che accomuna tutti i viventi verso la felicità o la vita.
Mi interessa l’attenzione che dedichi agli oggetti, a quelli che nella casa di Friburgo non avevi trovato, a tutto quello che popola la casa. Dici che una teoria della felicità e della giustizia “deve necessariamente divenire una teoria della trasformazione appassionata del mondo, delle cose e della materia” e che la casa è il luogo di questa trasformazione, di questa adeguazione tra sé e il pianeta. Vorrei che attraverso gli oggetti mi spiegassi meglio questo passaggio logico che fai tra casa, felicità e cultura, perché poi conduce a un altro punto nodale della tua filosofia della casa, che è questa idea a-gerarchica dei soggetti che la abitano, un senso di mescolanza, come lo chiami tu.
La casa è il nome comune di tutta quella serie di pratiche e sforzi, immaginazioni e attitudini che intraprendiamo ogni volta per vivere meglio, per vivere meglio non in un istante ma in una temporalità diffusa. Che non è prendere una cioccolata d’inverno, ma è stare meglio nel senso del felix latino, una condizione duratura per cui devi cambiare in maniera stabile, solida il mondo, almeno per un po’. E la cosa che un po’ ci nascondiamo è che per stare meglio non dobbiamo fare meditazione, agire sulla nostra volontà, sui nostri sentimenti, ma bisogna davvero spostare montagne, spostarci tantissimo – se voglio rivedere una persona per esempio mi devo spostare, andare dove sta, se voglio dei libri, portarli dentro casa – questo significa che la felicità è sempre una forma di alchimia, nel duplice senso di trasformazione della realtà, per cui la felicità non è qualcosa che ci attende dentro o fuori di noi, ma una metamorfosi, e di alchimia come nelle sintesi chimiche, per cui se anche conosci la formula il risultato non è mai la stessa cosa. È un sapere molto divinatorio, come nella cucina, in cui hai ingredienti di partenza il cui risultato è indeducibile, come il whisky dai cereali per esempio. Le case sono sempre cucine del mondo, dello spazio, di sé, trasformazioni per cui non esistono ricette. Proprio come in cucina, basta una spezia per rovinare o migliorare un piatto, così nelle nostre esperienze domestiche spesso basta un gatto, la presenza o l’assenza di una persona, per trasformare completamente l’esperienza di una casa; elementi minimi, ma per ragioni quasi ontologiche, perché quello che chiamiamo mescolanza è uno spazio in cui il potere delle cose non dipende dalla loro natura o dalla loro dimensione, ma dell’insieme di relazioni e interazioni che la compresenza di tutti questi elementi innesca.
Prima ho usato l’espressione “relazione dinamica” perché non sei solo tu ad attivare lo spazio entrandoci, ma sono lo spazio e gli oggetti a influenzare come viviamo in una casa – tanto che nel capitolo che dedichi al rituale delle “visite” immobiliari, scrivi che “l’incontro con una casa è sempre il tentativo di decifrare la promessa di felicità condivisa”. E ancora “ci riconosciamo la capacità e la necessità di divinare la nostra vita”. I palazzi però sono fatti per durare più della nostra vita, sono palinsesti che si rinnovano continuamente, quindi la mia impressione è che ci sia qualcosa di più: quando entriamo in una casa dove qualcuno ha già vissuto entriamo in una storia biologica più ampia di noi, che non diviniamo solo il nostro futuro, ma lo sovrapponiamo a quello di qualcun altro, alla sua vita non vissuta; del resto i fantasmi infestano le case, non le piazze. Ecco più che una divinazione mi sembra una ricognizione delle energie psichiche del posto, per capire se è possibile una sintonia.
Forse in questo sono più cannibale di te: quando ti accorgi che in quella energia ci puoi entrare in sintonia, diventa subito tua, non è più un fantasma, ma un sogno possibile. In realtà il problema è che questa energia diventa fantasma e quindi passato, vita non vissuta, quando ti è estranea, quando è qualcosa che non potrà mai diventare futuro. Ad esempio adesso sto in questa sorta di hotel molto bello e in cui si vede tantissimo il gusto di chi lo ha disegnato – cioè Carla Sozzani e Kris Ruhs – e la cosa ancora più inquietante è che io mi sento a casa mia in uno spazio chiaramente vissuto e disegnato da altri. Una cosa di cui non parliamo mai è quanti spettri abbiamo inghiottito e quanti fatto finta che siamo noi per essere felici, che ci siamo identificati con le vite altrui molto più spesso di quello che crediamo. Io forse esagero perché ho avuto un’esperienza di gemellanza, ma ho sempre l’impressione che per forza nelle case ti identifichi con un destino compiuto o incompiuto ma altrui e te ne appropri. Funziona male quando non riesci a far finta, a dire io dentro l’io dell’altro e ti trovi davanti la restituzione di questo spettro. È come nelle relazioni d’amore quando una persona dice io e non si sa più chi dice io e c’è questa identificazione fortissima: secondo me è più inquietante quando l’identificazione funziona, che quando non accade e quindi vedi lo spettro.
Nel libro spieghi come l’abito, liberato dalla funzione di distinguere le classi, sia diventato strumento di definizione e rinegoziazione dell’identità: la rivoluzione della silhouette neuve di Chanel sta nell’aver reso possibile una identità femminile diversa. Mi ha colpito che scrivi che “le case dovrebbero fare la stessa cosa: inventare identità morali”. Se il nostro approccio alla moda non è strettamente utilitaristico o predeterminato, però viviamo ancora in case fatte per una costruzione familiare nucleare e che si tramanda da padre in figlio, presa per astorica. Due cose: la prima è che seppure non sia un’istanza minoritaria, vivere in un assetto non nucleare è o più difficile da fare in termini economici o più sospetto, e secondo, di conseguenza, in assenza di modelli altri, la spinta ad acquistare casa spesso coincide con l’acquisizione di un modello relazionale convenzionale. Come se l’acquisto della casa equivalesse a diventare adulti, ma solo in un certo modo: così come abitiamo le relazioni è sempre troppo poco indagato così come abitiamo le case, e viceversa.
Più che mancanze di immagini, è una mancanza di ricognizione. Neanche l’eredità funziona in questo modo: se erediti una forma di denaro, decidi tu cosa farne, lo trasformi in altro; invece, per restare sulla stessa metafora e mi tocca citare il Vangelo!, qui è come nella parabola dei talenti, li seppelliamo perché restino così come sono. Questo atteggiamento è stranissimo e forse vale anche nelle relazioni perché di fatto, per comodità o non so perché, non proviamo mai a creare una relazione dalla persona che abbiamo davanti e dalla situazione che stiamo vivendo. È come se invece di cambiare pasto ogni giorno, decidendo cosa fare rispetto a quello che abbiamo in frigo, continuassimo a ripetere sempre gli stessi piatti sempre nello stesso modo, senza mai spostarci di mezzo centimetro: è psicopatologia! Non è felicità, ma una specie di messa in scena di felicità che altri hanno pensato, come vivere il sogno di qualcun altro. Nelle case, nelle relazioni, oggi più che mai, stiamo vivendo sogni altrui e di gente che è morta secoli fa. Da questo punto di vista è molto più inquietante che vedere spettri.
Eppure forme di coabitazione esistono: nel suo libro Brave New Housing Diana Lind sottolinea come per tutto l’800 negli Stati Uniti fosse comune avere affittuari e vivere in hotel, che c’è stata una volontà politica nel cambio di paradigma – dopo l’epidemia di spagnola era cruciale diminuire il sovraffollamento delle case, creare spazi divisi; era una questione di salute pubblica, che è stata ammantata da superiorità morale. Anche oggi esistono tante esperienze di questo tipo: i fuorisede, gli immigrati vivono in case condivise, ma quella soluzione abitativa non viene mai valorizzata, perché nasce dal bisogno e quindi in sospetto dalla società bene, a meno che non diventi il cohousing di lifestyle, come gli alberghi per creativi, che però sono altrettanto conformisti. In un suo pezzo Annalisa Camilli diceva che forse dovremmo ripartire dall’iperfamiglia, dalle famiglie orizzontali: forse non serve un immaginario nuovo, ma un nuovo sguardo che veda come queste soluzioni già esistono.
È dipeso dal fatto che per anni la casa era una specie di strano garage in cui si tornava per poi uscire di nuovo: passavamo tutto il tempo fuori e la casa era un resto a cui ci adeguavamo, un’inerzia legata al fatto che la libertà, l’emancipazione, la ricchezza anche culturale venissero usufruite sempre soprattutto fuori. Oggi questa cosa è finita per mille ragioni, primo perché c’è stata la pandemia, secondo per i social media, con cui, ancora prima della pandemia, abbiamo creato spazi domestici. Whatsapp è come un grande salotto che ti permette di essere il coinquilino o la coinquilina di cinque, sei persone: puoi uscire dalla tua stanza, interagire con loro e poi chiuderti di nuovo dentro. È come se digitalmente avessimo già abbattuto le mura e fatto case più grandi, immaginando su uno spazio digitale coabitazioni molto diverse, ma ancora non abbiamo adeguato la scocca minerale a queste nuove forme. Se non serve più a stare in città per lavorare, la città è finita e questa è una rivoluzione enorme primo perché la modernità è nata strappando lo spazio domestico a quello del lavoro. Prima la famiglia non era un’unità affettiva, ma patrimoniale, nel momento in cui tutti lavorano e puoi lavorare dove vuoi, le case diventeranno molto meno genealogiche, non saranno legate a una città o a uno spazio preciso: la sperimentazione esploderà e nasceranno molti più castelli, falansteri, cenobi, persone che decidono di abitare insieme e vedere come funziona. È come se si fosse liberato un tappo ed è il tappo della città e dunque dell’economia. Il problema dei fuorisede è che abitano per ragioni economiche, mentre adesso la coabitazione può seguire altri motivi.
Rispetto alla costruzione di queste iperfamiglie non genealogiche o di ipercase, parli molto della funzione dei social media che per la libertà di composizione di tipi umani assomigliano, dici, ai falansteri di Fourier, o parli delle sessioni di Zoom come di “spiritualismo”. In confronto a questo cenobitismo virtuale che bypassa le città e le nazioni, gli appartamenti sono relitti del passato, dispositivi psichici di distanziamento. Dici che i social sono l’esplosione dello psichismo umano e però a me sembra che mantengano un vocabolario molto domestico: ci sono le room, le stanze, i gruppi chiusi, anche dello spazio virtuale sembra che dobbiamo far casa, tracciare una linea di separazione tra il dentro e il fuori. Quanto dilaga la casa e quanto invece è la possibilità dei social di rendere le definizioni, i confini labili o rinegoziabili a subire un irrigidimento?
Alla base una casa serve per riunire un sacco di roba, ad esempio dietro di te vedo decine di cose, letti, specchi, libri, vestiti: la casa è un esercizio di convocazione di una quantità di mondo mostruosa, che separiamo dagli altri per ragioni proprietarie o di maggiore intimità. A questo serve il tracciato, a dire che questo è per me uno spazio indispensabile. I social media sono stati immaginati come spazi domestici, ma sono spazi domestici non genealogici che hanno moltiplicato il numero di persone con cui siamo coinquilini, almeno psichicamente: dovremo spezzare questa schizofrenia che ci fa vivere in case minerali che di fatto sono ancora celle, prigionia in forma di vita ottocentesche, e dall’altra falansteri digitali con cui viviamo forse con troppe persone. Dovremo trovare una via media: vivere non come a casa ma nemmeno come su Whatsapp, con più di ordine e di rapporto fisico.