A inizio luglio il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in visita ufficiale in Nigeria, dove ha incontrato il suo pari locale Muhammadu Buhari, eletto nel 2015: lo stesso personaggio che nel dicembre 1983, da generale nell’esercito, aveva affossato la Seconda Repubblica con un colpo di stato. Dopo di che Macron ha fatto capolino al New Afrika Shrine, sede attuale del leggendario club creato da Fela Kuti, gestito adesso dai figli Yeni e Femi: ci era stato già durante lo scorso decennio, nel periodo in cui lavorava da stagista dell’École Nationale d’Administration presso l’ambasciata di Francia a Lagos. A questo proposito, confessava: “Non posso raccontare tutto quello che accadeva quando frequentavo lo Shrine, perché quello che accade allo Shrine rimane allo Shrine”. Un paradosso eclatante, in verità: Buhari fu il più accanito fra i vari persecutori di Fela, arrestato e incarcerato dai suoi sottoposti nel settembre 1984 con la pretestuosa accusa di esportazione di capitali (era in partenza per gli Stati Uniti avendo con sé 1.600 sterline avanzate dalla tournée britannica appena conclusa). Venne condannato a cinque anni di detenzione, pena talmente spropositata da spingere Amnesty International a dichiararlo “prigioniero politico”: fu liberato 20 mesi più tardi, dopo che Buhari era stato deposto da Ibrahim Babangida, alto papavero militare promotore dell’ennesimo golpe.
Ai giorni nostri la figura di Fela Kuti, scomparso 21 anni or sono, è oggetto di venerazione in patria, anche da parte di chi gli fu nemico. Una statua realizzata in fibra di vetro dall’artista locale Abolore Sobayo, che lo ritrae – privo di testa e di mani, le braccia protese verso il cielo – vestito in abiti dorati, troneggia dal 15 ottobre 2017 all’Allen Roundabout di Ikeja, un paio di chilometri a sud del New Afrika Shrine e a qualche centinaio di metri dal Kalakuta Museum. Museo situato nell’edificio di Gbemisola Street che divenne ultimo rifugio dell’omonima “repubblica” da lui proclamata nel 1974, accanto al quale è collocato il mausoleo in cui riposa. Dal 1998, per iniziativa della figlia primogenita Yeni, si tiene “Felabration”: settimana di festeggiamenti in sua memoria coincidente con l’anniversario della nascita. A ravvivarne il ricordo su scala planetaria hanno provveduto frattanto il musical Fela!, che dal debutto Off-Broadway nel 2008 è sconfinato sui palchi di mezzo mondo, ottenendo nel 2010 tre Tony Awards (per coreografia, costumi e sound design) su 11 nomination, e il documentario Finding Fela di Alex Gibney, presentato nel 2014 al Sundance Film Festival, mentre non si è concretizzato il progetto del regista Steve McQueen, che intendeva produrre un lungometraggio biografico con protagonista Chiwetel Ejiofor, già davanti alla sua telecamera in 12 Years a Slave.
Enunciarlo retrospettivamente è facile, ormai: Fela Kuti è stato uno fra i giganti musicali del Novecento, piazzato al crocevia fra Bob Marley, Miles Davis e James Brown. A quest’ultimo imputò addirittura di avergli “rubato la musica”, benché potesse essere vero anche il contrario: “Mi ero reso conto dell’impatto che quel figlio di puttana aveva avuto a Lagos”, afferma nella biografia This Bitch of Life di Carlos Moore, edita nel 1982. E comunque, la volta in cui il Padrino del Soul arrivò in Nigeria per concerti nel 1970, alcuni suoi musicisti approfittarono della circostanza per assistere a uno show della band di Kuti e ne furono impressionati. Intervistato da The Guardian nel 2004, il bassista Bootsy Collins disse: “Erano i tipi più funky che avessimo mai ascoltato”. Davis rappresentò invece un’ispirazione originaria, tale da indurlo a scegliere quale primo strumento la tromba, quando cominciò a esibirsi da debuttante sui palchi londinesi.
Del profeta del reggae, infine, aveva la medesima capacità di ergersi a capopopolo, influendo sulla politica nazionale e attirando su di sé conseguentemente l’ostilità dello schieramento opposto (tanto Marley rischiò la vita sotto elezioni, nell’attentato del 3 dicembre 1976 che lo convinse a emigrare temporaneamente oltreoceano, quanto Fela venne perseguitato dai vari dittatori nigeriani), e come lui consumava marijuana – ganja per l’uno, igbo per l’altro – ritenendola tramite verso la dimensione spirituale (“Il Dio dell’Africa ha creato quest’erba per illuminare la sua gente”, sosteneva). Era dunque il tipico soggetto che gli anglofoni usano definire larger than life: artista innovativo, performer carismatico, dissidente dal temperamento anarchico, leader messianico, poligamo dalla proverbiale voracità sessuale. Cittadino dello stato più popoloso dell’Africa subsahariana, divenne simbolo contraddittorio ma impareggiabile della musica continentale ai tempi della decolonizzazione: un supereroe visionario.
Nato il 15 ottobre 1938 ad Abeokuta, nello stato dell’Ogun, un’ottantina di chilometri a nord di Lagos, Olufela Olusegun Oludotun Ransome-Kuti era il quarto di cinque figli di una famiglia moderatamente agiata e aristocratica in termini culturali: insegnante e militante femminista (fu la prima donna patentata del paese) e anticolonialista (in quanto tale invitata in Cina dal presidente Mao e in Unione Sovietica per il ricevere il premio per la pace intestato a Lenin) la madre Chief Funmilayo Ransome-Kuti, pastore anglicano e preside, nonché fondatore e primo segretario della Nigeria Union of Teachers, il padre Israel Oludotun Ransome-Kuti, mentre il nonno paterno Josiah, pastore anch’egli, era stato negli anni Venti il primo nigeriano a registrare musica su disco e suo cugino Wole Soyinka avrebbe ottenuto nel 1986 il Nobel per la Letteratura, mai conferito in precedenza a uno scrittore africano. In un certo senso, considerata l’ascendenza, Fela si comportò da “pecora nera”: mandato a Londra nel 1958 dalla madre – da poco vedova – per imboccare un itinerario accademico analogo a quello seguito dai fratelli Beko e Olikoye, entrambi laureati in Medicina, scartò verso il Trinity College per frequentare corsi di musica e studiare pianoforte e composizione (a riguardo, avrebbe espresso successivamente ammirazione per Georg Friedrich Händel). Aveva cominciato inoltre ad armeggiare con la tromba nel sottobosco dei club della capitale e messo su un gruppo chiamato Koola Lobitos, trovando altresì il tempo per corteggiare e sposare – nel 1960 – Remilekun Taylor, sua prima moglie e madre di tre figli: Yeni (1961), Femi (1962) e Sola (1963). Quest’ultima vide la luce dopo il ritorno in Nigeria, divenuta frattanto indipendente dall’ottobre 1960.
Dovendo sbarcare il lunario, lavorò per qualche tempo come produttore radiofonico nell’azienda di stato Nigerian Broadcasting Corporation, ma non smise affatto con la musica, anzi: organizzò a Lagos una nuova versione dei Koola Lobitos, muovendosi al confine tra il jazz e gli stili tradizionali dell’Africa Occidentale, in particolare l’highlife importato dal limitrofo Ghana. Fra gli strumentisti reclutati c’era Tony Allen: “Il migliore batterista al mondo”, a detta di Brian Eno, il quale anni fa confessava di possedere più dischi di Fela che di ogni altro artista e di avere flirtato a lungo con l’idea di poterne produrre uno. Sulle qualità di Allen, il capobanda era categorico: “Senza Tony non ci sarebbe stato l’Afrobeat”, espressione da lui stesso coniata nel 1967 per definire l’osmosi fra codici indigeni e linguaggi derivati dalla diaspora africana in Nordamerica. Ad avverarla era una big band a trazione ritmica, con i fiati in primo piano e un cantato che mutuava il botta-e-risposta caratteristico del gospel e dello spiritual: armamentario sonoro con cui il gruppo traversò l’Atlantico nel 1969, approdando negli Stati Uniti e stazionando per una decina di mesi in California (esperienza testimoniata dall’album The’69 Los Angeles Sessions). Fu un passaggio determinante nel percorso formativo di Kuti: grazie all’attivista locale Sandra Smith entrò in contatto con le Black Panthers e approcciò il mito di Malcolm X. Di lì in avanti, mentre la formazione diveniva prima Nigeria ’70 e poi Africa ’70, i contenuti narrativi della sua musica si spostarono dal personale al politico.
Dal 1970 base operativa diventò il Kakadu: locale nell’area di Yaba – allora sobborgo, adesso “Silicon Valley della Nigeria” – da lui rinominato Afro Spot. Là il gruppo si esibiva tre sere a settimana, dal venerdì alla domenica: oltre a cantare e arringare la folla, Fela suonava le tastiere e guidava i suoi in lunghe cavalcate di composizione spontanea. Le registrazioni su disco erano conseguenza anziché origine degli show: la prima ad avere successo nazionale, nel 1971, fu Jeun Ko Ku. In zona era arrivato nel frattempo, reduce dai Cream, il batterista Ginger Baker, che già aveva intercettato il giovane Kuti a Londra: la collaborazione tra i due sfociò nel coinvolgimento dell’inglese per l’album dal vivo degli Africa ’70 chiamato tautologicamente Live!, cui corrispose un analogo cammeo dei nigeriani in Stratavarious, pubblicato nel 1972 da Baker, divenuto intanto titolare a Lagos dell’ARC Studio, dove nell’estate del 1973 si affacciò Paul McCartney insieme ai Wings per registrare un brano – Picasso’s Last Words (Drink to Me) – destinato a Band on the Run, disco che stava prendendo forma nella capitale nigeriana. L’ex Beatle ebbe occasione di ammirare a sua volta Fela in azione all’Afro Spot, rimanendone folgorato: “La migliore band che abbia mai visto dal vivo”, sentenziò. Kuti non brillò per empatia, viceversa, accusandolo apertamente di “rubare la musica agli africani”.
Non meno radicale dei suoi modi era l’evoluzione del linguaggio espressivo in atto: a capo di una formazione che a quel punto comprendeva una quindicina di elementi, si avventurava in estenuanti tour de force d’improvvisazione, utilizzando nei versi – per rendersi comprensibile a tutti in patria e nell’intero continente – l’esperanto meticcio detto Pidgin English. Esemplare il testo di Gentleman, brano guida dell’omonimo album datato 1973:
Him put him socks him put him shoes, him put him pants him put him singlet, him put him trouser him put him shirt, him put him tie, him put him coat, him cover over all with him hat him go sweat all over, him go faint right down, him go smell like shit
“Lui indossa calzini lui indossa scarpe lui indossa mutande lui indossa canottiera lui indossa pantaloni lui indossa camicia lui indossa cravatta lui indossa cappotto lui copre tutto con il cappello lui suderà un casino lui perderà i sensi lui puzzerà come merda”.
Il suono era diventato più percussivo, con maggiore accento su chitarre e basso, mentre da parte sua Fela aveva rimpiazzato personalmente il sassofonista Igo Chico, imparando – narra la leggenda – a maneggiare lo strumento nell’arco di un giorno, laddove la messinscena era stata potenziata moltiplicando il numero di coriste e ballerine (nei fatti, il suo harem). Gli show si trasformarono così in happening rituali a base di musica, pratiche esoteriche e liturgie mutuate dai riti animisti dell’etnia Yoruba: messe pagane con Kuti in veste di sciamano. La tournée nazionale del 1974 fu trionfale: negli stadi accorrevano decine di migliaia di spettatori a concerto. Durante quel biennio registrava con cadenza quasi mensile i pezzi più popolari negli studi Emi di Apapa, escludendoli poi dal repertorio dal vivo per rodarne altri nuovi.
Intorno al leader – il quale avrebbe ripudiato l’anno dopo il nome da schiavo Ransome per assumere quello di Anikulapo (“Colui che porta la morte in tasca”) – si era aggregata via via una comunità di un centinaio di persone, fra artisti, tecnici e assistenti vari con famiglie al seguito, o semplici “imbucati”, insediata inizialmente dentro casa della madre a Mosholashi, nella zona meridionale di Lagos, di fronte all’Ambassador Club che ospitava le performance della band, ribattezzato Afrika Shrine. Avvisaglia dei contrasti incipienti con la giunta militare era stato nel 1974 un primo raid della polizia, motivato dal traffico di stupefacenti: seguirono, intensificandosi, altre intimidazioni, con relativi arresti. Da ciò derivò il trasloco a Mushin, ghetto settentrionale della capitale, in uno stabile a due piani tramutato in Repubblica di Kalakuta (nel gergo carcerario: “mascalzone”): una sorta di comune dotata di alloggiamenti per l’intera troupe, studio di registrazione e – addirittura – centro medico.
Le feste erano ospitate invece, da mezzanotte all’alba, nel cortile dell’Empire Hotel, sul lato opposto della strada, dove Fela arrivava a volte in groppa a un cavallo bianco. “A quelle serate potevi incontrare gente di ogni tipo: piccoli furfanti, preti, banditi, uomini di affari”, ricordava Rikki Stein, suo manager per 15 anni. La questione era però un’altra: Kuti rivendicava per la propria enclave autonomia dal governo nazionale, guidato allora dal generale Olusegun Obasanjo (originario della stessa città di Fela e quasi coetaneo, subentrato nel febbraio 1976 con il solito golpe a Murtala Muhammed, ucciso dagli insorti), denunciandone la corruzione e il nepotismo (del caso si occupò all’epoca un reportage del New York Times).
Punto di svolta fu la sua decisione di boicottare il “FESTAC”: raduno panafricano in programma tra gennaio e febbraio del 1977 a Lagos, al quale le autorità avevano invitato assi come Stevie Wonder, Gilberto Gil e Sun Ra, che incontrarono Fela, familiarizzando con lui e indispettendo così il regime. La risposta fu brutale: il 18 febbraio 1977 un migliaio di soldati – gli Zombie cui alludeva il brano omonimo, uscito nel 1976 – fece irruzione a Kalakuta, malmenando gli uomini, stuprando le donne, devastando ogni cosa e incendiando l’edificio (ora sede della Ransome Kuti Memorial Grammar Junior School). La madre settantaseienne venne scaraventata da una finestra del secondo piano: la caduta provocò ferite tali da ridurla in coma ed effetti postumi che ne avrebbero causato la morte il 13 aprile 1978. L’eco dolorosa di quei fatti si riverbera in uno dei suoi classici, immortalato allora in tempo reale: Sorrow, Tears and Blood.
Fela comunque non si diede per vinto e organizzò un paio di atti dimostrativi: nel primo anniversario del raid sposò 27 coriste e ballerine, le Regine, mentre a settembre scortò in corteo la bara simbolica di Funmilayo sino al quartier generale di Obasanjo. Nel frattempo aveva trovato una nuova dimora a Ikeja, più a nord, spostando al Crossroads Hotel in Pepple Street l’Afrika Shrine, poi ricollocato in Gbemisola Street. Alla fine del 1978, di ritorno da un trionfale tour europeo culminato nella partecipazione al festival jazz di Berlino, dovette incassare però la defezione di molti musicisti, Tony Allen in testa: “Stava sbagliando tutto ed era circondato da parassiti: della settantina di persone al seguito, solo 30 lavoravano nella band, gli altri gli succhiavano il sangue, togliendo forza a lui e alla sua musica”, spiegò anni dopo il batterista.
Nondimeno, decise di alzare la posta nella sfida al potere: fondò il partito Movement Of the People, ispirandosi al panafricanismo del rivoluzionario ghanese Kwame Nkrumah, cominciò a pubblicare inserzioni a pagamento sui quotidiani locali con il motto “Chief Priest Say” e tentò di candidarsi senza successo alle elezioni presidenziali del 1979. Voleva diventare il Black President, come avrebbe intitolato un disco nel 1981. Per sincronizzarsi con il nuovo decennio ribattezzò il gruppo Egypt ’80, rivendicando al contempo l’ascendenza nubiana – dunque africana – della civiltà egizia, e nel 1980 rifiutò il milione di dollari offertogli dalla Motown dopo aver consultato il mago Kwaku Addaie, alias Professor Hindu, divenuto sua guida spirituale. Nell’estate dello stesso anno arrivò per la prima volta in Italia, accolto all’aeroporto a Milano dalla polizia, pronta ad arrestarlo per possesso di stupefacenti. Uscendo da San Vittore, dichiarò: “Le carceri italiane sono meravigliose: c’è molto spazio e si mangia tre volte al giorno!”. Era abituato a quelle nigeriane, che lo accolsero nuovamente – dicevamo – nel settembre 1984. Fela stava cominciando a patire le conseguenze dell’oppressione e portava sul corpo le cicatrici delle violenze subite: avrebbe potuto trasferirsi all’estero, ma scelse testardamente di rimanere in patria.
Ultimo guizzo artistico e politico fu l’album anti apartheid del 1989 Beasts of No Nation, con le caricature da vampiri cornuti di Ronald Reagan, Margaret Thatcher e del presidente sudafricano Botha in copertina. Ormai più frequenti dei dischi, tuttavia, erano gli arresti: gli ultimi della serie nel 1993 e nel 1996, con imputazioni variabili dal concorso in omicidio al traffico di droga, portando il totale verso quota 200. La persecuzione si protrasse fino alla vigilia della scomparsa, avvenuta il 2 agosto 1997: non ancora cinquantanovenne, fu stroncato dall’Aids (“la malattia dell’uomo bianco” secondo lui, che aveva deplorato come “non africano” l’uso del preservativo in un brano di fine carriera, Condom Scallywag and Scatter). Ai funerali partecipò oltre un milione di persone e l’evento si trasformò in un’enorme festa popolare nelle strade della capitale. Pochi mesi dopo il figlio più giovane Seun, nella band da quand’era bambino, divenne fulcro degli Egypt 80 ad appena 14 anni.
Ai posteri Fela Anikulapo Kuti ha consegnato un imponente lascito discografico: complessivamente una settantina di titoli, vestigia mercantili della sua musica. A proposito della quale, intervistato dallo statunitense Hank Bordowitz, diceva:
Si suppone che la musica debba produrre un effetto: se suoni e la gente non sente nulla, significa che non combini un cazzo. Questo è il senso della musica africana. Se ascolti qualcosa, ti devi muovere. Voglio spingere la gente a ballare, ma anche a pensare. La musica deve annunciare una vita migliore.