S tudiosa, dramaturg, curatrice, stretta collaboratrice teorica di Romeo Castellucci da oltre un decennio, Piersandra Di Matteo è la nuova direttrice artistica di Short Theatre, festival romano di arti performative. Piersandra Di Matteo si unisce così a un gruppo che negli anni ha messo a punto una pratica collettiva di lavoro, di appartenenza a un progetto culturale, di prossimità a percorsi artistici che si intrecciano con l’attivismo politico e sociale.
Dal 2 al 13 settembre 2021 la nuova edizione di Short Theatre abiterà diversi luoghi della città di Roma per alimentare dinamiche di relazione in cui sperimentare forme di risonanza, tangenze e interferenze estetiche e discorsive in grado di costruire un ambiente che riverbera nel legame tra poesia, vocalità, suono e un’idea di performatività come agire politico.
Insieme a Francesca Corona, stai lavorando alla prossima edizione di Short Theatre interpretandola come “entità pensante”. Cosa significa?
Cosa vuol dire per te coabitare uno spazio curatoriale?
Non si tratta di prendere decisioni singolarmente o di affermare il proprio orizzonte, ma di mettere in campo prospettive plurali in un’ottica porosa: tutte istanze connaturate a Short Theatre.
Che ruolo avrà il pubblico in questo senso?
Cosa hai imparato da Francesca Corona che porterai con te nelle prossime edizioni?
Il suo modo di accompagnarmi in questa transizione è sottile ma anche pragmatico: Francesca intuisce una cosa e procede. Io per natura ho bisogno di pensare, mediare, mettere le cose in relazione.
Cosa desideri portare, invece, come tuo contributo personale?
Mi interessa entrare in contatto con le sue diverse comunità, con la sua dimensione stratificata a livello culturale. Mi interessa la vita urbana, capire come un festival possa allargare il proprio campo d’azione per incontrare più persone possibili, non soltanto quelle che sono già interessate alle arti performative. Sono alla ricerca di una possibile trasversalità di azione, e questo implica l’attivazione di processi dove siano in gioco dimensioni partecipative, orizzontali, di commoning.
Questo senz’altro è un punto, ma intendo mantenere ed estendere un dialogo forte, a livello internazionale, con chi sta sperimentando forme partecipative inedite o formati che implicano un ripensamento delle nozioni di spazio e di tempo, dimensioni che entrano radicalmente in gioco nell’esistenza di un festival.
Immaginavo che per quanto riguarda il tuo contributo personale avresti citato la tua esperienza come dramaturg.
A proposito di teoria, quali fronti della tua ricerca in particolare confluiranno nel festival?
Un altro spunto si nutre della ricerca che conduco all’Università IUAV di Venezia nel quadro del progetto Incommon, diretto da Annalisa Sacchi, che si occupa di ricostruire le trame relazionali degli artisti attivi negli anni Sessanta-Settanta. Sto dando particolare un’attenzione alla scena romana: tornare a quella storia non è casuale.
Ti capita nella tua vita personale di includere le pratiche performative che hai incontrato? Utilizzi il tuo corpo performativamente?
Le pratiche corporee sono quelle che più mi influenzano: creano spazi di illuminazione, modificano la mia quotidianità in maniera sostanziale, radicale. Credo che la potenza delle arti performative stia nella loro capacity making di produrre trasformazione, e la prima che mettono in campo è quella corporea. Non posso pensare a un festival se non nell’ipotesi che ciò che si pratica possa provocare delle trasformazioni.
Poi c’è la controparte che il corpo chiede, specialmente in un lavoro come il nostro, dove i confini tra tempi di vita e tempi di lavoro sono problematicamente compenetrati. Credo che la possibilità di ricablare la dimensione della talking head sia uno dei poteri delle pratiche performative.
Da ormai più di un anno, tante persone si trovano a riflettere per la prima volta sulla relazione tra il corpo e lo spazio. Nella tua esperienza, come hanno reagito i performer al lockdown? In che modo la loro consapevolezza li ha condizionati?
E a livello tematico? Che tipo di pratiche ti sembra stiano emergendo?
Come influirà la pandemia sulle scelte dei temi e formati del festival?
Con Francesca pensiamo a un’edizione caricata dalla gioia, a manifestazioni di apertura, di liberazione. Sarà un’edizione anche connessa alla dimensione dell’invenzione – potremmo dire “sbracata”, che si prende più spazio del dovuto, che esagera. Mi piace pensare che i corpi possano essere in risonanza. Vogliamo alimentare questo riverbero tra corpi che sono stati separati, contingentati, misurati e quindi anche sorvegliati: l’idea è di rompere le soglie della sorveglianza, di permettersi un gesto incontrollato.
Come state pensando il rapporto con lo spazio pubblico?
Un festival è segnato dalla cura dello stare insieme, non solo una punteggiatura di eventi, esiste prioritariamente tra gli eventi: le arti performative possono essere una palestra per riallenare la collettività alla collettività.
È in via di ripubblicazione per Castelvecchi il libro culto di Adriana Cavarero A più voci, e so che la voce sarà uno degli assi di ricerca di Short Theatre: perché la riflessione sulla voce è importante in questo momento?
Mi interessa la voce come spazio di investigazione politica, il dispositivo della voce in relazione alla materialità del corpo, materialità che costituisce la cornice dentro la quale viviamo, ambito in cui emergiamo come soggetti. La questione diventa politica in relazione a come il soggetto sia incarnato e a quali relazioni di potere presiedano questa incarnazione.
Mi piacerebbe spronare una declinazione possibile della vocalità nei termini del rapporto tra performatività e poesia: una relazione che si è in qualche modo perduta, quella della poesia come pratica vocalica, come attivazione di risonanze. È una linea di tensione che cercherò di sviluppare anche negli anni successivi: capire come sia possibile praticare la poesia-voce che rimetta in relazione performance e poesia sonora e visiva.
Gli ultimi anni hanno visto un ritorno dell’interesse per il dispositivo audio. Sto pensando alla diffusione dei vocali, dei podcast, di Clubhouse: forse una reazione all’allagamento del panorama visivo legato ai social e alle videochiamate.
Mi interessa anche il dispositivo radiofonico. In Atlas, a dicembre, abbiamo creato cori collezionando le voci di tante persone dalle case durante la pandemia. Attraverso un gesto artistico, questi cori sono diventati quattro partiture acustiche che poi sono state trasmesse da una rete di radio internazionali. La possibilità di pensare a formati di questa natura sarà senz’altro una linea di tensione di Short.
Come stai affrontando la selezione degli artisti?
Mi interessa, in questo senso, guardare alla scena nazionale e dedicare un’attenzione particolare al territorio, agli artisti della “scena romana”, continuando però a prenderci il rischio di mantenere attiva l’interlocuzione con artisti del panorama internazionale, consapevoli del rischio che questo comporterà in termine di quarantene e logistica.