8 am – 8 pm è un saggio del 1977: Ettore Sottsass ha già compiuto sessant’anni; ha già collaborato con Olivetti, sposato Fernanda Pivano in quella che Vogue ha definito “una tra le dieci coppie più brillanti del mondo”, esposto nella mostra Italy: the new domestic landscape al MoMA di New York. L’anno prima ha iniziato la sua relazione con Barbara Radice, che durerà per i successivi trent’anni.
Matteo Codignola inserisce questo saggio all’inizio di Di chi sono le case vuote?, la terza – e purtroppo ultima – raccolta Adelphi degli scritti dell’architetto e designer, che abbraccia il periodo compreso tra il 1977 e l’anno della sua morte, il 2007. Quello che abbiamo davanti, soprattutto per chi ne ha seguito il percorso iniziato con Per qualcuno può essere lo spazio (1940-1957) e lo straordinario Molto difficile da dire (1967-1975), è un Sottsass maturo, affermato, famoso, per così dire. In 8 am – 8 pm passa in rassegna un giorno qualunque della sua vita; si sveglia nel letto, bacia la compagna, va in ufficio, scopre di avere mille impegni, che un certo mobile non lo si può fare come lo aveva progettato, che al pomeriggio dovrà andare da Fiorucci, che saranno Ulla e Zanotto a accompagnarlo in auto a Monza; c’è tutta la complicata architettura dei conti, degli impegni, delle seccature e degli obblighi.
Vogliono l’immagine del potere, della ricchezza, del sesso, del folklore, dell’imperialismo americano, delle tecnologie avanzate – e alla fine tutto rivestito del design italiano.
Da Bangkok gli chiedono di progettare un hotel: “Non so: vogliono la sauna, la piscina, il ristorante, vogliono l’immagine del potere, della ricchezza, del sesso, del folklore, dell’imperialismo americano, delle tecnologie avanzate – e alla fine tutto rivestito del design italiano. Si suppone che noi siamo i famosi designer italiani. Hai capito il messaggio?”
Basterebbe anche solo questo per spiegare i passaggi di stato, le stratificazioni di questo ultimo bellissimo capitolo della scrittura di Sottsass. Il suo lavoro è sempre stato profondamente influenzato dai viaggi, dagli altri orienti, dalle Indie spelacchiate e dal Nilo, dalle architetture arcaiche dei sud, dal consumismo plastico degli Stati Uniti e poi, decenni dopo si trova qui, a Milano, nella sua Italia, a disegnare un hotel a Bangkok in cui la richiesta implicita è che sembri un posto qualunque ma del mondo moderno, con una spolverata di cultura e qualità italiane.
Qualità, dice: “un oggetto culturalmente rilevante e ben fatto diventa un’immagine di classe ‘tout court’ e naturalmente diventa l’immagine di una classe speciale – la borghesia – una classe che usa la qualità come una colla per mettere insieme e identificare se stessi” (il corsivo è mio, l’accuratezza di Sottsass). Abbiamo seguito con lui i passaggi dall’Austria dell’infanzia, all’Italia dei dopoguerra, a quell’avventura esaltante che sono l’architettura e il design degli anni ‘50 e ‘60. Sottsass è sempre stato un osservatore privilegiato e di profonda intelligenza quando si è trattato di analizzare i rapporti tra arte, architettura, industria e mercato: in Molto difficile da dire scriveva che “anche la storia del design come dicono fu messa su e forzata usando l’idea che il design era un modo per spingere l’affare delle vendite, per spingere il business, perché l’industria doveva produrre e la gente doveva comprare”, che il design è diventato “un sollecito, una carezzina, un dolcino, uno shock”.
Alla fine degli anni ‘80 non cambia idea e, per fortuna, non applica una grassa patina di nostalgia al passato, ma riconosce che “il loro design era tecnologicamente orientato e sembrava dunque molto moderno, facile da capire, democratico, non troppo costoso, funzionale, leggero […] qualche volta sembrava persino d’avanguardia”. “L’idea,” scrive in un saggio, “era che un oggetto o un mobile possono essere elementi importanti per aggrapparsi alla vita, perché a quei tempi la gente era solita pensare che alla vita ci si potesse aggrappare per mezzo della presenza delle cose che ci circondano”.
Adesso in questo hotel a Bangkok vogliono giusto una spolverata di qualità italiana, in cui è l’aria di modernità che viene ricercata, non gli oggetti – ma un designer deve progettare l’aria? Deve dare l’impressione di vivere nel migliore dei mondi possibili o provare a costruirlo?
Il mercato prova a cooptare tutto, anche i radicalismi e le rivoluzioni, la società civile attende che smettano di bruciare, che gli spigoli vengano smussati, che le idee vengano digerite e poi accoglie tutto, col sorriso dei giusti. Così anche la giornalista che in 8 am – 8 pm lo intervista sul “controdesign”, gli chiede una definizione masticata bene che possa andare per un pezzo di cultura; leggete cosa dice Sottsass:
Così le ho raccontato che forse ‘controdesign’ significa rabbia o meglio noia o forse disperazione o forse scherzo o forse semplicemente il risultato della coscienza di ciò che sta accadendo nel design, considerando che questo design business sta diventando sempre più esigente, applicato e esaurito, esagerato e ricercato e soprattutto usato da tutti, attori e spettatori, designer e produttori, venditori e compratori. Con il passare del tempo questo enorme racket, questo business gigantesco, mascherato dalla cultura, dalla bellezza, dall’umanità – come dicono le riviste – questa ruota vorticosa gira sempre più velocemente, lasciandoci nello stesso posto oppure portandoci persino indietro o forse avanti, ma non così velocemente come pensiamo.
Viene da dire sì, bravo Sottsass, ben detto: ma dopo? Cosa succede dopo che siamo tutti allineati dalla parte giusta? Se Sottsass fosse stato meno contemporaneo di come è stato, meno futuro e meno illuminante, avrebbe continuato a fare conferenze in cui avrebbe detto questa cosa, quella del design come racket, all’infinito e, invece, qui la gioia di questa raccolta, Sottsass parla di luce, colore, parla di come si costruiscono le case a Filicudi (“Ombre, oscurità, tenebre immobili, asfissianti, sembra fossero una specie di componente… di materiale di base per giustificare e costruire architetture”), di cucine, di muri e rovine.
Questa raccolta racconta cosa accade quando il giorno sta per finire, come recita uno dei saggi, eppure non finisce ancora: c’è in queste pagine uno slancio vitale, una nuova scommessa fatta con la vita, che a volte prende nei momenti in cui si inizia a passare in rassegna quello che si è fatto. Sottsass prende in considerazione il problema di fare una mostra e poi alla fine, in mezzo ai suoi schizzi, opere, progetti, dice: “è quello che farò: cercherò di ricominciare da capo, per quello che è possibile ricominciare da capo dopo aver guardato le cose fatte con una certa melancolia, … dopo aver constatato ancora una volta che tutte le cose che si fanno sono sempre un po’ giuste e un po’ sbagliate”.
Di chi sono le case vuote? è una gioia e una festa, una meditazione guidata di Sottsass per liberare la psiche.
Io penso a quei luoghi dove la psiche non si libera mai ma invece forse continua a cercare se stessa, luoghi dove la conoscenza smette addirittura di esistere e dove la ricerca della psiche diventa fine a se stessa, diventa una specie di nomadismo permanente senza meta dentro ai meandri di se stessa, una specie di insopportabile piacere erotico continuo di toccare dentro le oscurità dell’esistenza, una specie di perplessità permanente, una specie di permanente scoperta di brani di paesaggi esistenziali, di improvvisi flash di storia, di storie vaganti nel vuoto come meteoriti nello spazio.
Ho citato qui praticamente tutto il brano del 1991 (Psiche liberata, appunto), un po’ perché è un unico periodo e un po’ perché non tutti i pensieri possono essere condensati in pilloline da assumere; a volte tocca leggersi un periodo involuto e ispirato in cui sentiamo e intravediamo qualcosa, che resta indefinito. C’è qui un Sottsass che parla di progettare per progettare, di abdicare in un certo senso al primato dell’oggetto, ma non, come per i moderni hotel del sud est asiatico, in favore dell’aria di modernità, ma di una ricerca che ha se stessa come fine.
Infatti per Sottsass questo c’entra con la sessualità, la vede ovunque, la sente ovunque – quante volte ripete la parola orgasmo – perché come dice Alenka Zupančič “la sessualità è il paradigma della ricerca e dell’esplorazione, non nel senso che è possibile ridurla a essere l’ultima istanza ma, al contrario, perché annuncia brutalmente che non vi è alcuna ultima istanza”. Letteralmente: “Si può anche pensare che il progetto… abbia per traguardo il progetto stesso, come si può pensare che qualunque amplesso non necessariamente abbia per traguardo la produzione di un bambino, ma possa avere per traguardo l’amplesso stesso” (da Chi ha paura del merkato?).
Da cosa deriva questo nuovo slancio? Viene da dire, leggendo la sua autobiografia Scritto di notte, dall’incontro con Barbara Radice e, di certo, dalla noia per quello che l’hotel a Bangkok rappresenta, queste sorti magnifiche e progressive in cui tutto diventa splendido, superficie liscia, senza intoppi, sbeccature, in cui tutti saremo felici, oh! come saremo felici. L’aria di modernità è insomma un oggetto, qualcosa di riproducibile, addomesticato, ammansito. E di questo Sottsass non vuole sentire parlare: “i nostri rituali scivolano sopra le fotografie delle etichette, scivolano veloci sopra il lucido della carta patinata, sopra le gocce di rugiada, censurano l’infelicità, il dubbio, l’incertezza. Perciò il mondo sarà sempre bellissimo e tutti saranno felici… Non siamo forse tutti tremendamente felici? Non siamo forse tutti, inevitabilmente, sulla via del progresso?”
Inutile dire che sia ironico. Spassosa ma illuminate la sua intuizione sull’odio per il piacere da parte degli americani, sulla cui influenza culturale Sottsass ha sempre riflettuto sin dal dopoguerra: “tutta quella gente lì, se avesse potuto, o se potesse, eliminare qualunque piacere, qualunque porco godimento, qualunque sugoso, felice, splendente evento nella vita l’avrebbe fatto o lo farebbe subito; ce ne sono di quelli che si chiamano amish, che hanno anche abolito l’orgasmo quando fanno l’amore, così si dice, ad ogni moda per ora qualcuno ha cominciato a inventare i sandwich, dove la parte buona da mangiare è in mezzo a due piastre bianche di pane senza sale e così la parte buona non si vede”.
Questa magnifica e adesso mondiale classe borghese – ché da qui siamo partiti e qui torniamo – che si definisce grazie alla qualità e si crede sulla via del progresso, “pensa che l’unica cosa da fare sia dedicarsi a progettare il futuro… un futuro non tanto ben chiarito, non tanto ben collocato”.
Immaginare il futuro, insomma, sembra un modo per rimuovere il presente, per rassicurarsi che qualsiasi cosa sarà risolta, basta avere abbastanza fede.
“La gran parte dell’umanità si eccita – scrive in Sulle rovine – molto per il futuro, rimuove il presente incomprensibile e faticoso e si sente eroica per il futuro”, futuro la cui idea, ovviamente, si presenta sempre “intatta, non è mai corrosa da nessuna prova”: ogni problema, conflitto, guerra che immaginiamo nel futuro è vittoriosa – la guerra contro l’ignoranza, il male, le ingiustizie.
“Ci sono persone che predicano l’unico metodo per proteggersi, persone che pensano di sapere cosa è la protezione, persone che pensano di sapere cosa è la natura, persone che si sottraggono al problema, persone che si nascondono…”
Immaginare il futuro, insomma, sembra un modo per rimuovere il presente, per rassicurarsi che qualsiasi cosa sarà risolta, basta avere abbastanza fede; una specie di cattolicesimo della cultura senza però perdono per i peccati, perché ogni deviazione dalla norma, ogni inciampo e ambiguità sono percepite come fatali o forse solo insopportabili.
Sottsass invece si dice eccitato dal presente, “come posto dove incontrarsi con l’esistenza; un presente ambiguo, un presente curioso, un presente incerto”.
Quanto dura questo presente? Nel 2002, ottantenne, per Sottsass dura ancora, la vita una lunga parabola che non prende il volo e non si posa mai, che continua imperterrita il suo percorso. Chiede irrisolvibilità delle cose, irriducibilità a carezza, shock o dolcino dell’opera, di stare per sempre in questa terra di mezzo che è passato e futuro, che è presente: “ho sempre pensato che forse potevo provare a disegnare luoghi dove trovare un po’ di forza per aspettare o forse anche potevo disegnare una scatola molto rossa da non aprire mai per non lasciare uscire l’enigma”.
L’enigma, la sfinge: mi sembra sempre interessante come sia proprio dal design, dall’architettura e dall’illustrazione, campi che sono sempre stati strutturalmente a contatto, in scambio con l’industria, il mercato, che escano i pensieri meno compromissori, più aperti allo scambio e al rilancio della discussione. Forse perché sono campi di sperimentazione del reale, forse perché qui il pensiero si può nascondere un po’ dietro la pratica, non essere soggetto a certi assolutismi di arti che si fingono più pure e assolute.
Ci ho pensato quando nella mostra che dedicata a Saul Steinberg in Triennale a Milano, ho letto questa frase: “L’arte è una Sfinge: il bello della Sfinge è che devi interpretarla. Quando hai trovato un’interpretazione sei salvo. L’errore della gente è credere che la Sfinge possa dare solo una risposta esatta. In realtà ne dà cento, mille, forse nessuna. Può darsi che l’interpretazione non ci porti alla verità, ma è un esercizio che ci salva”.