L a storia del cinema è attraversata da numerosi tentativi di evasione dalla grammatica del linguaggio cinematografico che, come fa notare Holly Rogers, stabiliscono un rapporto non gerarchico tra immagine e suono, posizionandosi in una zona liminale tra cultura pop e avanguardia, musica e rumore, sincronia e dissonanza. Precedenti significativi si ritrovano in diverse pratiche cinematografiche che comprendono senza dubbio le avanguardie, il cinema indipendente e sperimentale, ma anche un certo cinema narrativo d’autore. In generale, se è vero che l’asincronismo, la dislocazione e la deformazione della voce sono strategie di relativizzazione della parola molto più frequenti di quanto ci si possa aspettare, la rottura del presunto naturalismo del suono diventa quasi la norma nelle cinematografie che si muovono fuori dallo stile narrativo. È risaputo, infatti, che la coerenza dei discorsi, l’unità testuale, la coesione narrativa, la sincronia e la stessa intelligibilità delle parole, esulano dagli interessi delle pratiche filmiche che stanno a margine dello stile narrativo.
Anacronismi audiovisivi, qui intesi quale vero e proprio metodo critico, istanza di uno spazio-tempo queer, che fa un nodo alla linea della storia e strozza lo sviluppo narrativo.
Per Juan A. Suarez l’estetica queer articola il rapporto tra immagine e suono in maniera inaspettata, a partire dalle prime avanguardie e con significative emergenze negli anni Quaranta e Cinquanta, quando le sottoculture artistiche e sessuali convergono. L’autore si concentra sui cineasti queer che enfatizzano il suono in maniera conflittuale, influenzati dalla musica punk, tanto quanto dalla militanza politica e dalle battaglie culturali degli anni Ottanta. Qui, l’inserimento di materiali acustici eterogenei e la separazione tra suono e immagine, hanno una funzione antisutura che non solo disgrega l’unità testuale, ma mina l’associazione del suono con il sesso, aprendo nuovi orizzonti di senso che disattendono le aspettative su un presunto genere della voce. Questi funzionano come anacronismi audiovisivi, qui intesi quale vero e proprio metodo critico, istanza di uno spazio-tempo queer, che fa un nodo alla linea della storia e strozza lo sviluppo narrativo consono a prodotti, per dirla con King, “in cui predomina il maschio occidentale spinto all’azione per raggiungere un particolare obiettivo”. Il tempo queer è il tempo beckettiano dell’inerzia anti-efficientista e naturale delle “emotional responses”, che conduce fuori dalle logiche (ri)produttive della famiglia e dell’accumulazione del capitale. La temporalità queer non si iscrive in una durata lineare direttamente rivolta all’avvenire, bensì in una temporalità storta e stramba, in cui interruzioni e curvature si alternano a ritorni inaspettati, e l’attesa ottimistica dell’utopia può paradossalmente coincidere con la constatazione depressiva del fallimento. Tuttavia, il dato imprescindibile che accomuna le teorie queer negative e antisociali a quelle utopiche, è il détournement ironico che dà conto (e si articola all’interno) di una dimensione spazio-temporale strana, fatta di dislocazioni continue – un approccio solo in parte mutuato dal gioco postmoderno del pastiche degli anni Novanta, e che si apre a più ampie istanze sociali.
Nel film sperimentale queer, il camp nasce più spesso dal mash-up di tracce sonore preesistenti: partiture di film e vari tipi di musica pop, scelti, oltre che per l’immaginario erotico, anche per i loro eccessi vocali o strumentali.
Le strategie che rispondono a questo movimento sono, per Suarez, camp, rumore e dissonanza. Se il rumore crea un disturbo nella progressione audiovisiva opacizzando la narrazione in senso sia testuale sia fenomenologico, la dissonanza genera una vera e propria rottura al suo interno, mentre il camp realizza, attraverso un eccesso di musicalità e di teatralità, fra il criptico e l’ironico, una discordanza tra canto e immagine. Per lo più applicato al linguaggio e alle immagini, il gesto camp può anche essere veicolato dalla musica, dal suono, e da certe inflessioni della voce. Le voci camp sono solitamente alterate e si fondono con suoni sintetizzati o strumentali, “delayed, looped and distorted” o con rumori che generano “moments of rupture and disorientation”, o comunicano effetti violenti e traumatici. Nel film sperimentale queer, il camp nasce più spesso dal mash-up di tracce sonore preesistenti: partiture di film e vari tipi di musica pop, scelti, oltre che per l’immaginario erotico, anche per i loro eccessi vocali o strumentali. La presenza della voce, inoltre, sembra portare sempre a una sorta di defamiliarizzazione che disattende le aspettative circa il rapporto tra suono e immagine. Ma la cosa interessante è che essa mantiene una funzione centrale in tutte e tre le strategie – attenzione, non nel senso del voco-centrismo chioniano, ma come controparte dialettica della dissonanza e del rumore. Mentre il rumore ambientale, una presenza costante nel film sperimentale, è spesso usato per coprire le voci, ma anche quando ciò non accade, queste tendono a separarsi dal significato, trattate esse stesse come un’ulteriore forma di rumore. La dissonanza, infine, può aver luogo attraverso la manipolazione ironica di brani preesistenti con un approccio asincronico e/o intertestuale.
Sono queste, diverse forme di distorsione e dislocazione o, se si preferisce, di queerizzazione – del suono e della voce, fra cui si può annoverare anche l’allungamento sonoro (sonic elongation), una categoria che Holly Rogers riprende da Pierre Schaeffer per spiegare l’uso di suoni apparentemente normali che eccedono inaspettatamente lo spazio dell’immagine, facendo leva sull’asincronia e guadagnando una propria autonomia. Si tratta di una sorta di stretching del suono che entra in una partitura di altri suoni separati dalla loro fonte e astratti dal contesto originario, proprio come nelle pratiche della musique concrète.
Lo studioso ipotizza quasi una sorta di animismo, una forma di azione che risuona dalla materia e dalle cose piuttosto che dalla coscienza dei soggetti umani.
Tutte queste strategie stanno spesso tra loro in un rapporto di competizione e integrazione, in cui alta e bassa leggibilità si alternano o interagiscono con risultati decisamente stranianti: fra la teatralità e la riconoscibilità del gesto camp e l’opacità (testuale e fenomenologica) del rumore. Suarez vi attribuisce una funzione nominale, enunciativa e agentiva. In realtà, più che nominale o aggettivale, la funzione della voce dovrebbe essere considerata di tipo predicativo: in virtù del suo statuto liminale tra oralità e vocalità, essa attraversa il film come una corrente interna, generando una prosopopea continua dove le partizioni/differenze possono sgretolarsi da un momento all’altro, finanche quella tra umano e non-umano. Lo studioso ipotizza quasi una sorta di animismo, una forma di azione che risuona dalla materia e dalle cose piuttosto che dalla coscienza dei soggetti umani. Non si tratta, dunque, di individuare la queerness nelle qualità intrinseche della voce o del suono, quanto di seguirne la dislocazione e gli effetti performativi.
Con un uso decisamente straniante del sound design il cinema di Apichatpong Weerasethakul offre numerosi esempi di anacronismi audiovisivi e di auralità queer declinata in senso animista. L’autore fa del disturbo, della dislocazione e della distorsione delle voci, non solo elementi di (de)strutturazione del testo filmico, ma spazi emotivi di articolazione dei temi a lui cari: il tempo, umano e non-umano, la memoria e il rapporto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Pur rivolgendosi a un pubblico globale, il regista attinge all’immaginario locale e ai topoi della tradizione orale thailandese, e i corpi cui dà voce sono innanzitutto quelli di soggettività poste ai margini del discorso pubblico e in cerca di uno spazio di rappresentazione politica – minoranze etniche, donne, bambini, anziani, persone disabili o malate, coppie gay, lavoratori migranti.
Il primo film di Weerasethakul, Mysterious Objects at Noon (1998), ad esempio, vede la troupe spostarsi in diversi luoghi e villaggi thailandesi chiedendo alle persone con cui entra in contatto di continuare una storia iniziata da altri secondo la tecnica surrealista del cadavre exquis. Ne deriva un racconto corale con tanto di mise en abyme interna, come nella scena in cui, accompagnata dalla musica, una donna assume il ruolo di cantastorie, mentre gli altri interpreti improvvisano una performance teatrale. Il documentario è un assemblage di vite, registri e modi, compresi quelli narrativo-esplicativi dell’early cinema, e fa un uso esteso degli intertitoli e della voce di commento, che passa di continuo dall’essere acusmatica a visibile. In primo piano non v’è tanto la verosimiglianza della storia, o la plausibilità della sua logica interna, ma il gesto stesso del narrare come fatto socio-culturale, che nell’evento audiovisivo istituisce una comunità viaggiante di voci, bianche, giovani o mature, coprendo così un ampio spettro di toni, timbri e colori.
Non solo il suono è amplificato e invade lo schermo occupando lo spazio dell’immagine in maniera tangibile, ma il gesto vocale si frantuma o sfuma al suo interno, tanto che le parole restano in alcuni casi appena accennate o inintelligibili.
In generale, nei film di Weerasethakul, il sonoro ha una qualità estremamente varia e infra-epidermica più che aptica, capace di connettere il mindscape, i suoni interiori, ricordati o anche solo immaginati, con quelli ambientali, spesso frutto di fenomeni atmosferici estremi, di origine naturale e/o soprannaturale. Non solo il suono è amplificato e invade lo schermo occupando lo spazio dell’immagine in maniera tangibile – si pensi allo scrosciare delle piogge tropicali, vera e propria marca stilistica dell’autore –, ma il gesto vocale si frantuma o sfuma al suo interno, tanto che le parole restano in alcuni casi appena accennate o inintelligibili – spesso anche per la difficoltà tecnica di registrare una lingua come quella thailandese caratterizzata da sonorità molto piatte.
La canzone in questione è voce pura del paesaggio, una texture polifonica composta dallo stormire ininterrotto delle foglie, dal frinire dei grilli e delle cicale, dal richiamo degli uccelli notturni, da versi orrorifici e voci distorte, e da innumerevoli altri suoni.
Presenza costante nei film di Weerasethakul, sono le voci dell’aldilà, parte di una variegata fonosfera inframondana. Si pensi, ad esempio, a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010) e, nello specifico, alle apparizioni metafoniche di Huay (N. Aphaiwong), defunta moglie di Boonmee, e di suo figlio Boonsong (G. Kulhong), tornato con le sembianze di una scimmia antropomorfa. Se qui le voci dei morti si posizionano in primo piano, e suonano chiare, distinte, fluenti e perfettamente intelligibili (quasi più corporee dei corpi ridotti a presenze fantasmatiche), delle voci dei vivi, sul punto di separarsi dal corpo o già spettrali, spesso non rimane che una flebile traccia. Si pensi al finale di Tropical Malady (2004): immerso nella penombra della foresta, il soldato Tong (S. Kaewbuadee), con voce sottile, quasi un sussurro, si rivolge allo spirito dello sciamano con le sembianze di una tigre sul punto di divorare la sua anima: “Ti ho dato il mio spirito, la mia carne e i miei ricordi. […] canta la nostra canzone. Una canzone di felicità. Eccola… La senti?”. La canzone in questione è voce pura del paesaggio, una texture polifonica composta dallo stormire ininterrotto delle foglie, dal frinire dei grilli e delle cicale, dal richiamo degli uccelli notturni, da versi orrorifici e voci distorte, e da innumerevoli altri suoni per i quali non disponiamo di parole a sufficienza. Il film è pieno di ricercate imperfezioni, e alterna un tappeto sonoro volutamente soporifero a momenti di intenso straniamento acustico, come quando un brano pop arriva a chiosare il rito osceno e impietoso della foto di gruppo con cadavere.
In altri casi, la voce rimane del tutto senza corpo, come in Ashes (2012), una malinconica rêverie diurna, dove da una texture continua di rumori, musica, versi e piccoli silenzi, emerge un acousmêtre (l’autore stesso o un suo alter ego?) che esprime lo sforzo dell’esperienza creativa e le difficoltà della mise-en-image. È questo un caso di sonic elongation: qui i suoni sembrano inizialmente generati dalla grana stessa dell’immagine (il film è girato con una Lomokino) e dai tagli del montaggio che pare farsi sotto i nostri occhi, ma acquista un’autonomia tale da creare una sorta di paesaggio parallelo che trascina oltre lo spazio dell’immagine.
È una multi-temporalità anacronistica e queer che si traduce nella dilatazione del tempo filmico, dove la voce oscilla tra presenza e assenza, andando ben oltre la funzione cui è chiamata ad assolvere all’interno dei dialoghi.
In maniera più esplicita rispetto ai precedenti citati, il film Məmorıa (2022), articola il rapporto e la permeabilità tra la dimensione pubblica e privata del ricordo, micro- e macro-storia, innanzitutto sul piano sonoro. Il sound designer e collaboratore di lunga data dell’autore, Akritchalerm Kalayanamitra, afferma che l’impianto narrativo è stato modellato attorno al caratteristico bang che perseguita la mente di Jessica (T. Swinton), una sensazione sonora più che un suono reale. Affetta dalla cosiddetta exploding head syndrome, la donna cade in una sorta di afasia, incapace di razionalizzare e verbalizzare le sue allucinazioni uditive – una difficoltà esasperata dal fatto di doversi esprimere in una lingua straniera – e resta inerme, quasi ammutolita dall’embodiment di un passato atavico e di un futuro altrettanto remoto che investono il suo corpo, utilizzandolo come medium epifanico: “the actor becomes the vessel, a microphone”. È questa una multi-temporalità, anacronistica e queer, che si traduce nella dilatazione del tempo filmico, oltre che in una struttura narrativa non lineare e a trame larghe, dove la voce oscilla tra presenza e assenza, andando ben oltre la funzione cui è chiamata ad assolvere all’interno dei dialoghi.
È proprio nel limite tra uno stato di latenza e uno di presenza, che la voce conserva il suo potenziale effetto straniante. In un movimento continuo che la emancipa dalle richieste della sincronizzazione, la phoné va incontro a una sorta di diffrazione, si deforma o attraversa gli interstizi fra l’immagine e il suono. Camuffandosi o andando a occupare gli inter-luoghi dell’over e dell’off, aggira gli ostacoli della sutura e inquieta il corpo del film e quello dello spettatore come una ferita, concrezione interna o esoscheletro.
Un estratto da La voce in transizione (Mimesis, 2023) di Annalisa Pellino.