

A ccanto al Centro visitatori dell’Apple Park di Cupertino in California ‒ questo immenso anello di quattro piani disegnato da Norman Foster per ospitare più di dodicimila dipendenti ‒ c’è un uliveto. Nel 2023, l’artista Katie Paterson e gli architetti Zeller & Moye vi hanno collocato Mirage, un’opera d’arte composta da quattrocento colonne di vetro che misurano due metri di altezza e che attraversano sinuosamente l’intero uliveto. Per realizzare le colonne è stata raccolta sabbia da ogni deserto del pianeta, sviluppando una serie di tecniche volte a tradurre le qualità di sabbia in colori e texture diverse; in questo modo, “i deserti del mondo” sono stati “trasformati in materiale liquido, che fluisce come una duna modellata dal vento”. Con un’opera d’arte, Apple localizza, nel proprio quartier generale, un vero e proprio deserto liquido, una sabbia del mondo che è in tutti luoghi senza essere in nessuno in particolare. Osservare la luce che filtra attraverso le colonne, dichiarano gli ideatori di Mirage, è “una forma di meditazione”. In Mirage c’è già molto: tecnologia e architettura fluida, deserto e pratica d’estasi; come scriveva Baudrillard a proposito della California: “la cultura stessa, laggiù, è un deserto ‒ e occorre che la cultura sia un deserto perché le cose siano tutte uguali e risplendano nella stessa forma soprannaturale”. Ma dove ci troviamo esattamente quando parliamo di Cupertino?
Prima di diventare la città della Apple, Cupertino è stata gemellata con un’altra mitologia: quello di san Giuseppe da Copertino. Fu il francescano fra Pedro Font a battezzare “Arroyo de San José de Cupertino” il corso d’acqua lungo il quale sarebbe sorto poi il piccolo villaggio rurale, adagiato sul bordo occidentale della Santa Clara Valley in California; era il 1776, appena dieci anni dopo la canonizzazione del “santo che volava”, avvenuta sotto il pontificato di Clemente XIII. Pedro Font stava accompagnando, in qualità di cartografo, la spedizione di Juan Bautista de Anza, un esploratore spagnolo che fu governatore della provincia del New Mexico e che avviò la colonizzazione europea dell’alta California. Tuttavia, per molto tempo Cupertino è stata conosciuta con un altro nome: West Side. Si trattava di un territorio dominato da piantagioni di prugne, susine, albicocche, ciliegie, solcato ‒ appena è stato possibile ‒ da ferrovie, il cui impatto ha inevitabilmente accelerato la rimodellazione del tessuto urbano. È però solo in seguito alla Seconda guerra mondiale che la Santa Clara Valley, complice anche il boom demografico, si avvia a diventare, da “Valley of heart’s delight” (un Eden di frutteti e piante) a “Silicon Valley”, il motore pulsante dell’innovazione tecnologica americana. Cupertino, con la sua “mela”, ne è ‒ almeno dagli anni Ottanta ‒ un simbolo, con caratteristiche ugualmente edeniche.
Cosa è rimasto di quell’origine francescana risalente a fra Pedro Font? Nel 1963 è stato istituito un gemellaggio tra il borgo pugliese e la città californiana, voluto dal sindaco Jewett di Cupertino e da Fernando Verdesca, allora sindaco di Copertino. Il legame con il luogo di nascita del santo “volante” è in ogni caso ben più che nominale. Here’s to the crazy ones: l’Apple Park, con la sua struttura circolare e l’area immediatamente circostante, rappresenta il sogno di una tecnologia che s’invola, che levita sopra il mondo; una spaceship (questo il suo soprannome) alimentata dal sole, un tempio laico che circonda un bosco di 9.000 alberi resistenti alla siccità, con 309 varietà di specie autoctone ‒ come in un altro giardino dell’Eden riconquistato, e insieme “a garden of pure ideology”. Un luogo di lavoro imbevuto di magia, un regno artificiale che, come moltissimi altri quartieri generali della Silicon Valley, si adatta a quella strabiliante osservazione che all’inizio del Diciassettesimo secolo Martín González de Cellorigo, figura di spicco nella Spagna dell’epoca, volle rivolgere alla febbre di miracoli e santi che aveva invaso l’Europa cattolica: “sembra come se si fosse voluto ridurre quei regni a una repubblica di esseri incantati, che vivono al di fuori dell’ordine naturale delle cose”.
Torneremo presto a questa affermazione, e a quella che Brett T. Robinson chiama Appletopia: l’immaginazione religiosa di Steve Jobs. Per ora però dobbiamo inseguire il volo di San Giuseppe ‒ la sua tecnologia dell’estasi ‒ per vedere cosa può ancora dirci sulla nostra contemporaneità.
Ma i santi volavano davvero?
Il primo pioniere del volo umano, Jean-François Pilâtre de Rozier, si avventurò nel cielo di Parigi su di un pallone ad aria calda progettato dai fratelli Montgolfier, partito da Château de la Muette. Un mese prima, il volo in “mongolfiera” era stato testato alla Reggia di Versailles da un equipaggio composto da un gallo, un agnello e un’anatra, lontani parenti del cane Laika, dichiarati, a seguito del volo, “eroi dell’aria”. Siamo nell’ottobre 1783, quasi vent’anni dopo la canonizzazione di San Giuseppe da Copertino, il santo che levitava. Per confermare questa santità c’era voluto più di un secolo: la morte era avvenuta nel 1663, e molto nel frattempo era cambiato; il volo di Pilâtre de Rozier marca, infatti, un altro tipo di levitazione, “ancorata” a solide basi scientifiche, che inaugura quell’umana conquista del cielo che dall’epoca dei Lumi arriva fino al cosmismo contemporaneo di Elon Musk. Sciaguratamente, Pilâtre de Rozier sarà ricordato anche come la prima vittima documentata di un incidente aereo; egli morì tentando di traversare in mongolfiera la Manica verso l’Inghilterra insieme a Pierre-Ange Romain, il 15 giugno 1785.
Pensare che una scienza del volo avesse interamente sostituito tutti i suoi precedenti è però errato: più o meno nello stesso periodo della mongolfiera, un altro congegno, una sedia a rotelle, viene vista sollevarsi in aria; la causa non è dovuta a un meccanismo progettato da un essere umano, ma a una tecnologia dell’estasi: a levitare con la sedia è infatti il vescovo italiano Alfonso Maria de Liguori, oramai molto anziano e provato da numerose malattie. Il racconto oculare proviene dal suo custode, padre Volpicelli; non è la prima volta che questo eminente teologo, compositore e pensatore viene visto levitare: da tempo de Liguori ha la nomea dell’uomo miracoloso, e verrà infatti proclamato santo da papa Gregorio XVI, dopo un lungo processo di scrutinio. “Succedeva questo all’alba della modernità” scrive Carlos Eire in They flew (2023), ovvero che “due tipi molto diversi di levitazione si trovavano a coesistere”. Da un lato,
una levitazione soprannaturale o preternaturale, raramente osservata e limitata a persone che si abbandonavano alla volontà di Dio o del diavolo; dall’altro, una levitazione puramente naturale, facilmente visibile a migliaia di persone e accessibile a chiunque avesse l’attrezzatura adeguata. Queste due forme di levitazione si basavano su concezioni della realtà contrastanti e apparentemente inconciliabili riguardo a ciò che era ritenuto possibile o impossibile. Erano anche radicate in diversi sistemi di credenze: uno più antico, che includeva Dio, un regno soprannaturale e santi levitanti, e che col tempo andava restringendosi e perdendo influenza; e uno più recente, che aveva poco o nessun bisogno di Dio, del soprannaturale o dei miracoli, e che continuava a espandersi, acquisendo un’influenza sempre più ampia.
Il saggio di Carlos Eire, professore di storia e studi religiosi all’Università di Yale, è una lunga ponderazione sul fenomeno dei santi che volavano, o che erano visti contemporaneamente in due luoghi diversi (bilocazione). Il titolo, “Loro volavano”, lascia intuire già da subito lo spirito del libro, teso a provocare non l’ingenua credulità dei fedeli, ma l’incredulità contemporanea come partito preso. Eire invoca una “sospensione” dell’incredulità, invitando a domandarci come mai, nonostante la quantità gigantesca di prove, processi e testimonianze raccolte durante i secoli, i santi volanti sono stati relegati “alla storia del ridicolo anziché alla storia dell’impossibile, o alla scienza delle forze antigravitazionali”. La vicenda travagliata di Giuseppe Desa, santo “illetterato et idiota” nato a Copertino nel 1603, è emblematica; sospeso per tutta l’esistenza in una zona liminale tra la vergogna e il prodigio, “Frate Asino” è stato il santo con più levitazioni documentate, non solo al chiuso, ma anche all’aperto, in luoghi in cui difficilmente si potevano operare trucchi. Come Teresa d’Avila prima di lui, anche Giuseppe pregò incessantemente affinché gli attacchi estatici cessassero, senza tuttavia ottenere mai che le sue preghiere fossero esaudite. Più volte inquisito, messo sotto processo, spedito da un convento all’altro, venerato in vita come un santo da folle adoranti e insieme disprezzato da chi ne temeva la carica sovversiva ‒ la soppressione esplicita dell’ordine naturale ‒, san Giuseppe da Copertino fu visto volare da religiosi e laici, uomini del popolo e figure regali, nonostante vivesse in isolamento per tutta l’ultima parte della vita. “Alti prelati e nobili da ogni angolo d’Europa” racconta Eire, “fecero il possibile per visitarlo e testimoniarono di aver visto le sue levitazioni di persona o supplicarono invano per il privilegio di visitarlo. Alcuni di questi personaggi appartenevano all’élite intellettuale del cosiddetto Secolo dei Lumi, come il duca luterano Giovanni Federico di Braunschweig-Lüneburg, patrono del razionalissimo matematico e filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz, suo consigliere privato e bibliotecario, e la regina luterana Cristina di Svezia, che impiegò il matematico René Descartes come filosofo di corte, probabilmente perché sosteneva che “tutto deve essere messo in dubbio”.
La vicenda travagliata di Giuseppe Desa, santo “illetterato et idiota” nato a Copertino nel 1603, è emblematica; sospeso per tutta l’esistenza in una zona liminale tra la vergogna e il prodigio, “Frate Asino” è stato il santo con più levitazioni documentate.
Oltre alle questioni politiche, il volo di Frate Asino ‒ così come quello di moltissime altre figure del periodo, sia santi che streghe ‒ intercettava anche i nuovi scenari della scienza empirica, violando quelle stesse leggi che si andavano progressivamente manifestando:
Proprio nello stesso periodo in cui i cattolici canonizzavano santi levitanti e bruciavano streghe volanti, e i protestanti erano impegnati a gettare nelle fiamme anch’essi migliaia di streghe volanti, la scienza empirica moderna stava emergendo e creando dei propri cambiamenti di paradigma. Per qualche strana ragione, quindi, il periodo di massima diffusione degli esseri umani volanti nella storia occidentale coincide con lo sviluppo iniziale di un nuovo modo materialistico di pensare la realtà, che avrebbe respinto tutto questo “volare” come un nonsenso assolutamente impossibile.
Eppure, è proprio in questa specie di “nozze mistiche” tra dichiarate impossibilità che si delinea il paesaggio dell’epoca contemporanea: non una rottura con il passato, ma un suo irrompere ora con camuffamenti, ora con richiami espliciti. Leggerezza, sospensione, estasi, velocità, bilocazione come presenza in più luoghi contemporaneamente: sono diventate tutte formule a noi più che note, dove s’incontrano insieme il volo di san Giuseppe e la forza di gravità di Isaac Newton, con i suoi miti e le sue mele: Apple, insomma. Siamo di nuovo a Cupertino, anche se la tortuosità di queste genealogie spesso sovrasta la nostra capacità di leggere insieme fenomeni in apparenza disgiunti: “perché abbiamo treni a levitazione magnetica ad alta velocità, ma sentiamo il bisogno di mettere in dubbio tutti i resoconti su santi o streghe fluttuanti? Come possono milioni di noi essere in più luoghi contemporaneamente tramite internet, giorno dopo giorno, ma sentire ancora il bisogno di deridere la bilocazione?” chiede sempre Eire, invitando a considerare che ogni epoca ha il suo regime di credulità ‒ e d’incredibile.
Tanto nel Castello interiore quanto nella Vita, Teresa d’Avila spese moltissime pagine per descrivere dall’interno i propri fenomeni estatici, spiegandone per come possibile il funzionamento, la tecnologia, la fabula mistica, ciò che fa abbattere il linguaggio contro il limite della significazione: arrobamiento, arrebatamiento, vuelo de espiritu. I suoi voli, le sue estasi, le condizioni di quasi-morte sono stati analizzati, contestati e scrutinati con criteri spesso severissimi non solo dalla Chiesa, ma anche dalla stessa santa. La credulità, sembrano dirci queste vecchie storie, è una questione assai più complessa, che va situata di volta in volta nel suo contesto. Per esempio, la maggioranza delle persone confida oggi nei dispositivi tecnologici ignorandone quasi completamente il funzionamento, e anzi tutta una parte della loro efficacia immaginativa è determinata proprio dal sostrato magico-religioso che veicolano, come dichiarato apertamente in una pubblicità dell’IPad: “crediamo che la tecnologia dia il meglio di sé quando è invisibile, quando sei consapevole solo di ciò che stai facendo, non del dispositivo con cui lo stai facendo. Un iPad è la perfetta espressione di questa idea. È semplicemente questo magico pannello di vetro che può diventare qualsiasi cosa tu voglia”. Il tablet è forse soltanto un’altra impressione del “Mystic writing-pad”, il “Wunderblock” (Blocco magico) tanto amato da Freud come metafora della mente umana: una tavoletta magica che riappare in forme continuamente rinnovate, dalle tabulae ceratae all’iPad ‒ che infesta cioè la nostra cultura anche quando le sue tracce nella memoria collettiva sembrano cancellate.
Magia, superstizione, credulità, macchine mitologiche… Passando oltre il ridicolo, la domanda veramente interessante dovrebbe essere: che cosa, della tecnologia estatica, ci appartiene ancora, si trattiene in noi anche se facciamo fatica a riconoscerla, o se la riteniamo datata, o offensiva? Elvio Fachinelli, parlando della Mente estatica (1989), metteva in luce un fenomeno decisivo: con il declino della religione come patto interpretativo del mondo, si verifica una dinamica duplice. Da una parte, l’estasi viene relegata all’oblio, trascinando con sé i vari contesti che un tempo le davano senso. Dall’altra, essa si svincola dal tradizionale alveo religioso, riemergendo in spazi inaspettati e assumendo configurazioni nuove e imprevedibili. “L’accelerazione crescente” scriveva Fachinelli nella seconda metà del secolo scorso, “porta, per paradosso, al crearsi di stati che finora sono stati legati perlopiù all’immobilità e alla concentrazione individuale più intensa. Certo, si dirà queste esperienze su larga scala non sono paragonabili a quelle individuali. Non è questo che importa; importa quella faglia che si è aperta, grazie alla velocità crescente, nella vita quotidiana della massa (e se è vero che nessuno di noi è massa, tutti lo siamo)”.
La maggioranza delle persone confida oggi nei dispositivi tecnologici ignorandone quasi completamente il funzionamento, e anzi tutta una parte della loro efficacia immaginativa è determinata proprio dal sostrato magico-religioso che veicolano.
Il fenomeno più inquietante è l’emergere di una meta-trance: uno stato alterato di coscienza che include la consapevolezza della propria natura artificiale. A differenza della trance tradizionale che richiedeva la sospensione dell’incredulità, la meta-trance opera precisamente attraverso la nostra consapevolezza della sua artificialità. Sappiamo che stiamo interagendo con una macchina, sappiamo che le sue risposte sono generate, eppure questo non spezza la trance ‒ la approfondisce. È come se l’IA avesse scoperto una forma di ipnosi che funziona non nonostante ma attraverso il nostro scetticismo.
Santi con l’iPod
Dalla donna in corsa col martello che libera il pubblico dallo stato ipnotico in cui è gettato, esempio di pubblicità “gnostica” par excellence (datato non a caso 1984) fino all’iPad presentato come tavoletta magica, il rapporto di Apple con la pubblicità è sempre stato marcato da un tono religioso. Anzi, potremmo addirittura dire che nell’universo concettuale di Steve Jobs la pubblicità agisce come la segnatura che porta in evidenza, in un oggetto secolarizzato, la sua dimensione sacrale ‒ ciò che emancipa il quotidiano dalla sua profanità. Prendiamo l’arcinota campagna dell’iPod nel 2001: un tableau liturgico di corpi astratti, dissolti nell’incandescenza del ritmo; le silhouette danzanti sono ombre metafisiche, che vengono meno al loro nome proprio per incarnare un’energia anonima, un fervore cinetico che pulsa al confine tra il rituale e il miraggio. “Indossando gli auricolari bianchi e canalizzando gli dèi della musica” scrive Brett T. Robinson in Appletopia, “l’ascoltatore dell’iPod si inizia a un culto mobile, privato, anonimo, ormai assurto a universalità nella liturgia digitale”.
Le cuffie bianche, quei fragili e luminosi filamenti che emergono dall’abisso monocromatico degli spot, sono fili elettrici di una spiritualità sintetica. Apple veicola una promessa di palingenesi, una riemersione dalla banalità del quotidiano sotto forma di rinascita a portata di mano e d’orecchio. Il fondale, superficie dove tutto il superfluo è tagliato fuori, richiama una grammatica visuale d’ascesi. Non c’è distrazione, solo il ritmo, lo spazio e la silhouette: una tridimensionalità che implode in un vuoto contemplativo pubblicizzabile come architettura della meditazione. I ballerini, officianti del ritmo, manifestano nei loro gesti l’energia numinosa che li attraversa. Qui ciò che è coreografato è l’epifania tascabile dell’estasi, nel momento stesso in cui si offre a tutti il suo facile accesso. Il design si rivela così metafisica concreta: “per molti utenti dell’iPod” scrive ancora Brett T. Robinson, “il dispositivo ha acquisito uno status sacro”. L’iPod è stato definito
un “oggetto di devozione” che ha ispirato un “culto dell’iPod”. I proprietari di iPod commentano la capacità del dispositivo di farli sentire “cosmicamente connessi” alla loro musica e di rendere il loro ambiente più “spirituale e sacro.” […] La campagna pubblicitaria sui cartelloni è stata realizzata in centri urbani alla moda come Parigi, Berlino, New York, Amsterdam, Los Angeles e Montreal. Gli spettacoli torreggianti rappresentavano una netta rottura, non solo per Apple, ma anche per la pubblicità esterna in generale. Più che un’altra volgare tela del consumismo, le pubblicità dell’iPod sembravano opere d’arte installativa. Erano le vetrate delle cattedrali urbane. […] Le pubblicità lavorano miticamente evocando un’immagine di esperienza estatica, immergendola in una luce preternaturale e assegnando all’iPod il ruolo di oggetto sacramentale.
L’iconografia della Apple non invoca questi meccanismi solo a un certo punto del suo percorso, come armi strategiche; fin dall’inizio, Steve Jobs ha deliberatamente fatto riferimento a una volontà di rivelare la materia spirituale di un’industria che prima di lui era considerata perlopiù fredda, disincantata, volontariamente atea (i computer come pesante lascito della Seconda guerra mondiale). I suoi dispositivi, lucidi e minimali, sono vettori di illuminazione. Ogni keynote diventa un sermone, ogni prodotto un’icona, ogni utente un adepto di fronte alla luminosità dello schermo. In una forma sincretica che mescola cristianesimo, sciamanesimo psichedelico e buddismo zen, la Apple di Jobs trattiene moltissimo dell’universo religioso, inclusa la sua carica redentiva, che rivolta contro la visiona catastrofica di una tecnologia come cancellazione dell’essere umano: “la paradossale attrazione dell’iconografia Apple è la sua capacità di identificare le tensioni sociali provocate da un uso crescente della tecnologia, offrendo al contempo una redenzione dalle sue conseguenze più pessimistiche” (Appletopia). Ciò che di tale carica è sempre all’opera è forse, più ancora che la salvezza dell’industria tecnologica, la redenzione del mondo dalla sua profanità: emancipandolo dalla caduta del quotidiano, Apple fa della santificazione della realtà il suo compito permanente. Si dirà che questa santificazione è satanica, uno scadimento temibile e allucinato che corrompe la concezione stessa del sacro. E tuttavia, essa agisce. In questo momento, serve a poco indugiare ulteriormente in una critica allo scadimento della “tradizione” ‒ alla sua commercializzazione. L’episteme che abitiamo non ci permette di pensare a stanche rivolte contro il mondo moderno in forme di ritorno allo spirito tradizionale. Lo spirito è già qui. Élemire Zòlla, in quel libro sublime e nefasto che era Che cos’è la tradizione (1971) incominciava a dire che la liturgia è diventata diritto, danza, canto, edilizia e arredamenti profani, “nei quali si coglie un’eco più o meno fievole dell’origine”. Dell’origine non sappiamo che farcene: ci rimane l’eco, che oggi è diventano un boato, in corsa attraverso l’intero pianeta.
La santificazione della realtà
Una grande parte dell’opera di Pavel Florenskij, il filosofo, matematico e presbitero russo fatto fucilare dal regime sovietico nel 1937, si muove attorno all’idea del culto come dimensione centrale dell’attività umana; egli prende a dimostrazione ‒ a metafisica concreta ‒ i riti della Chiesa orientale per tracciare il rapporto tra culto, religione e cultura. Nella sua visione, coesistono nell’uomo un’attività teorica che crea i concetti-termini (notiones), una pratica che forma strumenti-macchine (instrumenta), e una liturgica, volta alla produzione di cose sante (sacra), che possono essere sia azioni che parole, reliquie, riti e sacramenti. Per Florenskij, nell’attività liturgica risiede il cuore dell’attività dell’essere umano, e la filosofia è sempre Filosofia del culto. Invertendo la logica che fa precedere tanto l’attività dell’intelletto quanto l’attività produttiva-economica, Florenskij pensa al culto come la scaturigine di tutto resto, e approda così a una forma di idealismo concreto, una teoria sacrale nella quale “tutta l’esistenza è determinata da una specie di rituale, incarnato nella religione”. Dalla scissione progressiva del culto nascono senso e cosa, cultura, tecnica e scienza. Ogni concetto del mondo, per quanto secolarizzato, continua a intrattenersi nel culto, che costituisce il suo fondamento. Tempo e spazio derivano da esso: “il mondo è nel culto e non il culto nel mondo”.
Fin dall’inizio, Steve Jobs ha deliberatamente fatto riferimento a una volontà di rivelare la materia spirituale di un’industria che prima di lui era considerata perlopiù fredda, disincantata, volontariamente atea.
Come l’edera rampicante si avvita attorno all’albero, così il mito avvolge le cose sacre. E come l’edera con i suoi viticci s’avviluppa tutt’intorno al fusto, per poi seccarlo e soffocarlo prendendone il posto, così il mito, ricoprendo di sé il sacro, lo cela e lo distrugge. Il mito rende mediata la ricezione del sacro, che di conseguenza perde la vitalità che gli è propria, perde il suo significato, essendosi separato da esso e avendolo oggettivato nel mito. Sotto il mito che lo soffoca e lo stringe crescendo dappertutto, il sacro si riduce in polvere e muore, distruggendo con sé anche il mito che viene a mancare della fonte della sua esistenza (Filosofia del culto).
L’emancipazione algoritmica dalla profanità produce una redenzione del quotidiano, non solo nel suo orientamento percettivo (l’estasi permanente triggerata dai dispositivi abitati, gli occhiali magici che rivelano la “natura” illusoria della realtà), ma anche nella materia stessa ‒ nella concretezza degli oggetti che maneggiamo. Gli strumento del culto si distinguono dagli altri strumenti per la loro alterità; così la nube dei dati, il flusso invisibile dell’ipnocrazia attraversa ogni materia, e nel farlo, disloca e trasfigura l’oggetto dal suo uso quotidiano, trasformandolo in un trasmettitore spirituale connesso agli altri nell’“Internet of Things”. In questo movimento, l’intero mondo è suscettibile di santificazione ‒ l’intero mondo diventa un dispositivo connesso e alterato. In una canzonatura tanto cupa quanto trionfale, oggi assistiamo ovunque a ciò che Florenskij attribuiva specificatamente al culto:
Nel culto è santificata tutta la natura, in tutte le sue manifestazioni e direzioni, in tutti i suoi aspetti e dimensioni. […] Laddove la vita si orienta sul culto, allorché nel culto essa si ricristallizza, tutto ciò che è microcosmico si fa macrocosmico, e tutto ciò che è macrocosmico si fa microcosmico. […] Non esiste aspetto della vita che non sia santificato: sacri sono i tempi, i luoghi, le cose gli oggetti e i fenomeni. […] Non esistono confini definiti di una chiesa, poiché tutta la natura è una sua ininterrotta prosecuzione.
Touching is believing
Un’altra celebre pubblicità dell’iPhone raffigurava il dispositivo sospeso in aria, dentro uno sfondo di pura neritudine. Creato ex nihilo, lo smartphone, come un’icona, diffonde luce, lasciando intravedere una mano che lo sfiora, lo accarezza, danzando le dita sopra lo schermo. La scritta che leggiamo in basso è dichiaratamente religiosa: touching is believing. L’immagine registra il movimento delle mani, le costituisce nel movimento, ricordandoci che oggi “noi non disponiamo di un’altra esperienza dell’essere che non sia l’operatività” (Giorgio Agamben). Allo stesso tempo, il movimento rende la mano trasparente, quasi diafana; così facendo, questa pubblicità esibisce apertamente il carattere antinomico con cui s’investe: mischiando eterno e temporale, trasparenza e opacità, l’iPhone si pone come un enigma, un mysterium che anima il mondo, a patto di essere animato, toccato da qualcuno. La mano e l’iPhone entrano in un rapporto d’interdipendenza in cui l’originato diventa senza origine: la tecnologia della mano subisce una dislocazione operata dallo strumento, si fa diafana di mondo, ricostituendosi come entità spirituale la cui realtà è conferita proprio dall’oggetto luminoso che tocca ‒ che domanda di essere toccato. Il punto d’origine è, allora, per-sempre-indeciso.
Affrontando questo fenomeno, il filosofo Byung-chul Han adotta la sua solita posizione critica. Egli legge, nel digitare e strisciare delle dita sullo smartphone, “un gesto quasi liturgico con effetti ponderosi sul nostro rapporto col mondo” (Le non-cose). Tale gesto implica per lui una manipolazione, un trionfare dell’aptico che rende il mondo violentemente a portata di mano. “Lo smartphon”, scrive nelle Non-cose, “fa il mondo, cioè se ne impadronisce creandolo in forma d’immagini. L’obiettivo fotografico e lo schermo diventano quindi elementi centrali dello smartphone in quanto forzano la trasformazione in immagini del mondo”. Ciò che Han nota con disappunto è però una delle qualità più interessanti della contemporaneità; lo smartphone, nel momento in cui ci spinge a pensare la realtà non più come riproduzione ma come produzione incessante, indispettisce l’idea che il mondo sia dato una volta per tutte.
Oggi, nel pieno del regime ipnocratico prodotto dalle nuove tecnologie, assistiamo però a un movimento che non si limita più al semplice proliferare di mitologie secolari, ma che, proprio attraverso la tecnica, opera una nuova santificazione della realtà per trasfigurarla.
Nell’epoca della macchina algoritmica e della IA, molto più che il fact-cheking è essenziale una dottrina che renda conto di come le immagini riescano a vincolarci ‒ lo studio quindi dei campi ipnotici, per acquisire consapevolezza.
Un mondo interamente santificato è un mondo che attua e subisce ‒ nello stesso processo ‒ una crisi radicale della distanza.
Questo mondo: l’altro
La nascita dello spazio-tempo è un testo che Furio Jesi aveva concepito come parte di un lavoro più esteso, Nuove ricerche sulle connessioni archetipiche, rimasto però allo stato di frammento. Centrale in questo testo è lo sviluppo della nozione di “distanza” nelle civiltà primitive, e la necessità di una differenziazione atta a separare il mondo umano da quello extra-umano; differenziazione che progressivamente si definisce nei termini di spazio e tempo a noi più familiari e che, per Jesi, sancisce il primo strappo tra vita e religione. Per lo storico, fino a un certo momento, religione “era stata una vita consistente nella assoluta e totale adesione alla realtà del mondo, in ogni elemento del quale era presente il divino; religione inevitabile”, in cui l’elemento volitivo ‒ il patto laico di adesione o meno alla realtà religiosa ‒ ancora non si offriva come scelta, ma derivava “dall’azione incondizionata del mondo ‘esterno’ sull’uomo”. L’affermarsi della civiltà si misura anche con l’emancipazione dall’elemento terrifico, che deve essere, per così dire, implicato in questo mondo e, insieme, tenuto a necessaria distanza nell’Altro. Esplicita Jesi, in un passaggio seminale:
Dal momento in cui il divino venne “concepito”, venne cioè inteso come la realtà di un Altro Mondo, con tutti i suoi caratteri terrifici, “influente incessantemente sul mondo e sul destino degli uomini” (Malinowski), l’adesione a cotesto Altro Mondo divenne atto volitivo, la religione fu solamente più “possibile” ma non “inevitabile” – nacque quindi l’evenienza (forse anche soltanto potenziale) di un “laicismo”. Ed ogni volta che l’elemento “divino” (questo termine viene da noi usato ora esclusivamente per indicare “ciò che appartiene all’altro mondo”) venne chiamato ad intervenire direttamente nel mondo umano, fino ad animarne ‒ e quindi snaturarne ‒ la realtà, come nelle pratiche di magia e nei fenomeni mistici, la nozione di spazio-tempo subì gravi alterazioni, non essendo più rispettata l’originaria “distanza” fra umano e divino, in funzione della quale essa era nata.
Si dà distanza dove l’atto di adesione non è più obbligato, ma volitivo; e viceversa, assistiamo a una crisi di questo paradigma quanto la realtà coincide con l’obbligazione, come nel regime dell’ipnocrazia descritto da Jianwei Xun. Che la santificazione tecnologica permanente produca una pesante alterazione, e che tale alterazione si rifletta in un attacco diretto alla nozione di spazio-tempo è evidente nelle bolle di realtà (nei diversi stati alterati di percezione) che abitiamo, e che sono contraddistinti dal loro essere out of joint. In TikTok, per esempio, il flusso verticale incolla i diversi video tra loro senza uno spazio di riflessione; con questo gesto, ogni “contenuto” è strappato da una cronologia lineare per essere ridisposto in un qui che è nient’altro che l’attimo della perenne citabilità ‒ la sua performance della redenzione. Su TikTok, cioè, avviene in maniera perversa cioè che Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, attribuiva all’umanità nel momento della redenzione: “vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una ‘citation à l’ordre du jour’ – e questo giorno è il giorno finale”. Piombiamo qui in una realtà interamente redenta, santificata, definitiva ma senza fine (ogni giorno è il giorno finale), da cui non si riesce ad allontanarsi.
La crisi della distanza ‒ ovvero la crisi di uno spazio di decoincidenza con la realtà ‒ non avviene però esclusivamente per via dei nuovi dispositivi, ma si colloca in un processo più esteso, di cui un acutissimo sociologo, Georg Simmel, più di un secolo fa iniziava a tracciare la filosofia in due opere spartiacque come La metropoli e la vita dello spirito (1903) e La filosofia del denaro (1900). Per Simmel la metropoli, con il suo fluire incessante di stimoli, opportunità, persone costrette a vivere in una prossimità mai sperimentata prima, produce un intensificamento della vita nervosa dell’individuo che comporta precise conseguenze. La prima è quella dell’essere blasé, ovvero di un’indifferenza ostentata che reagisce al sovraccarico di stimoli con una “scoloritura” percettiva; nell’atteggiamento blasé, la sensibilità rispetto alle differenze tra le cose viene ridotta, “non nel senso che queste non siano percepite ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze” (La metropoli e la vita dello spirito). La sbadataggine e l’indifferenza dell’abitante metropolitano non sono perciò un vizio di carattere o il solo risultato di un addomesticamento urbano dei sensi, ma forme di reazione all’insistita sovrabbondanza degli stimoli subiti, esattamente come la riservatezza è una difesa da quello stato di eccessiva prossimità tra “estranei” che, se assecondato con le dinamiche sociali tipiche dei piccoli paesi, produrrebbe negli abitanti una condizione psichica insostenibile. La riservatezza è l’interiorizzazione di uno spazio ancora possibile di distanza dall’Altro, una forma di barriera che Simmel articola in maniera ancora più approfondita nella Filosofia del denaro, indicando questa “barriera” come la sola a rendere possibile le moderne condizioni di vita:
L’essere pressati l’uno accanto all’altro e il variopinto incrociarsi del traffico delle grandi città sarebbero semplicemente insopportabili senza quella distanziazione psicologica. Il fatto che nella civiltà urbana con i suoi traffici e le sue relazioni commerciali, professionali e sociali ci si muova così addossati l’uno all’altro, farebbe cadere l’uomo moderno, sensibile e nervoso, in uno stato di completa disperazione se l’oggettivazione dei rapporti sociali non determinasse anche un confine interno e un particolare tipo di riservatezza.
Queste righe ‒ scritte nel 1900 ‒ ci aiutano a capire meglio che cosa, dell’attraversamento dello spazio metropolitano condotto con l’iPhone e le cuffie, ci attrae; mentre “nientifica” la distanza fra estasi e realtà, trasformando in sacro ogni cosa, il regime ipnocratico crea l’opportunità (l’abito) di uno spazio di meditazione interna ‒ di riservatezza tecnologica. La riservatezza, e insieme la crisi algoritmica del concetto stesso di privacy, partecipano perciò a uno stesso meccanismo in cui le cose si danno mentre si dileguano, vivendo una condizione di indistinzione tra ciò che è trovato e ciò che è perduto: una condizione di imperdutezza.
La sbadataggine e l’indifferenza dell’abitante metropolitano non sono un vizio di carattere o il solo risultato di un addomesticamento urbano dei sensi, ma forme di reazione all’insistita sovrabbondanza degli stimoli subiti.
A questo punto, è bene tornare a fare un breve accenno alla liturgia. In Florenskij, tutti gli elementi che partecipano al rito sono sempre trattati come componenti essenziali. Guardando al sacerdote, il filosofo non trascura il tappeto che gli sta sotto i piedi, e neppure la veste liturgica (che prende lo stesso nome del rivestimento dell’icona, riza): entrambi gli elementi contribuiscono a creare livelli differenti di isolamento, a distanziare il sacerdote dal mondo terreno: “così, al mondo sottratto, il sacerdote diventa ‘trascendente al popolo’, è ‘nel mondo ma non del mondo’, in una trascendenza che ha molteplici stati e gradi possibili” (Filosofia del culto). Se pensiamo alla tecnologia contemporanea come a un rivestimento liturgico dell’esistenza, ne cogliamo così anche il potere di collocare l’utente in uno stato di isolamento sospeso, per così dire, tra il mondo e la sua negazione estatica. Capiamo anche come questo rivestimento isolante possa generare “una sfera ripiena di realtà” in cui dimorare: “la veste è l’abitazione mobile, l’abitazione è la veste immobile”. Domiciliandoci nel mondo e fuori di esso, emarginandoci da una realtà da cui pure proviene (quella del “progresso” capitalista, che passa per il trionfare della metropoli e arriva alla Silicon Valley), l’estasi tecnologica può essere vista anche come una forma radicale di adattamento ‒ di habitus ‒ che la vita dello spirito s’impone nell’epoca contemporanea: una possibilità di automedicazione, una vera e propria farmacologia elettronica ‒ con tutta la sua salute, con tutto il suo veleno.
Smart house: la cucina degli angeli
Finiamo questo viaggio in una cucina, dipinta tra il 1625 e il 1650 da Bartolomé Esteban Murillo su commissione dai frati francescani di Siviglia. Nel quadro, Un miracolo di frate Francesco, esposto oggi al Musée du Louvre di Parigi, possiamo osservare un frate colto in un rapimento estatico, sospeso a mezz’aria mentre gli angeli radunati in cucina si occupano miracolosamente di quei doveri che il frate ha lasciato inadempiuti. Come non vedere, in questo dipinto, una singolare prefigurazione del futuro estatico? Il carattere angelico della tecnologia, la sua angelizzazione, consiste proprio in questa vita delle cose animate per congedarsi dall’intervento diretto dell’essere umano. Mentre noi siamo in estasi su TikTok, sospesi nello scrolling, gli angeli intelligenti delle nuove “smart house” assolvono i compiti che abbiamo abbondonato, quelli che non vogliamo più fare. Come nel Vilém Flusser citato nelle Non-cose, la mancanza di appigli “cede il passo alla gaia leggerezza del gioco. L’essere umano del futuro disinteressato alle cose non è un operaio (homo faber), bensì un giocatore (homo ludens). Non deve superare faticosamente, col lavoro, le resistenze della realtà materiale. Gli apparecchi da lui programmati si fanno carico del lavoro. Gli uomini del futuro sono senza mani”. La santificazione del mondo è l’emancipazione dell’umano dal compito terreno ‒ il suo volo estatico.