S econdo alcune prospettive dell’antropologia filosofica, la paura della morte e l’uso della tecnica appartengono ai fondamenti ontologici dell’essere umano. L’arte, in ogni sua espressione, fa uso della tecnica per esorcizzare la paura della morte e l’angoscia di esistere. Durante la scorsa estate, in risposta a Barbie di Greta Gerwig e Oppenheimer di Christopher Nolan, si è innescato un dibattito, su scala globale, che ha sorvolato i territori un tempo appartenenti all’esistenzialismo. Si è parlato di morte e di tecnica; molto meno di arte.
Com’è noto, l’uscita in contemporanea nelle sale statunitensi dei film di Gerwig e Nolan, ha scatenato il fenomeno memetico Barbenheimer. La dimensione del meme rende istantanea la relazione, solo apparentemente assurda, tra un film di brand e un biopic, le bambole e la guerra, la questione femminile e le armi di distruzione di massa. Al di là di strategie di marketing più o meno deliberate, nella messinscena dei due film si avverte un contrasto fra il peso della realtà e la leggerezza delle sue rappresentazioni: materiale perfetto per i meme apocalittici. Questa tensione memetica infatti potrebbe scaturire da ciò che il filosofo Günther Anders definiva “vergogna prometeica”, intesa come il senso di inferiorità avvertito dagli umani rispetto ai prodotti della tecnica moderna.
La tensione memetica scaturisce dalla ‘vergogna prometeica’: il senso di inferiorità rispetto ai prodotti della tecnica moderna.
Le prime intuizioni di Günther Anders sul ribaltamento del rapporto fra soggetto e oggetto nella società dei consumi risalgono al periodo in cui il filosofo si trovava in esilio in California, terra di asilo politico per gli intellettuali dell’altra Germania. Nei dintorni di Hollywood dei primi anni ‘40 Thomas Mann e Bertolt Brecht erano vicini di casa; Max Horkheimer e Theodor Adorno si incontravano per lavorare alle prime stesure della Dialettica dell’illuminismo, mentre Herbert Marcuse ospitava Anders, noto come il filosofo della bomba atomica. L’opera di Anders deve la riduzione a questo appellativo per aver indagato sulle conseguenze dell’invenzione della bomba atomica nel suo lavoro più noto: L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale (1956). Il primo capitolo si apre con un appunto preso nel 1942, proprio durante il soggiorno di Anders in California:
Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, ‘vergogna prometeica’, e intendo con ciò ‘vergogna’ che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi.
Lo scarto prometeico si può rintracciare sin dai primi minuti di Barbie, nel brand manifesto che ricalca l’incipit di 2001: Odissea nello spazio (1968). Le bambole della Mattel stanno all’emancipazione femminile come il monolite di Kubrick sta al fuoco prometeico. Le barbie sono state ideate per liberare le donne dal loro stato minoritario. In questa cornice si desume che la barbie-monolite di Gerwig rappresenti in un’unica soluzione: il simbolo di una rivelazione epifanica, l’impersonificazione del titano nemico del potere e, al contempo, lo strumento per sovvertire l’ordine precostituito.
Nel mito di Prometeo il fuoco, rubato ad Apollo o a Efesto, rappresenta ciò che ha illuminato l’umanità dalle tenebre dell’ignoranza. Prometeo è la trasposizione mitologica della natura dell’essere umano a non avere natura, ad essere homo faber per sopravvivere alle insidie di un mondo a lui alieno, nel quale è stato gettato senza protezioni. Di contro, nel film di Barbie la bambola prometeica vive nell’Olimpo delle dee di plastica, ignorando cosa accade nel mondo degli umani. A più riprese, una mappa illustra la morfologia del film di Gerwig: da un lato Barbieland, il mondo dei prodotti senza difetti, e dall’altro il “Mondo reale”, affetto dalla temporalità. I due ecosistemi non comunicano, se non per errore, e i prodotti non sanno di essere migliori delle persone che li hanno realizzati. A causa di una sorta di interferenza fra i due mondi, la protagonista del film Barbie Stereotipo avverte di essere difettosa, iniziando ad accusare i sintomi della finitudine umana, a partire dalle riflessioni sul significato della morte. Barbie Stereotipo scopre che può riacquistare la sua perfezione disumana solo recandosi nel “Mondo reale”, un posto in cui si deve lavorare per vivere, si invecchia, si è dotati di organi genitali e domina il patriarcato. Barbieland si trova agli antipodi: lì ogni giorno è il più bello di tutti, non si fatica mai e le donne occupano posizioni di rilievo nella società, ma non alla maniera di una sorta di Utopia femminista. Si tratta, piuttosto, di un dispotico regime matriarcale.
Il prodotto Barbie conosce il gusto dell’amara delusione nello scoprire che fuori da Barbieland vige il dominio del maschio bianco etero cis, resta affranta dalle discriminazione di genere e restituisce il suo sentimento al pubblico in sala. Il paradosso è dato dal fatto che i prodotti inventati dagli umani si dichiarano scevri dai valori del sistema entro cui sono stati ideati, realizzati e venduti. Di fatto, non è colpa di Barbie se nel mondo degli umani non esiste egualitarismo, così come non è colpa del singolo spettatore o della singola spettatrice. Al dislivello prometeico, ribaltando il rapporto storico-dialettico tra il soggetto umano e ciò che esso produce, conseguono evidenti implicazioni morali che valgono sia per le barbie, sia per la bomba atomica.
L’esegesi dell’etica secondo Anders è racchiusa in un breve passaggio di Il principio disperazione: tre studi su Günther Anders (2003) di Pier Paolo Portinaro. L’assunto da cui prendere le mosse è la constatazione fattuale per la quale l’esistenza della bomba non può essere imputata a nessuno in particolare: “E così, a maggior ragione, accade per i prodotti di ogni altro processo produttivo il cui senso si è smarrito nel labirinto di eterotelia del Megapparato. Irresponsabilità organizzata e ottusità diffusa sono le inevitabili risultanze di questa situazione: il volume collettivo della stupidità cresce progressivamente con l’accrescersi della quantità di conseguenze non previste e non prevedibili.”
La vergogna prometeica è il sentimento predominante nella società dei consumi, finendo per oscurare ogni senso di responsabilità:
L’opacità e l’ambivalenza della società dominata dalla tecnica offrono un duplice alibi alla fuga dalla responsabilità di quelle ombre e caricature umane che ne azionano le infinite leve: per un verso, consentono loro l’illusione di un residuo di soggettività, nella misura in cui riconoscono la legittimità a dirsi responsabili di azioni che non sono cattive; per l’altro, le sgravano dal senso di colpa, permettendo loro di non assumersi la responsabilità delle azioni cattive o di quelle che hanno avuto un esito sventurato.
Se nel film della Gerwig si può trovare traccia del dislivello prometeico nella presunta superiorità morale dei prodotti, in Oppenheimer lo scarto tra uomo e tecnica dovrebbe vertere sul dilemma etico attorno all’invenzione della bomba atomica, ovvero il pretesto narrativo su cui ruota l’intero film. Nolan ricostruisce la vicenda dell’udienza inquisitoria per affiliazioni comuniste di cui era accusato Julius Robert Oppenheimer, lo scienziato a capo del progetto Manhattan, che lo ha reso celebre come l’inventore della bomba atomica. Parallelamente, nel biopic si ripercorre la carriera accademica del protagonista e la sua tendenza al libertinaggio, che lo porterà all’adulterio.
Nel definire gli aspetti psicologici del protagonista, Nolan cuce addosso a Robert Oppenheimer il mito del peccato originale, inteso come conseguenza del conflitto tra legge divina e brama di sapere, riflesso nell’opposizione fra rigore e lussuria. In una delle sequenze in cui cominciano ad intravedersi i tratti dell’antieroe, il giovane Oppy cede alla tentazione di avvelenare con del cianuro la mela di un suo docente universitario a lui ostile. L’episodio dovrebbe introdurre lo spettatore al tema dell’ambiguità morale, a partire da un espediente simbolico, ascrivibile all’immaginario dell’antica Genesi: la mela dell’albero della conoscenza, il simbolo di un desiderio proibito che ha provocato la cacciata dell’uomo dal Paradiso Terrestre. Nel susseguirsi di flashback e flashforward dei quali si compone il film, il parallelismo tra lussuria e sete di sapere è rafforzato da Nolan in almeno altre due sequenze. Una di queste è la scena di nudo in cui Oppenheimer, durante un rapporto sessuale, è incalzato dall’amante Jean a leggere in sanscrito i versi di Bhagavad Gita: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”. Gli stessi versi saranno ripetuti dal protagonista durante Trinity, la prima detonazione di un’arma nucleare mai avvenuta.
Nolan cuce addosso a Robert Oppenheimer il mito del peccato originale, inteso come conseguenza del conflitto tra legge divina e brama di sapere.
Un’ulteriore sequenza del film di Nolan, in cui emerge il rapporto tra lussuria e conoscenza, riguarda ancora una volta Jean, ma solo a latere. Il suo personaggio è descritto come una donna dal temperamento scostante, legata da una forte dipendenza affettiva nei confronti del protagonista, che la porterà a togliersi la vita. Oppenheimer è afflitto dai sensi di colpa dopo aver ricevuto la notizia del suicidio di Jean. Lo confida a sua moglie Kitty che, invece di consolarlo, rimprovera il marito di non poter pretendere di commettere il peccato e di essere anche compatito. L’ammonimento di Kitty sembra valere non solo per l’episodio del tradimento, ma anche per la responsabilità di Oppenheimer in merito alle migliaia di persone morte a seguito dell’esplosione di Hiroshima e Nagasaki.
Eppure, l’esistenza della bomba atomica non riguarda solamente l’epilogo drammatico della Seconda Guerra Mondiale, ma un nuovo orizzonte degli eventi in cui si muove la storia contemporanea e della quale gli umani non sono più i protagonisti. Il limite della conoscenza è stato superato nel momento in cui è stato inventato il modo per annientare la civiltà su questo pianeta. L’iconologia della mela della Genesi è da riferirsi a un mito che poco ha a che vedere con l’era in cui la scienza è ancella della tecnica. Parrebbe che la visione di Oppenheimer faccia sentire l’urgenza di un nuovo apparato simbolico, di nuovi miti e di una nuova etica, perché anche questi sono ormai antiquati.
Verso la fine del film, tramite trasfigurazioni allegoriche, Nolan manifesta agli spettatori il peso delle responsabilità provato dal padre della bomba atomica. In tutto l’arco narrativo, ciò che accade nella mente di Oppenheimer è raccontato attraverso un montaggio emotivo che associa la matericità ai sentimenti. Nella prima parte del film, assorbito dall’estasi meditativa sulle prime scoperte della fisica quantistica, lo scienziato Oppenheimer contempla supernove scintillare nell’oscurità della sua camera da letto. Allo stesso modo, l’uomo Oppenheimer vede brandelli di vestiti inceneriti svolazzare sui corpi delle persone, che lo acclamano tra gli spalti di una palestra, a seguito di un suo discorso pubblico tenuto dopo la sconfitta del Giappone. “Il mondo ricorderà questo giorno” dichiara sotto un canestro da basket, mentre confonde il suono delle detonazioni con gli applausi.
Le ombre, di cui si compone il profilo psicologico del protagonista, emergono tramite visioni di esplosioni, ceneri e scintille sia che si tratti di teoria quantistica, sia che si tratti del dilemma etico attorno alla realizzazione della prima arma di distruzione di massa. Il filtro intimista di Nolan resta sulla superficie materica di ciò che avrebbe potuto angosciare il personaggio storico J.R. Oppenheimer, in uno stare in bilico senza vertigini. Questa sorta di impossibilità nel raccontare il tormento interiore di chi è corresponsabile di una potenziale guerra nucleare, potrebbe essere sintomo della vergogna prometeica, ovvero l’emozione da cui deriva la cecità all’apocalisse, secondo Günther Anders.
Il filtro intimista di Nolan resta sulla superficie materica di ciò che avrebbe potuto angosciare il personaggio storico J.R. Oppenheimer, in uno stare in bilico senza vertigini.
L’uomo si sente inferiore a se stesso, obsoleto rispetto a ciò che è in grado di produrre, perché avverte le asincronie tra il progredire della tecnica e le condizioni di possibilità entro cui l’essere umano può pensare. Ciò che la tecnica moderna, con l’ausilio della scienza, è capace di produrre supera la dimensione umana in termini di utilità, di comprensione e perfino di immaginazione. Le conseguenze di una guerra atomica sono inimmaginabili perché gli esseri umani non possono pensare al nulla, non possono concepire la fine della storia umana e, pertanto, non sono in grado di provare angoscia dinanzi all’apocalisse: “dato che le prestazioni del nostro cuore, le nostre inibizioni, le nostre angosce, la nostra sollecitudine, il nostro pentimento si sviluppano in proporzione inversa alla grandezza delle nostre azioni (cioè si riducono in proporzione al crescere di queste) siamo, a meno che le conseguenze di questo dislivello non si annientino effettivamente, gli esseri più dissociati, i più sproporzionati in se stessi, i più inumani che siano mai esistiti.”
Secondo Günther Anders, il cortocircuito nella capacità immaginativa dell’uomo moderno è dato dall’espropriazione sistematica del linguaggio a opera delle macchine. Così come non è più necessario camminare per muoversi nello spazio, o impastare il pane per nutrirsi, allo stesso modo non si sente il bisogno di essere autori delle proprie narrazioni. Negli anni ‘50, quando la televisione stava diventando un prodotto alla portata di tutti, Anders definiva i consumatori come lavoratori a domicilio non stipendiati, che cooperano alla produzione dell’uomo di massa, disposti di buon grado ad assorbire passivamente ciò che i media propongono. Così, parlare non è più qualcosa che si fa, ma qualcosa che si riceve. Si tratta di un’evoluzione che avrà come deriva “un tipo d’uomo che, non essendo più lui a parlare, non ha più nulla da dire; e che, udendo soltanto, anzi incessantemente, è un‘ubbidiente’, un ‘subordinato’”. Con Barbie e Oppenheimer i prodotti parlano al posto dei consumatori imponendogli la loro “vision” e la loro “mission”, sposando le cause sulle questioni di genere e il rapporto tra scienza e politica. La bambola della Mattel si preoccupa di essere associata alla storia dell’emancipazione femminile e non alla mercificazione dei corpi. La bomba atomica esplode come una supernova per suggerire la neutralità di un mezzo di per sé innocente nelle mani di uomini, già assuefatti dal pericolo di una possibile guerra nucleare.
Il logos alla fine della storia è in crisi almeno quanto Hollywood, tant’è che l’industria degli studios californiani ha puntato moltissimo sugli incassi da record, pronosticati sia per il film di Gerwig che per quello di Nolan. Forse non è un caso se l’uscita di Barbie e Oppenheimer sia coincisa con l’inasprirsi di uno sciopero congiunto tra sceneggiatori e attori hollywoodiani, che fra le istanze promosse, annovera anche l’uso dell’intelligenza artificiale nella produzione di film e serie TV. Bisogna risalire agli anni ‘60 per ritrovare uno sciopero di questa portata in tutta la storia di Hollywood. Erano gli anni in cui la televisione si stava insediando nella quotidianità delle famiglie americane, svuotando le sale in tutti gli Stati Uniti e depauperando le case di produzione californiane, fino a che i tassi altissimi di disoccupazione portarono i sindacati di attori e sceneggiatori a coalizzarsi.
Con Barbie e Oppenheimer i prodotti parlano al posto dei consumatori imponendogli la loro ‘vision’ e la loro ‘mission’, sposando le cause sulle questioni di genere e il rapporto tra scienza e politica.
La Nuova Hollywood di Francis Ford Coppola, Brian De Palma e John Carpenter è nata dalla crisi degli studios negli anni ‘60, quando produrre blockbuster era diventato un rischio e gli unici a non andare in perdita erano i film a basso costo destinati ai giovani, come The Graduate (1967). Il pubblico americano era attratto da stilemi estranei a quelli hollywoodiani, vicini alla controcultura e alle produzioni europee. È figlio di questa cesura Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964) di Stanley Kubrick, al quale sia l’ultimo film di Gerwig, sia il cinema di Nolan devono molto. Il film di Kubrick termina con le immagini di un’apocalisse nucleare in corso, durante la quale le detonazioni sono accompagnate dalle note di We’ll Meet Again. Kubrick aveva intuito che la bomba atomica, più che un oggetto, è un problema astratto con il quale è difficile fare i conti, se non con ironia: una facoltà che ai robot ancora non appartiene.
Nella società dei costumi, fatta di bambole perfette e di armi di distruzione di massa, gli artefatti sfuggono al controllo di chi li ha inventati perché il loro utilizzo implica scenari impossibili da immaginare, come la fine della storia. La sopravvivenza della specie umana e la sua eliminazione dipendono entrambe dalla tecnica moderna, in un mondo che affonda in un profondo stato di dissociazione, dove Prometeo non ha la pretesa di sfidare gli dei, bensì prova soggezione in relazione a ciò che è capace di realizzare. Pertanto, si potrebbe ipotizzare che del film di Nolan e del film di Gerwig ciò che resta al termine della visione non sia nient’altro che il dislivello fra umani e prodotti.