Ritratto semiotico di Emanuela Fanelli
La performance comica che aggira la teoria dell’enunciazione.
La performance comica che aggira la teoria dell’enunciazione.
N ell’aprile del 1941, dopo otto anni passati in Italia alla scuola di architettura di Milano e tre anni a fuggire dalle leggi razziali in quanto ebreo rumeno, Saul Steinberg fu arrestato e imprigionato nel campo d’internamento abruzzese di Tortoreto. Lì dentro trascorreva il suo tempo a disegnare, scrivere, rispondere a numerosissime lettere e preparare i documenti per ottenere nuovi visti per la Spagna e il Portogallo. E soprattutto, leggeva. Tra i tanti volumi inglesi consumati durante la prigionia, Steinberg fu particolarmente colpito da un passaggio de Le avventure di Huckleberry Finn, quando Tom Sawyer ostentava cortesie per gli sconosciuti togliendosi il cappello come se fosse il coperchio di una scatola piena di farfalle addormentate. Steinberg, the man who did that poster, si sentiva esattamente così, quando parlava di illustrazioni: una scatola di farfalle addormentate.
Le farfalle però si svegliarono in fretta, e tutte di botto, al suo arrivo a New York, dove colui che si definiva uno scrittore che disegna diventò in poco tempo un viveur milionario che non avrebbe mai più cenato in casa per tutta la vita. Nabokov ne parlava come del suo artista preferito, S.J. Perelman trascorreva molte serate con lui a spanciarsi dal ridere e Saul Bellow lo portava a sbronzarsi spesso e volentieri prima di pranzo. Ma il più ammirato (e il più bravo) fra tutti i suoi ammiratori era Roland Barthes, che su Steinberg scrisse un libriccino favoloso, purtroppo introvabile in italiano, dal parlantissimo titolo “All Except You”, tutti tranne te. Tra le tante, Barthes mette a fuoco un aspetto fondamentale dell’opera di Steinberg, indicando la processione interminabile di tipi sociali nelle sue vignette, dove ogni tipo è perfettamente stereotipo e assolutamente originale.
La dialettica tra originale e stereotipo è un tema fondamentale per la comicità, attraverso cui si possono capire i meccanismi profondi dell’umorismo dei grandi autori del passato e del presente. Pensiamo per esempio ai libri di P. G. Wodehouse, dove il piacere del testo non è dato dall’imprevisto ma dalla prevedibilità: scrivendo storie con personaggi già visti e sentiti, come il ricco americano, il giovane innamorato, il maggiordomo saggio e il valletto ubriacone, Wodehouse esplora l’originalità dello stereotipo in quanto, come scriveva Guido Almansi, “tali personaggi non sono tanti originali in sé, quanto è originale il modo in cui Wodehouse dimostra la loro mancanza di originalità”.
La dialettica tra originale e stereotipo è un tema fondamentale per la comicità.
Bene, cercheremo qui di mostrare come la comicità di Emanuela Fanelli abbia a che fare con Steinberg, con Wodehouse, con Gilles Deleuze e con una delle nerdate più affascinanti della semiotica e della linguistica: la teoria dell’enunciazione, quella teoria che dovrebbe rispondere a una delle domande più difficili che ci si possa porre a riguardo, e cioè: chi sta parlando? Quando leggo un libro, quando guardo un film, quando rido davanti a un personaggio comico interpretato da un attore, chi sta parlando?
Semplificando molto, possiamo dire che il concetto centrale è quello della proiezione: c’è il soggetto empirico dell’enunciazione, per esempio un autore di romanzi, che ha un nome e un cognome, un indirizzo e una scrivania su cui appoggiarsi, che si trova nell’io-qui-ora dell’enunciazione. Si chiama Jacopo, si trova a Milano, scrive su un MacBook Air sopra a una vecchia scrivania di legno che ha ereditato da suo nonno e sono le 15:42 di giovedì primo settembre. L’io-qui-ora delimita e definisce l’istanza che dà origine al testo, il soggetto che l’ha prodotto in un determinato tempo e luogo. Scrivendo, l’autore proietta fuori da sé e fuori dalle sue coordinate identitarie e spazio-temporali uno o più soggetti diversi da lui (in semiotica vengono chiamati attori), in uno spazio e un tempo diversi da quelli dell’enunciazione (tanti anni fa c’era una volta un Re che viveva in un bellissimo castello). Questo meccanismo di proiezione si chiama débrayage, letteralmente disinnesco – in Francia lo usano anche per indicare quando scali le marce dell’auto. Il débrayage è la separazione del testo enunciato dall’enunciazione vera e propria, quella reale. Il suo distacco. Allo stesso modo, e di contrasto, l’embrayage è quando si ritorna all’istanza dell’enunciazione a partire dal testo, un po’ come nei Promessi Sposi, nei momenti in cui Manzoni riprende la parola per dire la sua, interrompendo la narrazione.
Aggiungiamo un piccolo passaggio ulteriore. Nel testo prodotto tramite débrayage, possiamo sempre riconoscere quelle che vengono definite come marche dell’enunciazione, le tracce cioè del passaggio dell’autore empirico nel testo. Al suo interno, dunque, possiamo incontrare degli elementi che assumono significato solo se riferiti alla situazione dell’enunciazione (io-qui-ora) e che, dunque, svelano parzialmente la proiezione originaria, operando per induzione. I pronomi personali, per esempio, o gli indici dell’ostensione come i dimostrativi “questo” e “quello”, o l’uso dei tempi verbali al passato e al futuro, e così via. La semiotica, o almeno un certo tipo di semiotica, studia proprio l’insieme e il sistema degli indicatori che si trovano in un testo e che permettono di risalire all’io-qui-ora dell’istanza che l’ha enunciato, che l’ha proiettato fuori da sé, per cercare di capire la relazione fondativa di presupposizione tra enunciato ed enunciazione. Come dire: invece di studiare chi ha prodotto un testo, ricerco nel testo le tracce del passaggio di chi l’ha prodotto, provando a risalire la corrente, a “scalare”.
Un personaggio comico fa ridere anche nella misura in cui si discosta dal suo autore originale, dal suo enunciatore.
La dinamica che soggiace alla creazione di un personaggio comico funziona in maniera strutturalmente molto simile a questa, con le ovvie differenze date dal fatto che, in tal caso, l’autore coincide empiricamente con il testo enunciato, diventando egli stesso altro da sé e trasformandosi in un testo da interpretare. Proviamo: c’è un enunciatore empirico, il comico, che proietta fuori da sé un non-io (e, a seconda delle situazioni, anche un non-qui e un non-ora) sotto forma di imitazione e impersonificazione più o meno accurata. Prendiamo un esempio limite per testare la teoria, il mainstream fatto uomo e personaggio: Maurizio Crozza. In questo video sta portando in scena la sua versione di Vincenzo De Luca mentre commenta le capacità politiche e umane del segretario della NATO. Come funziona l’enunciazione? C’è un enunciatore empirico, Crozza, che proietta fuori da sé un non-io (De Luca), un non-qui (l’ufficio di De Luca) e un non-ora indefinito che non coincide con l’orario di effettiva messa in onda (a meno che De Luca non sia in ufficio ben oltre le nove di sera, ma sento di dubitarlo). Il pubblico all’ascolto ride e si diverte sia per la bravura tecnica e umoristica del comico, sia per la percezione che ha del delta tra il vero Maurizio Crozza e il finto Vincenzo De Luca. Come se Crozza-uomo fosse la misura del De Luca-maschera. Quel De Luca ci fa ridere proprio perché non è De Luca, ma Crozza-che-fa-De-Luca. L’utente Fabio, nei commenti di YouTube, ci mostra la veridicità di questo assunto affermando proprio il contrario, quando scrive, cito, “fa più ridere l’imitato dell’imitatore, su De Luca Crozza deve impegnarsi di più”. De Luca fa già ridere di suo, Crozza deve impegnarsi di più per “crozzizzarlo”, altrimenti tanto vale guardare l’originale.
Attenzione, la cosa funziona allo stesso modo anche quando il comico non interpreta un personaggio reale (e non scrivo “imita” perché non è certo necessario imitare qualcuno per poterlo interpretare). Pensate a Corrado Guzzanti ne Il Caso Scafroglia, per esempio, o allo stesso giovane Crozza di Mai Dire Gol.
Comunque, tornando a bomba: un personaggio comico fa ridere anche nella misura in cui si discosta dal suo autore originale, dal suo enunciatore. Questo significa che il pubblico deve conoscere l’autore originale, se vuole usarlo come metro di paragone. E noi Crozza lo conosciamo bene, sia in senso paratestuale (le sue ospitate as himself in altri programmi), sia nel senso artistico: non a caso Fratelli di Crozza funziona proprio a partire dalla figura del conduttore nel suo io-qui-ora in studio. È proprio lui, quello con il codice fiscale CRZMRZ59T05D969I, che lancia i suoi personaggi in un débrayage svelato, regalandoci la sorpresa di questo stacco. Qui sarebbe interessante approfondire semioticamente anche la figura del capocomico alla Bisio, in quanto enunciatore esterno che prima introduce la maschera (“Ecco a voi Kruska! Chi è Tatianaaa?”) e poi svela l’autore per la sanzione finale del pubblico (“Un applauso per Gabriele Cirilli!”), ma non è purtroppo questa la sede.
È praticamente impossibile risalire alla vera Emanuela Fanelli, quella empirica.
Per fortuna questa è la sede di Emanuela Fanelli. Fanelli sembra contraddire tutto il ragionamento fatto fino ad adesso attraverso ogni suo personaggio, perché, a pensarci, è praticamente impossibile risalire alla vera Emanuela Fanelli, quella empirica. Che tipo è davvero? Come sarebbe uscirci una sera a cena? E come si comporterebbe in una determinata situazione fuori dalle scene? Io non ne ho idea, e di certo faccio molta fatica a trovare marche enunciazionali nei suoi testi, le tracce della vera Fanelli nei suoi personaggi, anche quando interpreta apparentemente se stessa negli sketch con Valerio Lundini. Fanelli non ritorna mai in sé, non ci dà mai la rassicurazione e la misura del conoscerla. I suoi personaggi sono inseriti in un loop circolare dal quale lei non scala mai, non torna mai al suo io-qui-ora e non ce lo mostra. Che poi, sia chiaro, probabilmente non sappiamo nemmeno che tipo sia Crozza, o Guzzanti, nell’intimità, tuttavia abbiamo sempre l’impressione di poterlo sapere, o di averlo capito, o di avere comunque un’opinione legittima a riguardo. Con Fanelli no, lei è impossibile, inaccessibile. Non torna mai a sé, e questa cosa è molto destabilizzante.
Cosa c’è della vera Emanuela Fanelli in Emanuela Carabottoli, la grande filosofa? O nell’agente scelto Marilena Licozzi? O anche solo in questa versione di Emanuela Fanelli? Boh. Non è un caso infatti che nessuno, Lundini per primo, credesse nella sua effettiva partecipazione al nuovo film di Paolo Virzì, nonostante lei lo facesse continuamente ripetere ai suoi personaggi. Questo accade proprio perché è impossibile capire la verità, non è possibile guardarle dentro. E invece, nel nuovo film di Virzì, lei c’è davvero, in un cortocircuito semiotico che ci sarebbe da farci una tesi di dottorato.
Fanelli non è la misura dei suoi personaggi, come ci si potrebbe aspettare, ma funziona attraverso i suoi personaggi, articola la percezione che abbiamo di lei mettendo in scena continuamente persone altre da sé, anche quando ne condividono il nome e le fattezze. Due esempi facili, così per farci qualche risata: l’annunciatrice di Una Pezza di Lundini, dove finge di essere se stessa, e la favolosa influencer Baduela Vanelli in 610, il programma radio di Lillo e Greg. E, come abbiamo appena cercato di sostenere, lo fa sempre orizzontalmente, in un circolo infinito, un comicissimo Uroboro di cui non si capisce l’inizio, né la fine, e da quale non possiamo mai distaccarci. Un Uroboro inscalabile, nel senso delle marce.
Ancora: Fanelli a Battute. Lo sketch inizia con lei che fa se stessa, ma in quanto personaggio simile a quello di Una Pezza di Lundini, e cioè l’attrice “più talentuosa di questo tavolo”, autrice di se stessa, con cui Riccardo Rossi dovrebbe sentirsi privilegiato a dialogare. Dopo l’introduzione, Fanelli dichiara che, adesso, dovrà fare “il cabarettista cinquantaquattrenne romano” e, in coppia con Stefano Rapone, allestisce una situazione in cui prendere in giro i vegani: siamo in un ristorante, Rapone la corteggia e ordina e, quando arriva il seitan, Fanelli/cabarettista romano inizia a fare le faccette, i versetti, fino a prendere una pianta da interni e dire, in romanesco: “massì, magnamoci pure questa”, e così via, seguendo il classico copione da avanspettacolo. Qui il meccanismo è ancora più evidente: Fanelli persona diventa Fanelli personaggio cabarettista romano, mettendo in scena il passaggio brusco tra persona e personaggio, cambiando voce, gesti, accento e tipo di comicità. Solo che la persona Fanelli, il suo io-qui-ora che parla con Riccardo Rossi, non è la vera Emanuela Fanelli (sempre che esista davvero), ma un altro personaggio creato da lei, quello dell’attrice boriosa e convinta di essere meglio di tutti gli altri. Si vede bene allora il fatto centrale: Fanelli non torna mai alla base, circola continuamente tra rappresentazioni altre da sé.
Fanelli non ritorna mai in sé, non ci dà mai la rassicurazione e la misura del conoscerla.
Possiamo allora individuare due livelli nella comicità di Emanuela Fanelli. Il primo ha a che vedere con la dialettica tra stereotipo e originale riscontrata nelle opere di Steinberg e Wodehouse, la loro capacità cioè di mettere in discorso un’infinità di tipi sociali stereotipati, dove l’originalità non sta nello stereotipo – sempre uguale a se stesso – quanto piuttosto nelle modalità attraverso le quali ci mostrano la loro mancanza di originalità. Prendiamo per esempio Fanuela Boriglioni (che in un’altra puntata di 610 si chiama Manuela Fanoglioni) del Partito delle Mani Avanti, una giovane attivista politica a capo di un particolare partito che, fedele al nome, prima di fare qualsiasi proposta operativa mette le mani avanti, perché magari non ci riesce, o magari qualcuno è più bravo di lei a farlo. Oppure l’influencer Samuela Fanecci, trentadue follower e un hashtag seguito da ben sette persone, #ciauz, convinta di essere talmente famosa da stupirsi che le persone per strada non la fermino continuamente, ritrovatasi a fare la bibitara ai concerti pensando di essere stata ingaggiata da grandi brand che, però, non le chiedono stories o post ma semplicemente di vendere le bevande e consegnare l’incasso. O infine la ex di un amico di Lillo, che lo chiama in studio per sapere del ragazzo e della sua nuova fidanzata e che non riesce ad accettare la fine della loro storia, nonostante siano passati anni, ritrovandosi infine in un supermercato a trenta chilometri da casa per incontrare la rivale in amore, che fa la cassiera, e offendersi alla sua normalissima domanda “Busta?”, interpretandola come un insulto.
Questi personaggi, insieme a molti altri, sono stereotipi: il politico incompetente, l’influencer mitomane, la ex ossessionata. Sono tipi sociali che conosciamo perfettamente, così come quelli di Wodehouse. E, come Wodehouse, quello che distingue Fanelli è l’originalità con cui li mette in scena. Perché la politica è sì incompetente, ma lo ammette mettendo le mani avanti, e l’influencer è sì mitomane, ma si ritrova a vendere bibite come un Di Maio qualunque convinta di fare branded content, e la ex è sì ossessionata, ma in maniera così esacerbante da non rendersi conto del normale scorrere del tempo e dei chilometri. Forse adesso si capisce ancora meglio la frase che Barthes dedicava a Steinberg: ogni tipo è perfettamente stereotipo e assolutamente originale.
Ogni tipo è perfettamente stereotipo e assolutamente originale.
Poi c’è il secondo livello della comicità di Emanuela Fanelli, e ha a che vedere con la ripetizione e con Gilles Deleuze. La ripetizione è una delle strutture profonde della comicità, quella che Bergson definiva come “una combinazione di circostanze che ritornano tali e quali a più riprese, opponendosi così al corso mutevole della vita”. Pensiamo alle classiche gag dei Griffin, quando Peter cade, si fa male al ginocchio e si lamenta per lunghi interminabili secondi. Oppure a due grandi ripetitori dell’universo Disney, Paperino e Gastone. La buona sorte e la sfortuna di entrambi fanno ridere proprio nella loro reiterazione; Paperino non si limita a scivolare su una buccia di banana: nel suo tragitto sbatte anche contro un lampione, frantuma con la testa un vaso di fiori, cade in un tombino. Stessa cosa per Gastone, che non trova mai solo un un portafoglio a terra ma, dopo pochi passi, anche il biglietto vincente della lotteria e l’anellone di diamanti della contessa De Ricchis.
Insomma, la reiterazione di un atto o di una situazione fa strutturalmente ridere, ma dietro c’è molto altro. Perché ripetere qualcosa non significa, come potrebbe sembrare intuitivo, annullarne l’identità, annacquarne le peculiarità o renderla generica e interscambiabile. A questo proposito, nella sua tesi di dottorato dal chiaro titolo Differenza e ripetizione, Gilles Deleuze inizia il primo capitolo scrivendo: “La ripetizione non è la generalità. La ripetizione deve essere distinta dalla generalità in vari modi. Ogni formula che implichi la loro confusione genera imbarazzo”. Per lui la ripetizione è la ripetizione del differente e la conseguente affermazione del molteplice, perché si riferisce sempre, in apparente paradosso, a una singolarità irripetibile. Ciò che si ripete non è l’identico ma è identico il ripetersi di ciò che si ripete: la differenza.
Per capire meglio questo simpatico scioglilingua, prendiamo in prestito da Deleuze un ottimo esempio, quello della festa:
La festa non ha altro paradosso apparente: ripetere un
“irricominciabile”. Non aggiungere una seconda e una terza volta alla prima, ma portare la prima volta all’ennesima potenza. Sotto tale rapporto della potenza, la ripetizione si rovescia interiorizzandosi; come dice Péguy, non è la festa della Federazione a commemorare o rappresentare la presa della Bastiglia, ma è la presa della Bastiglia che festeggia e ripete per prefigurazione tutte le Federazioni.
Ecco, qui ci siamo. La festa, attraverso la sua ricorrenza, ripete un irricominciabile perché non aggiunge un evento a un altro ma intensifica l’unico evento. Come il Natale, che celebra la nascita di Cristo e che, 2.022 anni dopo, continua a farlo, in un presente contemporaneo a quel passato remoto. Il prossimo 25 dicembre non festeggeremo la nascita di un bambinello appena nato ma, per la duemillesima volta, la stessa nascita dello stesso Cristo che viene intensificata dalla sua ripetizione, ma non annullata nella generalità della nascita e della ricorrenza. Ripetere allora significa rimettere in circolo una stessa idea, l’idea della differenza in quanto tale. La nascita di Gesù è unica e irripetibile e la ripetizione del Natale è il comportamento che si tiene davanti al singolare nella sua unicità e irripetibilità. La Sfortuna di Paperino è unica e irripetibile e la successione delle sue sfortune è il comportamento che teniamo davanti alla singolarità paperinesca, e ogni caduta e ogni capitombolo non aggiungono altri eventi uguali e interscambiabili ma ne intensificano la sfortuna. La rendono, per tornare a noi, stereotipica.
Allora, forse, possiamo parlare di ripetizione come universalità del singolare, piuttosto che come generalità del particolare. Ed ecco il secondo livello della comicità di Emanuela Fanelli: lei non si limita a trattare stereotipi con originalità ma riesce a creare nuovi stereotipi universali e singolari attraverso la ripetizione. Vediamo come, prendendo come esempio il mio personaggio preferito del suo pantheon, che assomiglia sempre più al gonnellino senza fondo di Eta Beta: la scrittrice erotica Fanuela Manelli. Dopo i convenevoli iniziali con Lillo e Greg, in cui si mette apertamente in discorso il tema dell’imbarazzo nello scrivere romanzi osé e l’importanza dell’eleganza nel trattare questioni di sesso su carta, Fanuela propone di leggere alcuni passaggi del suo libro:
Annalisa era da poco tornata in città dopo il suo lungo Erasmus in Spagna. I genitori erano curiosi di sapere quali voti avesse preso, ma lei non sapeva come spiegargli che quello che aveva preso di più in quei mesi non erano i voti, ma tanti bei ca…
In quel momento Lillo scoppia a ridere e Fanuela si scopre imbarazzata da ciò che ha appena letto, come se non fosse stata lei a scriverlo (ed effettivamente chissà chi è stato davvero, quale Fanelli l’ha scritto, e se mai esiste un grado zero fanellesco). Poi lo sketch va avanti ripetendosi continuamente, con altri brani letti ad alta voce, sempre più volgari, e le stesse reazioni della lettrice, sempre più dissociata dalla sua opera.
Oppure, ancora, la chef entomofaga Samuela Fanagli, che porta in studio piatti deliziosi cucinati con gli insetti, il cibo del futuro, ma quando li assaggia le fanno schifo, ripudia tutto e consiglia di sostituire i coleotteri con i gamberetti. Non paga, torna in un’altra puntata di 610, con lo stesso personaggio, facendo la stessa gag e cambiando solamente nome (Noela Fallini) e ricetta – per i puristi: maltagliati ai coleotteri e trofie con zucchine, fiori di zucca, pomodorini e larve di scarabeo.
Emanuela Fanelli non si limita a trattare stereotipi con originalità ma riesce a creare nuovi stereotipi universali e singolari attraverso la ripetizione.
Infine, per chiudere in bellezza, la filosofa Emanuela Carabottoli, in studio per parlare della metafisica di Karl Jaspers. Mentre discetta di trascendenza e di altre parole difficili con competenza e rigore, iniziano ad arrivarle delle telefonate di vari personaggi equivoci come Er Catenina e Er Pantofola, insieme ai quali ride, litiga e si diverte chiacchierando della notte appena passata, quando si è sbronzata malissimo ed è andata con il ragazzo sbagliato. Il tutto in romanesco stretto, per poi tornare seria su Jaspers e ritornare coatta al telefono, e così via.
Ecco, la scrittrice erotica che si vergogna di quello che ha scritto, la chef entomofaga a cui fanno schifo gli insetti e la filosofa che alterna vette metafisiche a bassezze da burina, non sono stereotipi, non sono ruoli predefiniti con un’archeologia di personaggi passati a cui fare riferimento, come invece erano l’influencer, la politica e la ex ossessionata. Non sono stereotipi ma lo diventano dopo il trattamento Fanelli, e cioè la ripetizione della stessa gag, a partire dalle stesse premesse e arrivando alle stesse conclusioni. Fanelli imposta un personaggio (scrittrice erotica), lo recinta in una dinamica ricorrente (si vergogna di quello che ha scritto) e la ripete continuamente. Lo spettatore sa benissimo come si svolgerà la scenetta, non c’è mai un twist o una punch line, è semplice ripetizione del differente. Quando la guardi, prima ridi per l’idea di base – originalità dello stereotipo –, poi per la messa in scena – come parla, come gesticola e le cose che dice – e infine per la ripetizione stessa, la reiterazione continua delle peculiarità di un personaggio che diventa stereotipo all’interno di quel sistema di riferimento e che da lì si consegna all’immortalità.
Ah, poi metto le mani avanti, magari Emanuela Fanelli fa ridere solo perché è simpatica.