S ono trascorsi dodici anni dalla scomparsa dell’artista Pippa Bacca. Prima della morte non avevo mai sentito parlare del suo lavoro, anche se a Milano Pippa, che è cresciuta dalle parti di corso Garibaldi, era piuttosto conosciuta. Come mi ha riferito Elena, la madre, tante persone diverse tra loro hanno un suo preciso ricordo, anche solo perché la incontravano spesso per strada. È un dato che proietta un’immagine di Milano inconsueta. La città di Pippa Bacca è come un villaggio, dove, contrariamente a quanto accade nella realtà, i volti incrociati sul marciapiede ci sono famigliari da sempre e ricorrono come le figure di una giostra.
A febbraio del 2020, poco prima del lockdown, è uscito in sala un documentario sulla sua storia. Il titolo è Mi sono innamorato di Pippa Bacca, regia di Simone Manetti. A ottobre il film è tornato per qualche sera al cinema Mexico di Milano, dove ho avuto occasione di vederlo una seconda volta. Il documentario di Manetti mi ha permesso di conoscere aspetti della personalità, della storia famigliare e del lavoro di Pippa che non conoscevo. Tantomeno mi sembravano emersi negli articoli che le erano stati dedicati al momento della sua morte in Turchia.
Non sapevo che si mettesse continuamente in scena. Diceva di avere più personalità, e m’ingannerei – come Mattia Ascari, ex fidanzato di Pippa, mi ha aiutato a comprendere in una lunga chiacchierata – se intendessi il trasformismo quotidiano di Pippa come un derivato del lavoro artistico e non per quello che realmente era, cioè la sua vita e la sua normalità. Anzi, ciò che Ascari ha sottolineato più volte è che Pippa Bacca voleva essere riconosciuta come artista solo in virtù delle opere realizzate. Tutto ciò che stava al di qua, le continue invenzioni, le ritualità e assurde sperimentazioni che facevano parte della sua esistenza, non dovevano in nessun modo venire scambiate per progetti artistici.
Pippa Bacca era uno pseudonimo. Il vero nome era Giuseppina Pasqualino di Marineo. Pippa Bacca era quindi solo una delle cinque alter ego. Era l’artista. Poi, come raccontato dalle quattro sorelle nel documentario, c’erano le altre: Pippa Pasqualino di Marineo, lavoratrice in un call center; Eva Adamovich, nel duplice ruolo di curatrice della Fondazione Pippa Bacca e manager delle Bubble Gum, complesso vocale femminile; infine una supereroina, detta “Il coniglio verde”, apparsa molto di rado, il cui corpo nudo era coperto da un mantello verde. Pippa, del resto, indossava solo abiti di colore verde, circostanza menzionata anche in qualche cronaca. Si trattava del risultato di una decisione presa a un certo punto della vita, alla quale Pippa era rimasta sempre fedele. Ogni giorno vestita di verde.
Il documentario alterna interviste a materiale d’archivio. Il racconto si concentra su Brides on tour, l’ultimo lavoro di Pippa. L’8 marzo 2008, giornata internazionale della donna, Pippa era partita da Milano insieme a Silvia Moro, l’artista con cui aveva condiviso il progetto. Entrambe vestite con un vistoso abito bianco da sposa, volevano attraversare in autostop undici nazioni la cui storia recente era stata segnata da un conflitto o da tensioni sociali: dall’Autogrill Sebino di Erbusco, in provincia di Brescia, fino ai Balcani, al Libano, alla Siria, per poi arrivare a Gerusalemme. C’era l’idea, da parte di Pippa, d’incontrare un’ostetrica a ogni tappa. Pippa avrebbe fatto all’ostetrica una lavanda dei piedi, mentre Silvia avrebbe cercato delle ricamatrici o delle artiste, invitandole a ricamare sul suo vestito. A un certo punto le due si separano. Il 31 marzo, in Turchia, Pippa incontra la persona sbagliata, un certo Murat Karataş, un tizio con precedenti penali, sposato e con un primo matrimonio alle spalle. Karataş, dopo aver caricato Pippa in macchina, le fa violenza e la uccide. “O la uccide e la violenta”, aggiunge una delle sorelle nel documentario, forse per dirci quanto può disorientare e risultare lacerante, per chi ha voluto bene a Pippa, la circostanza brutale e inaggirabile di non poter sapere fino in fondo che cosa accadde nei suoi ultimi momenti di vita. L’11 aprile viene ritrovato il corpo. La notizia fa il giro del mondo, ma sembra lasciare un segno soprattutto in Turchia, ancor più che in Italia.
Vestite con un vistoso abito bianco da sposa, volevano attraversare in autostop undici nazioni la cui storia recente era stata segnata da un conflitto o da tensioni sociali.
Su internet non furono poche le persone che tra i commenti in coda agli articoli si scatenarono contro Pippa, anche se la maggior parte degli odiatori si riversò sul blog delle Spose, aperto da Pippa e Silvia prima di partire. Allora non esistevano Instagram, TikTok, le emoji reaction e il tasto Like, mentre Facebook e Twitter erano meno popolati e dinamici di quanto lo sono oggi; ecco perché l’odio riversato su Pippa Bacca sembra oggi una piccola anteprima di ciò che sarebbe diventato consuetudine più tardi.
All’indomani del fatto, molte donne e attiviste turche decisero di manifestare per strada vestite in abito nuziale. Un gesto militante, in un paese dove i diritti civili e delle donne cominciavano a essere messi in discussione. Eppure, osservato nelle immagini in primo piano di una conferenza stampa, opportunamente ripescate da Manetti e montate nel documentario, anche un individuo spietato come Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro e oggi presidente della Repubblica, sembra scosso, turbato. Forse, come tutti noi, è colpito non solo dalla mostruosità del delitto, ma dallo strascico di significati simbolici e allegorici, morali e perfino geopolitici, che l’uccisione di Pippa Bacca lascia alle proprie spalle, con il suo invito ecumenico così bestialmente annichilito.
A causa di una dismisura tragica scatenata in un imprevisto ultimo atto, Brides on tour diventa, in un certo senso, un’opera d’arte assoluta. I suoi effetti politici e morali, la sua capacità di scuotere e trasformare l’uomo o la donna che ne vengono a conoscenza, hanno spostato nell’estrema dimensione del sacrificio il progetto di viaggio in autostop pianificato da Pippa e Silvia Moro. Di fronte alla morte di Pippa può capitare di dividersi in due partiti: chi la ritiene un’ingenua, chi ne ammira il coraggio e l’idealismo. Siamo chiamati a scegliere se vedere nella morte di Pippa l’incidente di una sprovveduta che non ha capito come è fatto il mondo, oppure il gesto di qualcuno che sfida la possibilità del male, perché vuole farsi testimone del bene. Da questo punto di vista, la vicenda di Pippa Bacca sembra funzionare come un racconto, con il quale il lettore viene invitato a scegliere in quale morale credere e da che parte stare.
***
Un passo indietro. Non era la prima volta che Pippa si muoveva in autostop. Il legame tra Pippa e l’autostop è stato una passione, un’opzione scelta con fede ed entusiasmo, ma è stata anche una pratica coltivata per così tanto tempo da essere diventata un’abitudine, un fatto scontato e acquisito. L’autostop è stato per tutta la vita il principale strumento di viaggio di Pippa, utilizzato fin dall’infanzia e dall’adolescenza, e condiviso con le sorelle e la madre, Elena Manzoni di Chiosca, che da ragazza, negli anni Cinquanta e Sessanta, fu una pioniera dell’autostop. Ho avuto modo d’incontrare la signora Manzoni nella sua abitazione di Milano, la scorsa estate. Di Elena mi hanno colpito la vitalità e l’ironia. E una certa ilarità nervosa, scintillante, come tratto fondamentale del carattere. Mentre parla e racconta, infatti, Elena non può fare a meno di ridacchiare. Una continua e luccicante risatina è per lei un intercalare, un modo per spezzare il ritmo della frase, come un batterista alterna un colpo di pedale sulla cassa al fruscio delle spazzole sul rullante.
Ci siamo seduti in sala, di fronte a una splendida foto appesa alla parete. In quella foto ho visto due Pippa Bacca. Si tratta del renactment di Presunto ritratto di Gabriella d’Este e sua sorella Duchessa di Villars, dipinto del Sedicesimo secolo esposto al Louvre di Parigi. Non ho idea di come la foto sia stata realizzata. Di fatto ci sono due Pippa Bacca, o meglio: da una parte Pippa, con i capelli tagliati corti, e dall’altra, in parrucca, Eva Adamovich. Pippa indossa una salopette e tra indice e pollice tiene un capezzolo della sua alter ego, Eva, che posa a seno nudo. Eva Adamovich ha un corpo dall’incarnato niveo. È armonioso, seducente. Scopro la bellezza e lo splendore della carne di Pippa. Durante la conversazione con Elena non riesco ad evitare di alzare lo sguardo verso quelle due donne, ritratte in un rapporto di simmetria e reciprocità che ipnotizza e di cui ignoro il significato simbolico. Che cosa vuol dire quel tocco delle dita sul capezzolo? Riesco solo ad associarlo a una mano che gira la manopola di una radio. Ma non è così, ci sarà un motivo allegorico di mezzo, immagino. Oppure c’è solo la pura grazia del gesto, articolato in una posa sensuale ed enigmatica.
***
Le cinque sorelle, mi racconta Elena, sono tutte nate tra il 1972 e il 1979. Pippa nasce il 9 dicembre 1974. A un certo punto Elena e il marito si separano. Entrambi appartengono a famiglie dell’aristocrazia. Elena discende dal ramo di Chiosca della famiglia Manzoni. Le figlie crescono con la madre in uno degli alloggi popolari dell’ALER che si trovano ancora in corso Garibaldi. La mamma veste le sorelle tutte allo stesso modo. Nelle foto sorridono, sono felici. Vista con i loro occhi la vita è un grande scherzo innocente. Le unisce una serie di corrispondenze e somiglianze che si specchiano da un volto all’altro. Da adulte diranno di essere come parti di un solo neurone, con il quale sentono e ragionano, sempre collegate. Dopo la separazione, Elena acquista un furgone colorato ribattezzato “Arlecchino”, come indicato nella scritta sopra il vetro anteriore, con il quale lei e le figlie viaggiano per l’Italia e l’Europa. Nel 1986 in seguito a un incidente il furgone è distrutto ed Elena decide che è tempo di viaggiare a piedi o in autostop. Ecco come nasce la passione per l’autostop delle sorelle Pasqualino di Marineo. Ma non è una famiglia di hippie, semmai in casa delle Manzoni-Pasqualino di Marineo è un’altra la cultura. Si tratta di una famiglia cattolica, infatti, credente e praticante. Nel gioco dell’autostop non può che prendere forma un atto di fiducia, di affidamento al prossimo, che si combina con l’allegria e lo spumeggiante spirito di avventura che appartengono a Elena e alle figlie.
Elena da ragazza si spostava in autostop per andare da Milano al Lago di Garda e poi per viaggiare in Grecia, in Germania, in Francia. L’ultima volta che ha fatto l’autostop è stato appena qualche anno fa, insieme alla nipotina Emma, per andare a Mirabilandia. Oggi ha un furgone, attrezzato con un letto, che usa per girare l’Italia e ritrovare amici e amiche sparse per diverse regioni. A differenza di Pippa, non ha mai tenuto una memoria degli incontri fatti in autostop. Pippa, al contrario, fotografava tutti quelli che le davano un passaggio e a un certo punto aveva iniziato a registrare le conversazioni. “Ecco un’altra reliquia, un’altra opera”, penso tra me e me, mentre Elena racconta. Aggiunge che Pippa un anno vinse una specie di torneo per autostoppisti che si era tenuto in Russia e che un giorno, in autostrada, accostò per darle un passaggio l’attrice comica Luciana Littizzetto.
“I popoli, dal punto di vista autostoppistico, cambiano”, osserva Elena. “C’è una prima fase segnata da una diffusione ancora modesta dell’automobile, in cui si trova passaggio con facilità. Prendono su tutti. O magari vedono qualcuno a piedi per strada e viene naturale accostarsi e chiedere se si ha bisogno di un passaggio. Poi una seconda fase, in cui l’automobile diventa un bene conquistato con fatica e posseduto con gelosia, allora l’autostoppista è guardato con diffidenza, come una minaccia. Le forme organizzate che vanno di moda oggi”, dice Elena alludendo a servizi mediati da piattaforme come BlaBlaCar, “non hanno niente a che fare con la filosofia dell’autostop”.
Elena mi racconta non solo che Pippa era già stata una volta in Turchia, ovviamente in autostop, ma che ancora prima in Turchia erano andate tutte insieme, in furgone. “Un giorno una signora ci aveva visto parcheggiate col furgone, io e le cinque bambine, allora questa signora aveva preparato dei biscotti casalinghi e ce li aveva portati insieme a del latte appena munto. In Turchia c’è un grande rispetto per le mamme. Quando nel 2008 sono stata intervistata dalla tv e dalla stampa turca, avevo fatto appello ai turchi e alle turche, chiedendo di pensare a Pippa come se fosse una loro figlia o una loro sorella. Per i musulmani la sposa è sacra, inviolabile. Pippa lo sapeva ed era convinta che l’abito da sposa l’avrebbe protetta”.
Quando mi alzo dalla sedia per salutare e andarmene, Elena mi domanda: “Ma come, te ne vai già? E di Pippa non mi chiedi nulla?”. Le ho fatto una raffica di domande, ma in effetti tutte sullo stesso argomento: l’autostop. M’interessava approfondire la circostanza così specifica di una famiglia cattolica di sole donne, che pratica con tanta assiduità ed entusiasmo un vecchio costume libertario e controculturale come l’autostop. In questa vicenda, mi sembra, è contenuto un grado di complessità, di libertà e contraddizione, che il nostro presente, forse, è meno in grado di cogliere. A maggior ragione la famiglia di Pippa Bacca continua a essere per me motivo di curiosità, di un desiderio di scoprire, comprendere, che tuttavia si scontra con un fatto: ciò che in me provoca stupore, per Elena e le figlie è sempre stata la normalità.
Una famiglia cattolica di sole donne, che pratica con tanta assiduità ed entusiasmo un vecchio costume libertario e controculturale come l’autostop.
“E di Pippa non mi chiedi nulla?”. La domanda di Elena mi lascia intuire come la testimonianza e la trasmissione della memoria siano una questione importante, un compito prezioso, per lei e il resto della famiglia. Anzi, ho messo a fuoco come e quanto Elena ami e rispetti la memoria di sua figlia. Ma avevo esaurito le domande, non avevo altro da chiedere e, vergognandomi, me ne sono andato. La verità è che mi sentivo sopraffatto, saturo di racconti, dati e notizie che ruotavano intorno alla storia di una persona che in vita fu di un’esuberanza ed elettricità tali da essere ancora viva tra le maglie del tempo e dello spazio, tanto che la si può considerare presente e attiva in questo mondo, e perciò ho avuto bisogno di uscire in strada e provare, pur in mezzo all’afa, a rimettere le idee in ordine.
***
Piero Manzoni, il celeberrimo artista concettuale, scomparso nel 1963 poco prima di compiere trent’anni, era il fratello di Elena. Manzoni, figlio del conte Egisto Manzoni, è passato alla storia per i famigerati novanta barattolini di “Merda d’artista”, forse perché il genere scatologico attira, ha successo, suscita sempre un certo scalpore, ma esistono opere di Manzoni meno citate e forse più sottili e brillanti. Per esempio “Socle du Monde”, un piedistallo rovesciato in modo da farsi supporto per il pianeta Terra, che diventa così un’opera d’arte (o un’opera d’arte firmata da Piero Manzoni); e poi le “Sculture viventi”, esseri umani in carne e ossa, che mi piacerebbe un giorno poter incontrare e intervistare, a suo tempo autenticate da Piero Manzoni e tramutate in opere d’arte. Oggi Rosalia, detta Rosie, figlia di Elena e sorella maggiore di Pippa, dirige la Fondazione Piero Manzoni, che ha sede a Milano in zona Bovisa. Incontro Rosie a luglio, qualche settimana prima di Elena. Rosie, che somiglia molto a Pippa, mi rivela che anche Piero Manzoni era stato un’autostoppista. Lo avevo raccontato lui stesso nei suoi diari. Poi mi accenna a opere di Pippa di cui non sapevo nulla. Per esempio le cosiddette “Boulles de brouillard”, grossi barattoli di vetro, del genere usato per le conserve, dove la sorella aveva infilato delle piccole foto stampate. Si trattava di ritratti di persone scattati per strada a Milano, nel 2007. I barattoli venivano successivamente riempiti di grappa e farina e poi agitati. Grazie alla dispersione dei granelli di farina nel liquido, veniva ricreato intorno ai soggetti l’effetto della scighera, cioè il velo di nebbia che in inverno si alza in città, offuscando edifici, auto e pedoni, così tipico della Milano anni Cinquanta tramandata nei film, nelle cronache fotogiornalistiche e in un romanzo come Il Ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori. Gli omini sospesi dentro le nebbiose “Boulles de brouillard” ricordano le creaturine chiuse nelle ampolle di vetro della tradizione alchemica, così come l’azione di mescolare grappa e farina equivale a un atto magico con il quale il tempo viene shakerato, manipolato, invertito, fino a materializzare in vitro il frammento di un’epoca scomparsa. Un altro lavoro consisteva nel prendere le foglie di una certa pianta e ritagliarle con le forbici fino a riprodurre i contorni della foglia di un’altra specie vegetale. Inoltre Pippa amava scrivere lettere. Per un periodo scrisse ogni giorno una lettera che veniva spedita al Quirinale. Destinatario l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Entrambi erano nati il 9 dicembre. Pippa voleva organizzare una mostra collettiva insieme ad altri artisti nati come lei il 9 dicembre, evidentemente includendo Ciampi nella categoria.
Rosie, infine, scava in fondo allo scrigno dei ricordi e ne viene fuori un’ultima perla. Per un periodo Pippa frequentò un ragazzo di Bergamo. “Hai presente la stazione di Bergamo?” mi chiede Rosie, “c’è una fontana nel piazzale”. Pippa aveva dato appuntamento al ragazzo di fronte alla stazione e si era fatta trovare nella vasca della fontana vestita da sirena. “A proposito” conclude Rosie, “ci sei il 17 agosto?”. Rosie m’invita alla traversata a nuoto in memoria di Pippa che si tiene ogni anno sul Lago di Garda. Purtroppo quel giorno sarò nel mare di Creta.
Incontro Mattia Ascari a settembre. Ci conosciamo, ma non sapevo che avesse avuto una relazione con Pippa. Lo scopro per caso, grazie a un lungo post su Facebook. La personalità su Facebook di Mattia è discreta e silenziosa, perciò sospetto che il lungo post sia stato provocato da un ricordo smosso da un fondo e riaffiorato all’improvviso, che lo ha costretto a espettorare pubblicamente il rigurgito. Nel post scrive di un gioco che faceva con Pippa. Consisteva nell’invenzione di toponimi lombardi, di fantasia ma verosimili: Brusello, Carugnago, Brosoglio, Frantagliate, Ferniate, Frotagnaga, Gavrello, Frangate, Frovagnasco, Tremasco, Savagnate…
Il rapporto con Pippa risale a molti anni fa. Primi anni Duemila. Ecco il grande rammarico di Mattia: il momento in cui Pippa scomparve arrivò nel periodo in cui il loro rapporto era diventato maturo, fatto di telefonate e di un puntuale ritrovarsi, di vera amicizia, di scambio, insostituibile. Rimpiange di non poter più contare su un’amica e un’intelligenza tanto speciale. “Pippa ascoltava tutti” dice, “si lasciava plasmare dai pensieri e dai giudizi degli altri, ma sempre per trovare soluzioni personali, giochi mentali o reali e nuove direzioni da intraprendere”. In questo senso, dice, Pippa è stata una delle forme d’intelligenza più originali e autentiche da lui incontrate. Ne parliamo davanti a un bicchiere di birra all’aperto, finché non diventa buio. “Quando le si diceva che la sua arte era nel suo quotidiano, Pippa provava fastidio. Perché, come ogni artista, voleva parlare attraverso le opere. Ma, come Pollicino, ha disseminato la vita propria e degli altri di una tale quantità di simboli e rituali – buffi, meticolosi, sciocchi, intelligentissimi – che era quasi impossibile non inciamparci dentro. Sono così tanti, e così ben orditi, che generano ancora ricorrenze e coincidenze”. Mattia mi racconta dei viaggi in autostop e delle lunghe attese tra un passaggio e l’altro. Pippa ne approfittava per insegnargli le preghiere in latino. Poi mi dice di un’audiocassetta che ogni anno registrava e che aveva legato a una festa, a una ricorrenza di sua invenzione. La data di quella festa va a sbattere contro un’altra data della vita di Pippa. La coincidenza mi sorprende. Quando invio a Mattia una bozza dell’articolo per un suo commento e approvazione, m’invita a eliminare alcuni passaggi sul racconto dell’audiocassetta, come se preferisse che un po’ di ombra si conservasse intorno al sancta sanctorum del ricordo. Accetto l’invito.
La vicenda di Pippa è una di quelle storie che, anche in chi non crede alle coincidenze, sollecita a spremersi in un ragionamento, a unire i puntini, per provare a capire qual è il disegno che ha preso forma nell’arco di una vita. “Per me l’immagine della sposa in bianco” dice Mattia, “che a un certo punto si è sovrapposta bruscamente a Pippa è, rispetto alla mia percezione di lei viva, qualcosa che potrei paragonare a ciò che è giunto a noi delle statue classiche; private del loro colore originario, del disegno delle iridi e delle pupille. Monumentali e imbiancate dalla Storia”.
C’è un’ultima coincidenza. È rivelata senza particolare clamore nel bellissimo documentario di Manetti. Dopo l’omicidio, Murat Karataş s’impadronì della telecamera di Pippa e la usò per filmare il matrimonio di una cugina che ebbe luogo in quei primi giorni di aprile 2008. Così, quando il nastro venne recuperato, si scoprì che oltre alle immagini di Pippa e Silvia Morro vestite da sposa, c’era un’ultima sequenza. La scena riprendeva la festa di un’altra sposa, come se a morte avvenuta la telecamera, animata da un misterioso istinto, avesse portato a termine il lavoro dell’artista.