Marco Taddei
/ Immagine:
Dell'ammazzare il maiale, Simone Massi
7.9.2021
I disgraziati di Simone Massi
Il disegno, l’animazione cinematografica, il territorio e la lingua: un’intervista all’illustratore marchigiano.
Marco Taddei è scrittore e sceneggiatore di
fumetti. È autore con Simone Angelini di Anubi,
Horus, Enrico e Quattro vecchi di merda
(Coconino Press) e di Malloy e Storie brevi e
senza pietà (Panini Comics). Ha scritto La Nave
dei Folli, edito da Orecchio Acerbo, con le
illustrazioni di Michele Rocchetti. I suoi articoli
sono stati pubblicati da Date HUB e The
Towner. Le sue storie sono apparse su testate tra cui Linus, Vieni verso il
Municipio, B-Comics.
H
o scoperto Simone Massi all’Università quando, grazie all’interesse del professor Paolo Marzocchi, ebbi modo di vedere da vicino, assieme al suo futuro collaboratore Stefano Sasso, il lavoro d’animazione La Memoria dei Cani. Era il 2006. Il mondo era molto diverso da quello di oggi e tante cose stavano cambiando: il cinema d’animazione era sempre più cinema di animazione digitale e il lavoro manuale, inquadrato in quell’ambito, era visto come un limite più che un valore aggiunto. La Memoria dei Cani mi sembrò straordinario. Una carrellata solenne dentro le cose tra masserie, campi di grano, lentissimi buoi, sguardi famelici di bambini. Un lavoro che non lasciava spazio al compromesso: prendere o lasciare. E ovviamente io presi, e a man bassa. Quindici anni dopo eccomi qua a presentarlo per introdurre questa intervista.
Se i premi hanno un peso, Simone Massi è un peso massimo: oltre 250 premi per 20 anni e passa di cortometraggi animati. Dal suddetto La memoria dei cani a Dell’Ammazzare il maiale, da Fare fuoco – ispirato ad un racconto di Jack London – a L’Infinito – è proprio quello di Leopardi – da Animo resistente a Tengo la posizione: la sua filmografia è una wunderkammer tutta da scoprire, reperire, mettere assieme.
Mesi fa la casa editrice Minimum Fax ha pubblicato Libro di disegni, che fa un po’ il punto sulla produzione dell’autore marchigiano – Simone vive a Pergola, un rifugio dove coltivare e reperire energie per il suo meticoloso artigianato animato – e rende bene l’idea del fatto che la sua laboriosa attività non è solo al servizio del mondo dell’animazione.
Il mondo di Massi è un mondo che rischia l’oblio e la sua opera è una testimonianza interiore che diventa memoria esteriore.
I disegni sono la monade da cui tutto parte. Tanti sono i volumi illustrati dal suo tratto riconoscibilissimo, che pare aprirsi con forza la via all’interno delle pagine, ma che poi serve le storie con incomparabile eleganza: La casa sull’altura, Il Maestro, Il topo sognatore ed altri animali di paese, per dirne giusto tre, in cui lavora su testi, rispettivamente, di Nino de Vita, Fabrizio Silei e Franco Arminio. D’assoluto interesse è anche Abbecedario, il vocabolario che ha composto in anni e anni di considerazioni sulla lingua della sua terra, l’alta valcesano. Un’ode accorata a quelle cose che pian piano si perdono, si dissolvono, nell’attrito con il contemporaneo.
Il mondo di Massi è un mondo che rischia l’oblio e la sua opera è una testimonianza interiore che diventa memoria esteriore. Tangibile, visibile. “I disgraziati di Simone Massi non possono essere colpevoli, sono fatti della carne dei partigiani, degli emigranti, dei contadini, degli operai”: questi disgraziati, come dice Ascanio Celestini nella nota d’apertura di Libro di disegni, sono volti che non esistono più, sono corpi che appartengono ad un secolo che sta svanendo. Ma non sono fantasmi. Non sono immaginazioni. Sono, appunto, carne. E l’epoca su cui le opere di Massi si affacciano è un’epoca di immaterialità, nella quale la parola memoria fa pensare ai gigabyte, non più all’esperienza, e le cose si dimenticano perché possono essere recuperate in qualsiasi momento. È un’epoca letale per la carne, ma ancora di più per lo spirito. La resistenza di un animatore tradizionale è importante anche per questo: salva lo spirito – spirito, beninteso, assolutamente laico.
Simone Massi è anche uno dei fondatori di ALMA, un’associazione che, preservando i disegnatori marchigiani, punta a salvaguardare il mondo dell’animazione e dell’illustrazione, non solo delle Marche. Un’iniziativa che ama un’arte così perigliosa e faticosa come il disegno è già da salvare dal Diluvio generale che affonda idee, impaluda iniziative e risorse nel resto d’Italia, ma un’associazione di addetti ai lavori che nasce per custodire i professionisti coinvolti in una sfera così sottile è davvero una creatura preziosa da amare e da cui potrebbero/dovrebbero nascere decine di esempi d’imitazione virtuosa, in un paese che si è – a buon titolo – sdoganato come la patria della bellezza. E sarebbe davvero paradossale se la Bellezza, che – si dice – salverà il Mondo, proprio in Italia, alla fine, non trovi più niente da salvare.
Per prima cosa, una domanda un po’ peregrina: perché hai scelto di utilizzare l’animazione come strumento creativo?
A ventitré anni, al termine dell’esperienza di lavoro in fabbrica, ho voluto cambiare il mio destino, tentando di diventare un disegnatore. La Scuola del Libro è stata una scelta fortemente voluta, l’animazione invece è capitata per caso, come ripiego, perché in effetti il mio desiderio era quello di diventare disegnatore di fumetti, sezione che all’epoca a Urbino non esisteva. Poi non sono più tornato indietro, perché capii da subito che quella del disegno animato era un’arte più completa e dinamica rispetto al fumetto, era cinema a tutti gli effetti. Un cinema primitivo, fatto con una matita e dei fogli di carta, ma proprio per questo più libero e con più possibilità creative rispetto a quello tradizionale. Non avendo a disposizione la potenza, la ricchezza e la bellezza dell’immagine riconosciuta come “reale”, dovevo per forza di cose lavorare sul suo contrario, sull’immaginazione che fa diventare vera una spada di legno, sulla sorpresa che ci coglie di fronte alla mutabilità delle forme, sulla forza di persuasione della parola e del suono che per un momento (il tempo che basta) rendono vera l’illusione. In questo, più che alla figura del regista classico, ho cercato di guardare ai prestigiatori, ai cantastorie, ai bambini.
Mi piace molto questo passaggio decisivo dal lavorare in fabbrica a voler diventare disegnatore. Come ne hai preso coscienza?
Da bambini disegnare è una sorta di dovere e soltanto nella mia compagnia ce n’erano tre che disegnavano anche meglio di me. Ma negli anni in cui sono stato bambino tutti sapevano che il disegno non poteva diventare un lavoro e per questo, al pari di altri giochi, veniva smesso col crescere. Io invece sfuggivo a questa regola, il disegnare non smetteva di piacermi e continuavo: alle medie, in fabbrica, sotto militare. In caserma c’era un furiere, un tipo rotondo e pacifico che mi ricordava mia nonna materna. Aveva visto i miei disegni e un giorno mi disse che dovevo prendere la via di Urbino e riprendere gli studi. Lo disse una volta o due ma bastò per mettermi l’idea in testa e a farla ronzare di lì in avanti. Provai a tirarla fuori, a confidarmi con gli amici, in particolare con uno dei tre che disegnava da bambino. Un giorno presi coraggio e gli proposi di iscriverci alla Scuola di Urbino ma l’amico rispose lapidario che non aveva senso. Fui costretto amaramente a dargli ragione, era troppo tardi. Più di tutto mi spaventava questa immagine: una classe di bambini freschi di studio e con la memoria allenata, in mezzo a loro un “lonzone” di nove anni più vecchio, che balbetta alle interrogazioni. Di lì a poco finimmo entrambi, io e il mio amico, in una grande fabbrica di Fabriano, a catena. Gli operai più giovani ci dicevano di andarcene subito, perché dopo un po’ ci saremmo abituati e non avremmo più visto il posto e il lavoro per quello che erano: un inferno. Sapevo che avevano ragione e il calcolo era facile: mi spaventava infinitamente di più la prospettiva di sprecare la vita a quel modo rispetto all’immagine che ho detto prima. Così un sabato andai a Urbino a chiedere informazioni sulla Scuola d’arte. Il segretario parlava in cagliese (dialetto di Cagli, nelle Marche ndr), fu bravo, rassicurante. Continuava ad essere tardi, d’accordo, ma mi dissi che avrei corso, avrei recuperato il tempo e ripreso chi mi stava davanti. Il ronzio cessò di colpo e a settembre sarei tornato a scuola. Quando lo dissi a Venanzio, il mio anziano compagno di linea, disse che ero matto. Ma non gli diedi peso, Venanzio c’era stato troppo, lì dentro, e non riconosceva più il posto e il lavoro per quello che erano.
E a scuola poi com’è andata?
C’era l’imbarazzo di stare in mezzo a dei bambini, avevo tutti gli occhi addosso. Non potendo confondermi feci il possibile per sembrare più vecchio, mi feci crescere barba e capelli. Poi li ho tenuti in quel modo per venticinque anni. I miei compagni di classe si abituarono alla mia presenza, presero a chiamarmi “nonno”. Andavo d’accordo con tre-quattro di loro ma rimanevo perennemente accigliato e sulla difensiva, pochissima voglia di discorrere e perdere il tempo. In breve cominciò a circolare la voce che ero un infiltrato della digos, una sorta di Serpico. C’era un pugno di ragazzini perennemente davanti ai bagni in attesa di entrare a fumare l’hashish. Quando mi vedevano spuntare dal corridoio smettevano di parlare di colpo e guardavano nel vuoto con aria preoccupata.
Come lavora un’artista dell’animazione nel nostro Paese? Quali sono le sue possibilità, quali i suoi percorsi?
In Italia l’animazione è sempre stata intesa come prodotto per bambini e chi decide di prendere un’altra direzione, inevitabilmente fatica. Non esiste produzione, non esistono canali di diffusione o distribuzione. I festival specializzati sono l’unica vetrina a disposizione. Tutto questo l’ho scoperto subito dopo la scuola e da allora sono passati venticinque anni. Per dire che la mia è stata una scelta consapevole. E il voler continuare comunque può voler dire qualcosa che va oltre la mia persona e il piccolo mondo del cinema d’animazione. “E invece si può”, era un meraviglioso slogan elettorale, poi ripreso maldestramente dal partito Walter Veltroni che tagliò la parte più bella, quella iniziale (e perse le elezioni).
Il tuo lavoro è fatto di scelte ben precise, spesso anche molto estreme. Ed è anche questo che rende il tuo lavoro così affascinante e così importante. Potresti parlarci della natura di questa “resistenza”?
Non so bene cosa dire a riguardo, quello che faccio segue un istinto e un indole, non mi sono mai messo a ragionare sul perché di certi comportamenti e certe scelte. Posso provare a dire qualcosa di me, sperando sia di qualche utilità o abbia qualche connessione con la tua domanda. Sono molto legato alla mia famiglia e alla mia terra, mi riconosco doti di tenacità, determinazione e pazienza. Refrattario alle mode e al compromesso, non sono mai stato interessato ai soldi, al potere, al successo. Mi interessa invece cercare, salvare, capire, tenere a mente.
Vedo nel tuo cinema d’animazione un lavoro continuo sulla memoria, una proiezione del passato che parla ai cuori del presente. Che rapporto hai con il tempo?
Lo vivo come tutti, credo, con nostalgia di alcuni periodi, imbarazzo per altri, difficoltà a capire come ha fatto a passare così in fretta e soprattutto dove è andato a finire. Il mio amico Marino Severini dei Gang canta “Corrono i miei anni, vanno sotto gli occhi” e magari è così che va l’intera faccenda. Ma nel lavoro sento il dovere di andarci a frugare, sotto agli occhi miei e quelli di chi è venuto prima. Perché il presente ce l’abbiamo tutti davanti e si racconta da sé, il futuro è dei profeti (di sventura), il passato invece è una bestia completamente differente, sfumata, nascosta e misteriosa, perché dice anche di noi, di quello che siamo adesso. Il tempo passato è insieme immaginazione e obbligo allo scavo, una sorta di ritorno all’infanzia.
A proposito di questo obbligo allo scavo, potresti parlarci della tua esperienza legata alla produzione e alla realizzazione del cortometraggio Dell’Ammazzare il maiale per cui hai vinto il David di Donatello nel 2012?
Venivo da un’esperienza parecchio avvilente, il cortometraggio precedente, il primo che aveva ottenuto una produzione, ebbe una gestazione tribolata e non andò bene ai festival. La produzione francese pensò bene di scaricarmi, liquidando il progetto nuovo con quattro parole “nessuna drammaturgia, nessuna poesia”. Fu una bella botta, al punto che accarezzai l’idea di smettere di disegnare e tornare in fabbrica. Il film doveva essere un omaggio a mia nonna Zelinda, contadina, analfabeta, persona straordinaria che era mancata pochi anni prima. Ripensando a lei, alla vita che aveva fatto, trovai lo spirito e la rabbia per realizzarlo. Mi rimboccai le maniche e ripresi a fare quello che avevo sempre fatto, un film per conto mio, senza soldi. Lo finii dopo un anno e mezzo, lo spedii a Torino e qualche mese dopo all’Accademia del Cinema Italiano. Dieci dvd, poi altri dieci perché i primi non erano mai arrivati. Non arrivarono mai nemmeno i secondi, nonostante la raccomandata con ricevuta di ritorno. Il giorno prima della scadenza del bando la segreteria del Premio mi contattò direttamente, mi chiese un link per poter visionare il cortometraggio. È così che è andata. Quando mi comunicarono il premio mi sono venute in mente tante cose, non sapevo se ridere o piangere. Dell’ammazzare il maiale è tutto il bene che voglio alla mia famiglia ma anche il manifesto di chi non ne vuole sapere di abbassare la testa e darsi per vinto.
Il tuo cinema è un cinema delle cose minime, così preziose per la tua poetica. A parte vedere i tuoi film, cosa può fare un individuo per scoprire questa sfera delle piccole cose?
Vulnerabilità. Non mi sento di andare oltre questa parola perché è una domanda a cui non so rispondere come vorrei, cioè senza cadere in riflessioni e consigli che mi costringerebbero a salire su uno scalino o a pormi dietro a una cattedra, cosa che nei limiti del possibile ho sempre evitato di fare, anche per manifesta inadeguatezza.
Il mondo dell’animazione d’autore è un mondo imperdibile, ma nonostante tutto ha ancora parecchie nicchie nascoste, anche per i suoi estimatori. Sarebbe possibile sapere quali sono gli autori e gli artisti che segui oggi?
In realtà non sono né un grande esperto né un appassionato di cinema d’animazione. L’ho studiato e mi piace farlo, è indiscutibile, ma non è che mi interessi più di tanto essere aggiornato su tendenze, sviluppi e scenari futuri. Il disegno e il sonno mi prendono gran parte della giornata, quel che rimane è per figli e moglie. Se riesco a cavare un’ora cerco di non sforzare ulteriormente la vista, faccio due passi o mi metto fuori a parlare con gli anziani vicini di casa. Mi interessa molto la parola parlata e in particolare quella dialettale. D’inverno si sta in casa e c’è un pochino più di tempo per letture, ascolti e visioni. Anche se alla fine gli autori e gli artisti che seguo sono sempre gli stessi, Andrej Tarkovskij, Theo Angelopoulos, Wim Wenders, Cesare Pavese, Italo Calvino, Smiths, Nick Cave, Ride, Pixies, Spacemen 3. Dei “nuovi” ti dico Nuri Bilge Ceylan, Pietro Marcello, Andrea Bajani, Giulia Caminito, Editors, National.
In quest’epoca di parole scritte, forzatamente e a volte orribilmente, sui social potresti parlarci della tua esperienza sulla parola parlata? So che hai realizzato un dizionario – Abbecedario, edito da Ecra – che contiene più di 12.000 voci frutto di anni di appunti e riflessioni sull’etimologia dei termini in uso nel pesarese. Ho avuto il piacere di sfogliarlo a casa di un amico e, oltre ad essere un lavoro davvero straordinario sulla praticità della lingua, penso sia uno dei lavori in cui più chiaramente ti misuri con la tua poetica delle piccole cose…
Umberto Piersanti dice che Abbecedario è qualcosa di più di un atto d’amore nei confronti della mia terra. Il poeta ha un occhio diverso e capisce per primo le cose. Per quello che mi è costato in termini di fatica e di notti insonni il libro va talmente oltre l’atto d’amore da rasentare l’impresa disperata e folle. Ma perché? Perché era necessario e nessuno voleva farlo. Perché nessuno è riuscito a capire il valore di un dialetto che è stato quasi sempre motivo di imbarazzo o addirittura vergogna per chi lo parlava. Una lingua da ripulire e ripudiare alla svelta, nel momento in cui dalle campagne si scende in città, perché tradisce l’origine (miserabile) di chi la parla. E alla fine è per questo che il dialetto pergolese muore, per vergogna. Io ho pazienza, tenacia, e soprattutto non mi sono mai vergognato di quello che mi hanno lasciato in sorte i miei avi e in generale tutti quelli della mia razza: evidentemente toccava a me il compito di cercare di salvare qualcosa. Nessuna vergogna, piuttosto la piena consapevolezza che l’agiatezza di oggi la dobbiamo a chi, per secoli, è stato costretto negli stracci a storpiare le parole, bestemmiare il cielo e sputare in terra.
A ben guardare Abbecedario non è diverso dalle mie animazioni, è atto d’amore, appunto, omaggio sentito e commosso a chi è stato costretto dalla Storia e da secoli di governi criminali a una vita di stenti e vessazioni.
Rimanendo nelle Marche, so che fai parte e sei uno dei fondatori di una cosa incredibile: ALMA, un équipe di addetti ai lavori che cura e a cuore il variegato e eccezionale gruppo degli animatori marchigiani, che è una straordinaria enclave di creativi all’interno del panorama italiano. Da questo punto di vista la vostra iniziativa è da esempio per tutto il Paese. Come mai c’è stato bisogno di creare un gruppo del genere?
ALMA è nata in piena pandemia, la sua creazione, il confronto continuo con Sandro, Stefano, Elisa e Magda è stato per me uno dei momenti più stimolanti ed emozionanti in assoluto. Il bisogno nasce dalla presa di coscienza dell’isolamento che ha sempre caratterizzato gli animatori indipendenti marchigiani. Isolamento che, voglio essere chiaro, non ci ha fatto del bene. Perché nonostante le centinaia di premi e i riconoscimenti internazionali, ha dato l’alibi a chi, negli ultimi vent’anni, non ha visto o ha fatto finta di non vedere che i singoli autori erano e sono parte di un’eccellenza della regione Marche, quella del cinema d’animazione poetico e d’autore. Eccellenza che a parer nostro deve essere riconosciuta, tutelata e sostenuta.
Impegno, pazienza, ricerca, niente di tutto ciò: da dove deve cominciare un giovane artista dell’animazione?
Dipende da persona a persona, ovvero da quello che si è, da quello che si vuole, da quello che si è disposti a fare. Nel mio caso è contato molto l’arrivare tardi e per vie traverse. Il tempo e il carico di esperienze accumulate (esperienze che per anni ho visto come errori o addirittura ingiustizie) mi hanno chiarito le idee su quello che davvero volevo, mi hanno arricchito e aiutato a tirare fuori il meglio.
Il decalogo di Jan Svankmajer, scritto nel 1999 è, a parere di tanti, una guida ineccepibile nei territori impervi della creazione artistica. A chiusura del decalogo si legge che l’artista non deve mettere mai la sua opera al servizio di qualcosa di diverso dalla libertà. Secondo te gli artisti di oggi servono ancora la libertà? E in quali condizioni si trova la libertà di espressione nel 2021?
Per poter rispondere bene bisognerebbe conoscere tutti gli artisti ma credo di non sbagliare se dico che la stragrande maggioranza degli uomini (e dunque anche degli artisti) fa un lavoro che non ama e, di fatto, ha dovuto rinunciare alla propria parte di libertà. Più in generale: da qui, dal mio minuscolo osservatorio di Pantana di Pergola, di libertà di espressione mi pare ce ne sia come mai prima. Ci sono milioni di canali in cui ognuno ha facoltà di parola e di insulto. Milioni di persone che urlano, offendono, minacciano e siedono tutti costantemente, inesorabilmente, dalla parte della ragione. Forse non era esattamente questa la libertà sognata e comunque, di fronte a un quadro del genere, o si accetta di farne parte oppure, per contro, si cerca di prenderne le distanze, spegnendo i canali, le luci, le grida.
Prima di terminare un’ultima, ingenua, domanda: la poesia, che cos’è secondo te?
Ci sono stati dei momenti in cui ho pensato e detto e scritto che la poesia è il tentativo, commovente e miracoloso, di elevare l’uomo da terra. Non ricordo a chi la rubai e comunque rientra nel campo delle risposte ad effetto. Oggi penso sia più indicato rispondere alla maniera di David Byrne. Nei primi anni ’80 vidi una sua intervista, invero non ci capii moltissimo. Il leader dei Talking Heads indossava una giacca enorme, in modo che la sua testa sembrasse molto piccola. E ad un paio di domande “scomode” (una sull’uso di droghe, mi pare di ricordare) rispose al sé stesso che lo interrogava: “Te lo dico dopo”.