G iocando a quei videogiochi in cui un peso decisivo è accordato alla trama e alla costruzione del mondo si prova spesso una tensione fra il piacere dell’abbandonarsi a un panorama fantastico e l’intenzione di scoprire, procedendo nel gioco, il segreto di quel mondo, che c’è sempre e spesso è nascosto, rapito, in ostaggio dei cattivi della storia. Ho giocato con qualche tempo di ritardo – la prima edizione esce nel 2019, la versione Final Cut nel 2021 – ma di filato a Disco Elysium, che mi ha riconsegnato qualcosa di quella tensione che provoca una gioia quasi infantile: “un jour je serais de retour près de toi”, un giorno tornerò vicino a te, come recita un graffito che appare, nel corso del gioco, a coprire una piazza, in maiuscole rosse.
L’aspetto fondamentale di Disco Elysium è la scrittura, già da un punto di vista puramente quantitativo. Per darne un’idea, la trama, i dialoghi, le descrizioni di azioni e luoghi, di abilità e pensieri del protagonista ammontano – come riporta l’autrice Helen Hindpere – a più di un milione di parole. Secondo Wikipedia, stiamo parlando di qualcosa di vicino alla Ricerca di Proust, per dare una misura quantitativa. La narrazione è il medium in cui si gioca Disco Elysium, così come un mazzo di carte è il medium in cui si gioca la briscola, e dalla narrazione si deve partire.
La storia si apre con uno schermo nero e alcune frasi rivolte, qualche momento prima del risveglio, dal sistema nervoso centrale del protagonista al protagonista stesso, che ci rappresenterà nel gioco. Il risveglio è spiacevole: anche accendere la luce è doloroso (ci infliggerà dei danni). A questa già misera condizione si aggiunge che non sappiamo come ci chiamiamo, chi siamo, cosa ci facciamo in questa stanza, dove sono le nostre scarpe. Nei primi minuti di gioco diventa chiaro che abbiamo trascorso gli ultimi giorni a perdere coscienza con tutte le sostanze che abbiamo trovato. Trascinandoci al piano inferiore dell’edificio in cui ci troviamo, incontriamo un collega, poliziotto, che un po’ schifato dalle nostre condizioni ci informa che siamo un detective e che dobbiamo indagare su un caso di omicidio: da circa una settimana, sul retro del luogo nel quale alloggiamo, un cadavere si decompone appeso a un albero. Lo scopo del gioco è risolvere il caso d’omicidio e la partita si conclude a soluzione del caso.
Il giallo apre in effetti tutto il ventaglio di associazioni canoniche. Non solo giochiamo a una narrazione, ma ci è anche richiesto di condurre, per vincere, una delle operazioni narrative per eccellenza: ricostruire le catene causali al passato per sciogliere un enigma, cioè comprendere qualcosa al presente. È inoltre evidente che la soluzione del caso dipende dalla soluzione di un secondo enigma, che riguarda ciò che abbiamo apparentemente dimenticato della nostra vita di detective: dove abbiamo perso il distintivo, la pistola, l’uniforme? Chi abbiamo interrogato finora? Dove sono i nostri appunti? Questa corrispondenza fra i due ordini di misteri si fa progressivamente più curiosa: le situazioni, commentate dalle voci che sentiamo nella nostra testa, insinuano dubbi e indizi sulla nostra storia di individuo e testimoniano di una tremenda fatica a stare in vita, resa ancora più intollerabile da ferite passate che facciamo di tutto per dimenticare. Disco Elysium si gioca così in un medium narrativo in cui giallo ed esistenzialismo operano per intuizioni, allusioni, allucinazioni, profilando il cuore dei problemi che ci propone solo per via di cose dette a metà.
Scopriamo, procedendo nel gioco, che la realtà in cui ci troviamo ha visto l’avvento della rivoluzione comunista, fino al momento in cui il capitale ha ripreso con violenza il potere.
A questi due casi da risolvere, l’omicidio e la nostra vita, se ne aggiunge un terzo, che non è tanto più fondamentale, quanto piuttosto più singolare dei primi: riguarda infatti il mondo fittizio in cui gli eventi hanno luogo, in cui fisica e storia si corrispondono per analogia. Scopriamo, procedendo nel gioco, che la realtà in cui ci siamo svegliati ha visto l’avvento della rivoluzione comunista, fino al momento in cui il capitale ha ripreso con violenza il potere. Il paesaggio è popolato, nel porto mercantile in cui conduciamo le indagini, da personaggi disincantati, disperati, catatonici o spregiudicati; le case e gli edifici sono in rovina o tuguri; il controllo del porto è spartito fra mercenari, violenti, traumatizzati dalle guerre e al soldo della corporation di turno, e un sindacato cui fa capo un socialdemocratico, naturalmente corrotto. L’ordine è volatile, sull’orlo della rivolta civile, che intuiamo verrà domata sanguinosamente. Per di più, così come è labile e disperata la storia collettiva, allo stesso modo è labile e disperata anche la natura. Veniamo a sapere infatti che è la materia stessa, e non solo la società, a essere lacerata: fra le isole di realtà si distende una regione di non essere, di inesistenza, che è doppiamente più vasta di ciò che esiste, così ci viene detto, e sembra espandersi e consumare la materia. Storia e natura sono entrambe a frustoli e buche e noi, così come i personaggi che ci circondano, cerchiamo di sopravvivere in un mondo che si disgrega.
Omicidio, detective e mondo – e loro rispettivi enigmi – costituiscono così i tre muri portanti nel gioco. La partita consiste essenzialmente in interazioni con l’ambiente, i cui esiti sono spesso decisi da tiri di dadi virtuali, e nello sviluppo delle nostre capacità di detective, che influenzano sia le interazioni a noi disponibili sia i risultati dei tiri. Il gioco procede inanellando scelte e prese di posizione – spesso irreversibili – sia rispetto al mondo, sia rispetto alla figura con cui giochiamo, il detective. Molte di queste scelte riguardano infatti la nostra condotta: fumo una sigaretta? Mi sbronzo? Raccolgo i vuoti a rendere dalla spazzatura o intasco la mazzetta? Accetto il rischio di sparare alla bambina odiosa, pur di procedere nel caso? Mi abbandono a questa curiosa attrazione erotica per il cadavere? Le conseguenze di queste scelte influiscono in diverso modo non solo sul nostro alter ego, ma anche sul mondo fittizio e sulle disposizioni dei vari personaggi verso di noi. Accanto a questi posizionamenti legati più alla dimensione individuale dell’azione, ve ne sono inoltre di esplicitamente connessi alla dimensione collettiva, politica: collaboreremo con le logiche ultraliberiste? Sosterremo le operazioni del sindacato portuale? Cercheremo di stabilire una morale di polizia? Tenteremo di assumere una posizione neutrale? Proveremo a organizzare una cellula comunista?
Considerate dunque queste premesse, il rischio della pedanteria manualistica e della predica da pulpito è dietro l’angolo: materialismo dialettico e teoria critica per principianti, nella sciapa zuppa postumana o da realismo nuovo o speculativo. Questo rischio viene però evitato. La prospettiva non è tanto quella di un problema astratto o impersonale, che rimette a un compito ben eseguito la quadratura del cerchio. Al contrario, l’accesso alla questione sono le pastoie della nostra vita di detective. La lente attraverso cui giochiamo non è innanzitutto un puzzle di teoria, ma un dolore che incastra collettivo e individuale. Soffriamo di perdite di memoria a breve termine e oscilliamo fra paranoia, depressione e schizofrenia medicate a colpi di tossicodipendenze. Siamo tristi e in un mondo sconfortante. Non stiamo bene. Procedendo in questa valle di lacrime, scopriamo fra deliri, sogni e visioni che la nostra condizione disperata ha qualcosa a che vedere con un amore e una gioia perduti, che continuiamo a voler dimenticare a rimuovere, perché la loro perdita fu troppo dolorosa. Questo amore e il suo oggetto hanno tutti i tratti dell’amor cortese: la grazia, la distanza, l’idealizzazione, la luminosità, per di più bionda, dell’oggetto d’amore, con tutto il sarcasmo di incastonare questo genere di produzione culturale in un mondo quasi completamente disincantato. Intuiamo a ogni modo che in questo amore perduto è custodito il segreto del nostro personaggio, la cui soluzione implica, via corrispondenze che non tradisco per evitare spoiler, anche la soluzione dell’omicidio. Pare che a risolverci, in un modo o nell’altro, risolveremo anche il caso, ma non nel senso che la soluzione certamente si realizzerà, ma che in questo passato rimosso percepiamo come una promessa, un presagio, una direzione.
In questa costellazione, il videogioco annoda omicidio e biografia del detective con la storia collettiva. Procedendo nel gioco troveremo raffigurata, nei frantumi di una vetrata, in una chiesa dimessa, una sorta di semi-divinità della rivoluzione. Forse evento reale, forse mito, ci si profila davanti una figura femminile che si sovrappone al nostro amore perduto, alla nostra febbrile tensione verso di esso. La donna angelicata da amore cortese si ribalta così, parafraso Walter Benjamin, in un angelo della storia: trascinata dal futuro, dalla vita con un altro uomo per quello che ne sappiamo, si allontana e trasfigura nei nostri sogni e nei nostri deliri, guardando pietosa e forse indifferente noi, la vita del nostro alter ego e il nostro mondo, che stanno, a seguire l’analogia, per il cumulo di rovine.
La donna angelicata da amore cortese si ribalta così, parafraso Walter Benjamin, in un angelo della storia.
La convergenza di questi tre fili narrativi lascia trasparire il senso di Disco Elysium: in un mondo reso invivibile dal capitale si profila, per non-eroi che sopravvivono solo al cupio dissolvi, forse un campo eliso, promesso dalla soluzione dei tre enigmi. Questa sorta di speranza magra e amara permea tutto il gioco. Lo fa tuttavia non come una pace alla fine dello strazio, ma come una tensione a un cambiamento imminente, che però stenta ad arrivare, pur attraversando come una tensione tutta la storia. I personaggi che incontriamo vociferano infatti di un “ritorno”. Qualcosa dal passato deve, sembra stare per ritornare. Non si sa cosa né se accadrà fra giorni, mesi o generazioni. Questa percezione di imminenza è sostenuta, con gusto, dalla cura per i fondali di gioco e dalla colonna sonora: l’atmosfera è sospesa, vaga, esitante fra il ristagno e la totipotenza. Nei momenti in cui questa sospensione si agita, il ritorno imminente diventa protagonista della scena, come nel graffito che ho citato all’inizio e che vediamo apparire nella piazza principale del porto mercantile: un giorno tornerò vicino a te. A cosa si riferisce il graffito? Al nostro amore perduto? Alla liberazione dal lavoro e dalla merce? Alla materia cancellata dalla natura?
Nell’imminenza di questo ritorno enigmatico, non privo di tratti d’angoscia, si annodano i muri portanti del gioco e, su un piano meta-testuale, la scelta del giallo: la situazione individuale e storica è costituita da un enigma, che potrà risolversi soltanto arretrando nella storia, scoprendo cosa è accaduto. Ciò che troviamo arretrando è però frammentario, non riguarda tanto eventi conclusi, quanto speranze, amori, tentativi – falliti o stagnanti. Per questa ragione l’enigma non si può a tutti gli effetti risolvere, ma solo svolgere. Certo saremo in grado di scoprire chi ha ammazzato l’uomo appeso all’albero, però questo non esaurisce il problema: una volta che la storia di detective ha scoperchiato le folte associazioni esistenzialistiche, erotiche, storico-politiche, non c’è verso di chiuderle. Le speranze scordate, rimosse o represse forse non esigono, ma certo chiedono ancora e con insistenza di essere esaudite. La conclusione della narrazione è in un certo senso nello stesso calare: nessuna parusia, a caso risolto, pur con un minimo riscatto: solo l’attività umana che continua.
Nell’intreccio che lega a doppio filo eros, giallo e storia, nella cifra dello scarto temporale, di un ritorno o di una ripetizione che stentano a emergere, si esprime la coppia concettuale che mi sembra caratterizzare il gioco: stilnovo e rivoluzione. L’oggetto d’amore perduto, la soluzione dell’omicidio, il riscatto degli individui oppressi non coincidono, certo, ma si significano a vicenda. Al di qua della finzione narrativa, è difficile non vedere questa convergenza come una chiosa alla vita nel post-fordismo o nel tardo capitale.
La storia e la natura sono bloccate e traforate e, se certo qualche individuo è nella posizione di godere di una posizione di privilegio o ricchezza, la più grande parte della realtà, umana e non, è gettata in una stanchezza, una disperazione, un godimento autodistruttivo che non si lasciano più rattoppare da micropolitica o cura familiarizzata. In analogia rispetto a questo, il gioco non è privo di lirismo, ma è innanzitutto secco. Tuttavia, guarda senza severità, ma anche senza romanticismo o maledettismo a buon mercato, ai piaceri tristi e agli espedienti per tirare a fine giornata che noi e i personaggi che ci circondano continuiamo a scegliere. I compromessi di godimento infelice, spesso autodistruttivo, non vengono mai biasimati, ma presentati e interrogati nella loro tensione. Vivere è insopportabile e sarebbe grottesco rimproverare i piccoli espedienti dell’edonismo.
L’oggetto d’amore perduto, la soluzione dell’omicidio, il riscatto degli oppressi non coincidono, certo, ma si significano a vicenda. Quasi impossibile non vedere questa convergenza come una chiosa alla vita nel tardo capitalismo.
Eppure, questi non hanno l’ultima parola, lasciata invece a una certa mestizia, che si esprime e ribalta però nella richiesta ostinata di un’altra vita, di un altro mondo, a riscattare lo spreco di esistenza. Altro mondo e questa altra vita, infine, che non sono astratti ma emergono dalle speranze disattese, dai tentativi a vuoto fatti nella storia, sia collettiva sia individuale, senza sciocchi riduzionismi di sorta: amori perduti e rivoluzioni omesse possono essere compresi, vissuti, attivati allo stesso modo. Soprattutto non sono ancora esauriti, il loro sogno non è finito.
Certo le condizioni materiali del testo sono più nebulose e stanche che nello stilnovo che conosciamo. Nessun “incipit vita nova”, quanto piuttosto un “un jour je serais de retour près de toi”, pur non sapendo come né quando, è il motto che ridà il senso della narrazione ludica. Però, nello spazio incerto e amaro in cui si alternano disfatta e dissoluzione, si articola anche implicita, fra le righe, detta a metà, trasfigurata o sfigurata in visioni o deliri, la speranza che i giochi non siano fatti. Come scrive Ernst Bloch: “L’essere umano non è ancora a tenuta stagna, il percorso del mondo non è ancora deciso, concluso (…): questo elemento utopico è il paradosso nell’immanenza estetica”. Proprio in questo modo Disco Elysium riconduce, prodotto estetico a pieno titolo, fra stilnovo e rivoluzione, la disperazione al suo posto più proprio, e nello stesso luogo installa anche il baluginio di una vita non più nel capitale, fosse anche per poco e con altri fallimenti e altre lotte a venire.