

L a strada più semplice, di solito, è quella di tacere sull’argomento. Evitare di parlarne perché da qualunque posizione si provi a prenderla, la cosa farà discutere, e molto facilmente la discussione verterà verso il negativo. La disabilità, nel discorso pubblico come nella rappresentazione cinematografica, è una zona grigia, opaca, difficile da maneggiare senza cadere nella trappola dello stereotipo, del paternalismo e, da qualche anno, del politicamente corretto. Per decenni il cinema ha preferito lasciarla sullo sfondo o raccontarla attraverso figure marginali, funzionali alla narrazione di qualcun altro. Quando invece la metteva al centro, lo faceva spesso in termini estremi: o la tragedia esistenziale, o l’eroe che supera ogni ostacolo, o la metafora di un male più profondo. Fino ad arrivare a oggi, in cui si prova a intellettualizzare il tutto cercando di scardinare gli stereotipi del passato, facendo molto spesso peggio, creandone ulteriori. Senza voler essere troppo schematici, si potrebbe suddividere la rappresentazione della disabilità nel cinema in tre fasi. La prima la mostra come fenomeno da baraccone; la seconda propone rappresentazioni più empatiche, ma ancora intrise di stereotipi; la terza, quella contemporanea, è caratterizzata dall’inclusione e dalla tendenza a normalizzare il problema.
Il cinema degli albori, quando mostra la disabilità, lo fa facendola apparire come fenomeno da baraccone o stratagemma narrativo scioccante. Non tanto perché le persone disabili vengano rappresentate come cattive, ma perché sono viste come corpi fuori norma, curiosità biologiche, qualcosa da osservare con un misto di ripugnanza e fascinazione. Già nei film muti agli albori del Novecento compaiono personaggi disabili solo per il “fascino visivo della differenza”: comiche come The Automobile Accident (1904) o The Beggar’s Deceit (1900) giocavano sulla menomazione (reale o simulata) per suscitare riso o sorpresa. In questo periodo la persona disabile sullo schermo ricadeva in figure macchiettistiche e monodimensionali: il “mostro” malvagio, la vittima patetica o il fenomeno da circo. Presentate più che altro come creature da temere o deridere, oppure come oggetti di commiserazione destinati a suscitare lacrime. Come osserva lo storico del cinema Martin Norden, fin dal cinema muto i disabili sono stati rappresentati principalmente come freak, malvagi o destinatari di pietà. Questa triade di stereotipi iniziali – il freak, il villain deformato, il miserabile da compatire – ha gettato le basi di molte rappresentazioni successive, consolidando nell’immaginario collettivo pregiudizi davvero duri a morire. I personaggi con disabilità venivano insomma relegati al ruolo di “altro da sé”, spesso dipinti come esseri inferiore o minacciosi, meritevoli di isolamento dalla società.
Non mancano esempi emblematici di questo approccio. Il cinema horror e gotico delle origini sfruttò ampiamente la disabilità come simbolo di deformità morale: basti pensare a Il Gobbo di Notre Dame Wallace Worsley (1923) o a Frankenstein di James Whale (1931), dove la deformità fisica diveniva automaticamente sinonimo di malvagità. Analogamente, in vari adattamenti di pellicole d’avventura, il cattivo era spesso contraddistinto da una menomazione: la gamba di legno di Long John Silver in L’isola del tesoro, il braccio con l’uncino di Capitan Uncino in Peter Pan o la gamba offesa del Capitano Ahab di Moby Dick, sono figure iconiche in cui la disabilità segnala simbolicamente un difetto morale o una pericolosità intrinseca. Sul versante opposto, numerosi melodrammi presentavano il disabile come anima pura e sofferente: celebre è il piccolo Tiny Tim di Canto di Natale, fragile e angelico bambino storpio, atto a suscitare la pietà del pubblico natalizio. I film dell’epoca tendevano a incasellare la disabilità in ruoli fissi e unidimensionali, in stereotipi che Norden ha classificato efficacemente dal “dolce innocente” (come Tiny Tim) all’“ossessivo vendicatore” (come Quasimodo), dal reduce di guerra menomato al genio storpio. Tali personaggi erano definiti unicamente dalla loro menomazione, che diventava metafora di carattere: buoni e santificati oppure malvagi e pericolosi, ma in ogni caso diversi dai “normali”.
Nel cinema degli albori la persona disabile sullo schermo ricadeva in figure macchiettistiche e monodimensionali: il “mostro” malvagio, la vittima patetica o il fenomeno da circo.
Il film sul quale ancora oggi si discute, ma che proprio per questo non smette di affascinare è senza dubbio Freaks (1932) di Tod Browning. È una denuncia dello sguardo normale che umilia e sfrutta, ma anche una spettacolarizzazione di quello stesso sguardo. Sembra quasi che il disagio non venga portato in primo piano per essere analizzato o problematizzato, ma direttamente per colpire. Come se il cinema, in quella fase, avesse già metabolizzato tutto quello che sarebbe venuto poi sul tema. All’epoca scioccò il pubblico – fu persino bandito in alcune nazioni – per la sua rappresentazione cruda; i protagonisti erano veri artisti da circo con malformazioni fisiche. La trama racconta la vendetta di un gruppo di freaks contro due crudeli artisti “normali” che li avevano ingannati, e il film mette in scena una sorprendente solidarietà tra emarginati: invece di dividersi o cercare l’accettazione dei “normali”, i freaks si proteggono a vicenda adottando il principio “un’offesa a uno è un’offesa a tutti”. Pur nato con intenti sensazionalistici e horror, Freaks ribaltava parzialmente la prospettiva comune, mostrando i veri “mostri” nei personaggi normodotati opportunisti, mentre i disabili – sebbene presentati come curiosità viventi – trovavano una loro dignità comunitaria. In retrospettiva, questo film è stato rivalutato come un primo, ambiguo esempio di empatia verso la condizione dei disabili, anche se ottenuta attraverso il sensazionalismo.
Resta il fatto che, per buona parte della prima metà del Novecento, la norma era ben diversa: dai drammi strappalacrime ai film dell’orrore, la disabilità sullo schermo veniva ricondotta quasi esclusivamente a tragedia, comicità grottesca o malvagità. Molte pellicole classiche fornivano “lieti fine” falsati con miracolose guarigioni (grazie a interventi divini o medici improbabili) oppure con la morte redentrice e quasi eugenetica del personaggio disabile, come a suggerire che non ci fosse posto per la disabilità nella conclusione positiva della storia. Questo bias narrativo confermava l’idea che la vita con disabilità fosse incompatibile con la felicità, a meno di un intervento straordinario, un messaggio che ha infuso a lungo la cultura popolare.
Pur nato con intenti sensazionalistici e horror, Freaks ribaltava parzialmente la prospettiva comune, mostrando i veri “mostri” nei personaggi normodotati opportunisti, mentre i disabili – sebbene presentati come curiosità viventi – trovavano una loro dignità comunitaria.
Si trattava di passi avanti rispetto alla rappresentazione disumanizzante del passato: ora il focus era sulle difficoltà concrete affrontate dal disabile e sulla necessità di supporto da parte della società (famiglia, medici, comunità). Tuttavia, queste narrazioni restavano spesso – per non dire sempre – intrise di un certo paternalismo: il disabile veniva ritratto come una persona “da aggiustare” o “salvare”, mantenendo l’idea che la disabilità fosse prima di tutto un problema tragico da risolvere per ritrovare la normalità. Non di rado la trama ruotava attorno al sacrificio o alla bontà altrui nel prendersi cura del protagonista disabile, rafforzando l’idea che fossero principalmente oggetti di assistenza e non individui autonomi.
A partire dal secondo dopoguerra, complice la presenza reale di molti veterani mutilati o traumatizzati dal conflitto, il cinema iniziò ad assumere un tono più serio e compassionevole nel trattare la disabilità.
Negli anni Sessanta e Settanta, con l’onda delle battaglie per i diritti civili, iniziarono a comparire film che provavano a dare uno sguardo più interiore e rispettoso. Anna dei miracoli di Arthur Penn (1962) raccontò l’educazione di Helen Keller, sordo-cieca dalla nascita, sottolineando le capacità di apprendimento e la dignità della protagonista, sebbene lo facesse attraverso la figura “salvifica” dell’insegnante (una dinamica maestro/allievo che mantiene comunque la persona disabile in posizione subordinata). Nel 1975 Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman (tratto dal libro di Ken Kesey del 1962) portò sullo schermo la realtà cruda di un ospedale psichiatrico, umanizzando i pazienti con disturbi mentali: pur non trattando disabilità fisica, il film denunciava la disumanizzazione istituzionale, offrendo indirettamente un commento sul modo in cui la società isola chi è “diverso”. Si trattava di rappresentazioni più critiche verso il sistema, ma dove ancora i personaggi con disabilità faticavano ad avere piena agenzia narrativa (nel film di Forman, ad esempio, il protagonista è un impostore sano di mente, e i pazienti fungono in parte da spalle tragiche o comiche alle sue azioni).
Tra gli anni Ottanta e Novanta, il cinema mainstream scoprì il filone dei biopic e dei drammi a tema disabilità con ambizioni di sensibilità e approfondimento. Film come Rain Man – L’uomo della pioggia di Barry Levinson (1988) esplorarono condizioni specifiche – in questo caso l’autismo – cercando di suscitare empatia nel pubblico. Rain Man fu rivoluzionario nel presentare un protagonista autistico (interpretato da Dustin Hoffman) non come un semplice oggetto di pietà, ma come una persona con talento e personalità, intelligentissimo ma vivente in un mondo proprio; tuttavia, il film venne anche criticato per avere enfatizzato il “savantismo” (abilità straordinarie di calcolo e memoria) alimentando l’idea, purtroppo non scientifica, secondo la quale tutte le persone autistiche abbiano doti geniali nascoste.
Allo stesso modo, Forrest Gump di Robert Zemeckis (1994) presentò un personaggio con disabilità intellettiva amabile e fortunato, la cui vita straordinaria (assiste a grandi eventi storici del suo tempo) è raccontata con umorismo e tenerezza. Forrest conquistò il cuore del pubblico, ma la sua storia – quasi fiabesca – evitava di mostrare i veri ostacoli sociali che una persona con quel profilo cognitivo avrebbe incontrato; di fatto, Forrest Gump perpetuava il mito del “buono puro di cuore” a cui il destino sorride nonostante la disabilità: uno schema lontano dalla realtà. In questi e altri film di quel periodo si riscontra infatti un’ambivalenza: da un lato finalmente i personaggi disabili acquistano centralità e spessore umano, dall’altro spesso la narrazione cade in nuovi cliché, magari più sottili, ma ugualmente limitanti.
Un tropo dominante divenne quello del “disabile ispiratore”, talvolta definito inspiration porn dagli attivisti (espressione provocatoria coniata dalla comica e attivista Stella Young). Questo modello raffigura la persona disabile come eroe che “supera ogni avversità”, la cui funzione principale è ispirare gli spettatori e i personaggi normodotati mostrando coraggio e determinazione fuori dal comune. Il problema è che in questi casi non si racconta la persona disabile, ma l’effetto che produce sugli altri. La sua vita viene utilizzata come strumento motivazionale, spesso a prescindere da qualsiasi realismo. In altri casi, ancora più frequenti, il personaggio disabile esiste solo per pochi minuti sullo schermo: entra, soffre, sorride con saggezza, dice una frase memorabile, poi scompare. Non ha conflitti propri, non ha ambivalenze, non ha desideri che non siano riconducibili alla sua condizione. Non vive, semplicemente esemplifica. È una forma di marginalità difficile da riconoscere a prima vista, proprio perché spesso si ammanta di buone intenzioni. Ma è lì che si annida l’equivoco più pericoloso: pensare che basti rappresentare qualcosa per averlo affrontato davvero.
Gli esempi abbondano: Il mio piede sinistro di Jim Sheridan (1989) racconta la vera storia del pittore e poeta Christy Brown, affetto da paralisi cerebrale, interpretato magistralmente da Daniel Day-Lewis (vincitore dell’Oscar). Il film offre uno sguardo onesto sulle difficoltà fisiche e familiari di Brown, ma celebra soprattutto il talento eccezionale e la volontà ferrea con cui egli trascende la propria condizione. Allo stesso modo Risvegli di Penny Marshall (1990) enfatizza i “miracoli” medici e la riscoperta della vita da parte di pazienti catatonici, mentre Patch Adams di Tom Shadyac (1998) imbastisce un ritratto edificante in cui anche la malattia mentale diventa spunto di genialità e bontà d’animo.
Un tropo dominante negli anni Ottanta e Novanta divenne quello del “disabile ispiratore”, un eroe che “supera ogni avversità”, la cui funzione principale è ispirare gli spettatori e i personaggi normodotati mostrando coraggio e determinazione fuori dal comune.
Un film che torna sul tema del reinserimento, ma lo affronta in modo radicalmente diverso, ribaltandolo completamente, in maniera magistrale, è Nato il 4 luglio di Oliver Stone (1989). Anche qui il protagonista è incentrato su un vero reduce di guerra, Ron Kovic, paralizzato in seguito a un conflitto, ma la narrazione non offre nessuna consolazione. Anzi: il percorso che Kovic compie è una discesa nel disincanto. La disabilità non è trattata come una prova da superare per ritrovare un equilibrio, ma come una frattura definitiva, non solo del corpo ma dell’intera visione del mondo. Tornato dal Vietnam su una sedia a rotelle, si aspetta di trovare un caloroso ringraziamento da chiunque, invece troverà indifferenza e ostilità, a partire da suo fratello, dai suoi amici e dalla ragazza che frequentava prima di partire.
Stone, lui stesso veterano, racconta la vicenda con uno sguardo feroce e antieroico. La patria che ha mandato Kovic in Vietnam non è più una madre amorevole ma una macchina che ingoia, mutila e abbandona. L’eroe non viene celebrato, ma ignorato, respinto, umiliato. E il processo di “riabilitazione” non coincide con il recupero fisico – che resta parziale, se non impossibile – ma con una presa di coscienza politica e umana. Kovic si trasforma da patriota convinto a militante pacifista, rifiutando tanto la retorica del sacrificio quanto quella della compassione. Nato il 4 luglio è un capolavoro proprio perché scava nel punto cieco di tanti film precedenti: la rabbia. La frustrazione, la depressione, la collera di chi si è ritrovato intrappolato in un corpo nuovo, sconosciuto, e ha perso tutto quello che dava senso alla propria identità, compresa la sua visione del mondo e i suoi obiettivi. Non c’è eroismo né santità, ma un lento, doloroso apprendistato all’inadeguatezza. È, tra l’altro, uno dei pochi film in cui la disabilità viene mostrata anche come crisi sessuale, come perdita non solo di potere ma di desiderio. In questo senso, è forse il film più onesto, e più scomodo, della sua generazione. Eccetto un altro. Sto parlando di Combat Shock di Buddy Giovinazzo (1986).
In Nato il 4 di luglio di Oliver Stone la disabilità non è trattata come una prova da superare per ritrovare un equilibrio, ma come una frattura definitiva, non solo del corpo ma dell’intera visione del mondo.
Due film anomali questi. Nel frattempo, alcuni film degli anni Ottanta e Novanta cadevano ancora in narrazioni morbose o pietistiche, facendo permanere rappresentazioni problematiche di segno opposto. The Elephant Man (1980) di David Lynch, ad esempio, pur con tutta la sua poesia visiva, ritraeva la tragica vita di Joseph Merrick – uomo gravemente deformato nell’Inghilterra vittoriana – suscitando enorme compassione nello spettatore, ma lasciando quell’aura di tristezza inevitabile attorno alla figura del disabile. Anche film romantici come Edward mani di forbice Tim Burton (1990) o La bella e la bestia (1991, nella disneyana chiave fiabesca di Gary Trousdale e Kirk Wise) replicavano lo schema del “mostro buono in cerca d’amore”, dove la diversità fisica è qualcosa da far accettare agli altri attraverso la bontà interiore. Insomma, nonostante i progressi compiuti nel rendere i personaggi disabili più empatici, essi restavano incastrati in trame costruite attorno alla loro condizione: o santi, o martiri, o geni, o vittime. Spesso mancava la possibilità di vederli come individui ordinari, con pregi e difetti qualunque, inseriti in storie non necessariamente incentrate sulla disabilità.
È importante sottolineare che negli anni Novanta si comincia anche a discutere della mancanza di autenticità dovuta al frequente casting di attori non disabili in ruoli disabili. Mentre tali interpretazioni venivano lodate e premiate (la cosiddetta “Oscar bait” – infatti, una percentuale significativa di Oscar maschili è andata ad attori abili in ruoli disabili), le persone con disabilità reali rimanevano quasi invisibili sia sullo schermo sia dietro la macchina da presa. Questa prassi – definita talvolta cripface, in analogia al blackface – sollevò critiche: per quanto un attore talentuoso potesse immedesimarsi, l’assenza di rappresentazione autentica toglieva opportunità ai performer disabili e, secondo molti, portava a performance filtrate dal punto di vista di chi disabile non è. Un esempio lampante fu Mi chiamo Sam di Jessie Nelson (2001) in cui Sean Penn interpretò un padre con disabilità intellettiva: nonostante l’impegno e la buona fede, alcuni critici rilevarono toni forzati e poco realistici, stimolando il dibattito su chi abbia il diritto di raccontare certi vissuti. Verso la fine del Ventesimo secolo, dunque, la rappresentazione cinematografica della disabilità navigava in un equilibrio precario: da un lato maggiore visibilità e compassione, dall’altro stereotipi rinnovati (il “supereroe disabile”, il “santo ingenuo”, il “genio tormentato”) e un persistente filtro abilista nelle produzioni. Questa situazione aprì la strada a una nuova fase, influenzata anche dai movimenti sociali e culturali del nuovo millennio, che avrebbero chiesto con voce sempre più forte inclusione e autenticità.
Negli anni Novanta si comincia anche a discutere della mancanza di autenticità dovuta al frequente casting di attori non disabili in ruoli disabili.
Uno degli aspetti centrali di questa tendenza è il casting inclusivo: finalmente produttori e registi iniziano a scegliere attori con disabilità per interpretare personaggi disabili, piuttosto che affidarsi sempre ad attori abili. Si sono visti esempi incoraggianti: la serie TV Breaking Bad (2008-2013) ha scelto l’attore RJ Mitte, affetto da una lieve paralisi cerebrale, per il ruolo di Walter Jr. con la medesima condizione; il film indipendente The Peanut Butter Falcon di Tyler Nilson (2019) ha fatto notizia per il suo protagonista con sindrome di Down (Zack Gottsagen) accanto a una star come Shia LaBeouf, ottenendo successo di critica e pubblico; CODA – I segni del cuore di Sian Heder (2021) ha addirittura vinto l’Oscar al miglior film presentando una famiglia con persone sorde interpretate da attori sordi (tra cui Marlee Matlin, icona del cinema per non udenti sin dagli anni Ottanta). Questi progetti dimostrano che dare spazio a interpreti disabili arricchisce l’autenticità dell’opera e può avere riscontri positivi.
Parallelamente, anche ruoli minori in film e serie iniziano a includere personaggi con disabilità senza fanfara, come parte naturale del mondo rappresentato: ad esempio, nel kolossal Marvel Eternals di Chloé Zhao (2021) uno dei supereroi (Makkari) è sordo ed è interpretato dall’attrice sorda Lauren Ridloff, ma il film non ruota attorno a questo aspetto – semplicemente lo incorpora; nel thriller A Quiet Place – Un posto tranquillo di John Krasinski (2018) la giovane protagonista è sorda (anche qui l’attrice, Millicent Simmonds, è realmente sorda) e ciò è integrato organicamente nella trama. Perfino blockbuster d’azione come Mad Max: Fury Road di George Miller (2015) hanno presentato figure disabili in chiave assolutamente “normale” – la guerriera Furiosa di Charlize Theron ha un braccio protesico e nessuno nel film mette mai in dubbio la sua capacità di comando per questo. Questi esempi indicano una volontà crescente di affrancare la disabilità dal melodramma e dall’eccezionalità, trattandola piuttosto come una delle tante caratteristiche possibili di un personaggio. In un mondo ideale, vedere una persona cieca, sorda o in sedia a rotelle in un film di genere (commedia, azione, romantico) dovrebbe essere tanto normale quanto vedere persone di diverse etnie o orientamenti: questo è, in sintesi, l’obiettivo della normalizzazione inclusiva.
Dagli anni Dieci del Duemila comincia a manifestarsi una volontà crescente di affrancare la disabilità dal melodramma e dall’eccezionalità, trattandola piuttosto come una delle tante caratteristiche possibili di un personaggio.
Un altro filone recente favorito dalla sensibilità woke è quello delle storie di attivismo e diritti legati alla disabilità. Documentari come Crip Camp – Disabilità rivoluzionarie di Nicole Newnham e Jim LeBrecht (2020) narrano la nascita del movimento per i diritti delle persone con disabilità negli anni Settanta (partendo da un campeggio estivo inclusivo) e celebrano i protagonisti reali di quelle lotte. Film e serie, specie nel mondo anglosassone, hanno cominciato a inserire riferimenti al modello sociale della disabilità (che vede la società e le sue barriere come il vero “handicap”, più che le menomazioni in sé) e a denunciare pratiche abiliste. Ad esempio, il film E poi Barbara incontra Alan di Bruce Goodison e Amit Sharma (2022, BBC) racconta la storia vera di due attivisti britannici che negli anni Novanta organizzarono proteste dirompenti per l’accessibilità, evidenziando i pregiudizi strutturali contro cui i disabili devono combattere. Questi contenuti, oltre a normalizzare la presenza di persone disabili sullo schermo, mirano a educare il pubblico sul contesto sociopolitico, spostando la narrativa dalla “colpa” individuale (il corpo difettoso) alle responsabilità collettive (abbattimento delle barriere architettoniche, inclusione scolastica, equità lavorativa, ecc.).
Se la spinta verso l’inclusione e la normalizzazione è senza dubbio un progresso positivo, alcuni critici e attivisti mettono in guardia contro una possibile deriva di superficialità nell’approccio woke. C’è il rischio, infatti, che nel tentativo di presentare la disabilità semplicemente come un’altra forma di diversità, si finisca per nascondere o minimizzare le difficoltà reali che le persone disabili affrontano ogni giorno. In altre parole, una normalizzazione puramente estetica o di facciata potrebbe ricondurre tutto alla norma dominante, appiattendo le differenze senza affrontare i nodi sostanziali – il che da un lato elimina la connotazione negativa della diversità, ma dall’altro nega la diversità stessa.
La spinta verso l’inclusione e la normalizzazione è senza dubbio un progresso positivo, ma alcuni critici e attivisti mettono in guardia sul rischio che si finisca per nascondere o minimizzare le difficoltà reali che le persone disabili affrontano ogni giorno.
Un esempio concreto è l’uso diffuso di termini eufemistici o di modelli irrealistici: definire le persone disabili “diversamente abili” o rappresentarle sempre e solo come figure forti e incrollabili (supereroi che non hanno bisogno di aiuto) può sembrare un linguaggio rispettoso, ma spesso è uno specchio per le allodole. Studiosi italiani di pedagogia inclusiva sottolineano come il ricorso a queste formule – il “supercrip” invincibile da un lato, il “diversamente abile” quasi magico dall’altro – si inscriva in un paradigma ancora abilista e performativo. Si tratta infatti di rappresentazioni che mascherano stereotipi tradizionali sotto una vernice modernista: il pubblico viene rassicurato perché vede sì una persona disabile, ma questa o possiede qualità straordinarie che le permettono di “annullare” il proprio handicap, oppure viene dipinta con un linguaggio edulcorato che smussa ogni asprezza (come se la disabilità non comportasse vere privazioni o dolore). In entrambi i casi, non si scalfisce realmente il pregiudizio di fondo né si genera comprensione delle esperienze autentiche di vita con disabilità.
Il rischio maggiore è che questa rappresentazione edulcorata contribuisca a indurre ancora di più la società a ignorare i bisogni reali delle persone disabili. Se al cinema vediamo solo storie di studenti in sedia a rotelle che non incontrano mai barriere architettoniche a scuola, o di professionisti ciechi il cui unico problema è far ridere gli amici con il cane guida, lo spettatore potrebbe assorbire l’idea che in fondo oggi “essere disabili non è poi così difficile”. Nella realtà, le barriere – fisiche, comunicative, culturali – esistono eccome, e sono spesso opprimenti. Ma una normalizzazione acritica potrebbe dipingere un mondo ideale, dove tutti sono inclusi e felici, mentre nel mondo reale le persone disabili lottano quotidianamente per accesso, assistenza e parità di diritti. Ad esempio, molti film recenti evitano di rappresentare momenti pratici come le difficoltà nel prendere i trasporti pubblici in carrozzina, o la burocrazia per ottenere ausili (quei pochi concessi), o la fatica delle terapie quotidiane, elementi poco “cinematografici”, ma assolutamente centrali nella vita di milioni di individui. Omessi questi aspetti, lo spettatore medio può facilmente sottovalutare quanta determinazione serva solo per ottenere l’ordinario quando si è disabili. Scendendo nel didascalico: se i media mostrano sempre persone disabili che andranno bene se solo si impegnano abbastanza, lo spettatore potrebbe pensare che non sia necessario fare molto per venire incontro alle loro esigenze, perché “alla fine se la cavano da soli”. Questa percezione distorta può rallentare il sostegno a politiche inclusive concrete, perché normalizzare non deve voler dire far finta che non esistano ostacoli.
Un altro effetto collaterale è la sottorappresentazione delle emozioni negative legate all’esperienza della disabilità. Nella vita reale, è naturale che una persona con disabilità provi talvolta frustrazione, rabbia, tristezza per la propria condizione o per come viene trattata dalla società. Tuttavia, nel timore di tornare a vecchi stereotipi pietistici, alcuni prodotti moderni evitano di mostrare personaggi disabili in preda allo sconforto o al fallimento, quasi temessero di inviare un messaggio “anti-inclusivo”. In verità, negare ai personaggi disabili la possibilità di fallire o di avere sentimenti negativi significa disumanizzarli in altro modo, imponendo loro una perfezione unidimensionale (sempre forti, sempre pazienti, sempre di buon esempio). La realtà quotidiana è fatta di alti e bassi anche – e soprattutto – per chi convive con menomazioni o malattie croniche: ignorare questo nei racconti è un’occasione persa per far emergere l’autenticità. In definitiva, la critica che alcuni muovono a certe rappresentazioni woke è di scivolare in una “inclusione di facciata”. Si include il personaggio disabile per dimostrare apertura mentale, ma poi non gli si dà spazio narrativo vero, o lo si circonda di cotone politically correct per non turbare nessuno.
Nel timore di tornare a vecchi stereotipi pietistici, alcuni prodotti moderni evitano di mostrare personaggi disabili in preda allo sconforto o al fallimento, quasi temessero di inviare un messaggio “anti-inclusivo”.
Una forma di spietatezza che si ritrova anche in certa stand-up comedy o in episodi specifici di South Park, dove l’inclusione non viene negata, ma attraversata fino in fondo, portata al punto in cui il linguaggio si incrina, per far nascere da quella crepa qualcosa di nuovo: non l’ennesima morale, ma uno sguardo più selvaggio. Questo sguardo però, almeno nel caso di von Trier, sembra voler insistere più sull’assurdo della forma che sulla realtà delle cose. Quella che viene evocata è una verità disturbante, certo, ma anche molto filtrata, teatrale, espressionista. Non è detto che basti. Rischiare di farne solo materia simbolica, anche con la miglior consapevolezza del mondo, significa forse restare comunque un po’ fuori campo.
Tra le opere recenti che meglio incarnano un approccio maturo alla disabilità spicca, a mio parere, A Different Man, film indipendente del 2024 diretto da Aaron Schimberg, prodotto da A24. È significativo che una suggestione così lucida arrivi proprio dalla casa di produzione hipster per eccellenza. A24 non si è mai fatta problemi a lavorare sulla rappresentazione anche in modo disturbante, ambivalente, persino contraddittorio. Basti pensare alla bambina di Hereditary – Le radici del male di Ari Aster, dove la disabilità diventa un segno dell’inquietudine cosmica, o ad altri film in cui la “diversità” fisica o mentale si mescola con l’orrore più puro. In questo senso, A Different Man rappresenta quasi una svolta autocritica all’interno di quella stessa poetica.
La trama segue Edward, un uomo con il volto segnato da tumori (neurofibromi) dovuti alla neurofibromatosi, che conduce un’esistenza isolata e infelice a causa del suo aspetto. Desideroso di sfuggire allo stigma e di vivere “come gli altri”, Edward si sottopone a una rischiosa procedura medica per cambiare drasticamente volto. Schimberg costruisce la narrazione inizialmente come un dramma realistico sulle difficoltà di chi ha una disabilità visibile nel condurre una vita soddisfacente – le umiliazioni quotidiane, la timidezza patologica indotta dallo sguardo sociale, la frustrazione nei rapporti affettivi. Ma a metà film tutto prende una piega inaspettata: dopo l’operazione Edward ottiene un volto perfettamente “normale” e persino affascinante (in questa fase il personaggio è interpretato da Sebastian Stan), solo per scoprire che la sua vita non diventa affatto idilliaca. Anzi, la storia vira in un thriller psicologico dai toni cupi: Edward perde il ruolo teatrale a cui teneva – ironicamente, un ruolo da persona sfigurata, ora affidato a un altro attore con disabilità – e sviluppa una pericolosa ossessione verso quest’ultimo. Il film, dunque, si trasforma parallelamente al protagonista, passando da uno studio sulla disabilità a una parabola più universale sulla perdita di sé e sul senso di estraneità.
Come nota la critica, A Different Man mostra che eliminando la sua “diversità” Edward diventa alieno a sé stesso e a tutto ciò che dava valore alla sua vita. L’opera pone infatti domande inquietanti: cosa succede quando una persona costruisce la propria identità attorno al desiderio di essere “normale”? Qual è il costo psicologico di una società che non accetta la differenza, al punto che chi è diverso preferisce cancellare una parte di sé? Ma oltre a questo, il film riflette amaramente anche su molte delle dinamiche che abbiamo attraversato. Nella società buonista contemporanea – soprattutto in certi ambienti artistici – la diversità è spesso valorizzata in modo cieco, automatico, senza che questo implichi una reale comprensione o una riflessione sulle condizioni materiali delle persone coinvolte. La disabilità diventa così un’etichetta da esibire, un elemento da includere nel cast o nella narrazione per dimostrare di essere al passo con i tempi. Una forma di inclusione che rischia di essere strumentale, superficialmente priva di vero ascolto, financo di interesse.
La forza di A Different Man risiede anche nella sua consapevolezza metanarrativa. Schimberg, egli stesso nato con una condizione facciale differente (affetto da cheiloschisi, più comunemente chiamato “labbro leporino”), inserisce nel cast Adam Pearson (attore e attivista con neurofibromatosi reale) per interpretare Edward prima dell’operazione. Questa scelta dà luogo a momenti potentemente simbolici: ad esempio, quando Edward/Stan assiste ossessivamente alle prove teatrali dell’attore disabile/Adam (che lo ha “rimpiazzato” sul palco), lo spettatore vede in scena un attore abile truccato da sfigurato che osserva un attore realmente sfigurato. Si crea così un gioco di specchi sulle consuete dinamiche di rappresentazione: chi sta recitando chi? Chi possiede la “verità” del personaggio? È un commento implicito a decenni di cinema in cui attori senza disabilità interpretavano ruoli disabili, e appare quasi come una rivincita il fatto che Adam Pearson rubi la scena allo “splendido” Sebastian Stan, costringendo pubblico e protagonista a guardare in faccia (letteralmente) la realtà della disabilità.
A Different Man non è una fiaba motivazionale, ma neanche un exploitation melodrammatico; piuttosto un racconto che si muove in una zona grigia, dove la disabilità non è né glorificata né semplificata, ma integrata in una vicenda umana complessa.
L’uso di un attore disabile vero come Pearson – già noto per aver partecipato ad altri progetti audaci come Under the Skin di Jonathan Glazer (2013) e Chained for Life (2018), anche questo di Schimberg – conferisce inoltre ad A Different Man un valore rappresentativo importante: è la prova che si possono raccontare storie sulla disabilità coinvolgendo direttamente le persone disabili nel processo creativo, ottenendo al contempo prodotti artisticamente validi e culturalmente innovativi, fungendo un po’ da cartina di tornasole dello stato attuale della rappresentazione della disabilità. Un film che non sarebbe stato possibile qualche decennio fa, oggi vede la luce grazie certamente a una maggiore sensibilità diffusa, ma nello stesso tempo scuote quella stessa sensibilità mostrando cosa succede quando la “normalizzazione” diventa ossessione. L’invito è quello di superare sia la morbosità sia la superficialità, auspicando un cinema capace di integrare la disabilità come parte della condizione umana, con tutte le sue implicazioni identitarie e sociali.