F ino alla metà degli anni Cinquanta Goliarda Sapienza è un’attrice siciliana di scarso successo, nota ai salotti della dolce vita romana per essere la compagna del giovane regista Citto Maselli. In quegli stessi anni ottiene anche una parte in Senso di Luchino Visconti, ma si tratta di un minuscolo ruolo: è l’irredentista che a inizio film, in un blitz durante la rappresentazione de Il Trovatore, urla ai soldati austriaci: “Fuori lo straniero da Venezia!”.
L’avvenimento che segna il punto di svolta per l’avvio della sua futura carriera da scrittrice è la morte di sua madre Maria Giudice, il 5 febbraio del 1953. Maria Giudice era stata in gioventù un’importante sindacalista rivoluzionaria, la prima donna chiamata a dirigere la Camera del Lavoro di Torino nel 1916, e dai primi anni della seconda guerra mondiale affetta da una grave malattia mentale che l’ha condotta lentamente alla morte. La scomparsa della madre scatena in Goliarda Sapienza una crisi depressiva con tentati suicidi, terapie di elettroshock e una detenzione carceraria per furto. L’esperienza del dolore però riesce a orientarla verso un nuovo rapporto con la creatività. È l’inizio di un percorso di liberazione personale che trasformerà Goliarda Sapienza in una delle narratrici italiane più all’avanguardia in materia di identità di genere. La sua è una prospettiva fluttuante – difficile da inquadrare senza gli appigli che offrono le sue vicende personali – che la scrittrice cercherà di sviluppare in uno scrivere lontano dall’ortodossia dei movimenti femministi dell’epoca.
A partire dalla stesura dei primi romanzi autobiografici, scritti a metà degli anni Sessanta e pubblicati in parte allora (Lettera Aperta nel 1967, Il filo di mezzogiorno nel 1969), in parte postumi (Io, Jean Gabin nel 2010), emerge il principio di individuazione di tutta l’opera di Sapienza: la costante rielaborazione del rapporto conflittuale con Maria Giudice. Da Io, Jean Gabin:
È questo il guaio: io amo quella donna che con dolcezza certo, ma con fermezza terrorizzante mi sta dicendo che sono colpevole… verso tutta l’umanità, povera, ignorante e umiliata. Mi metterei a piangere d’avanti a questa mia colpevolezza, se la sonorità splendente della voce di Maria, la grazia sapiente con cui infila frasi su frasi, sino a comporre un disegno magnifico per forma e contenuto, non mi entusiasmasse a tal punto che vorrei buttarle le braccia al collo e dirle: Ti amo!
Genitrice libertaria e dalle posizioni emancipazioniste – e nella prima metà del Novecento a Catania non era una cosa così comune – Maria è una presenza monolitica, incapace di fornire alla figlia una pur minima educazione sentimentale. Su Lettera Aperta, questa mancanza è emblematizzata in un episodio adolescenziale traumatico. Maria Giudice sorprende la piccola Goliarda, nuda insieme all’amica Nica, in un gioco esplorativo. Uno schiaffo ribadisce la sua idea di sessualità normativa:
Finché una sera mia madre entrò mentre Nica mi abbracciava. […] Mi guardò a lungo, poi mi diede due schiaffi, e mi lasciò lì in mezzo alla camera. […] Sapevo che mia madre non ne avrebbe più parlato. E non vidi più Nica. Non scesi più nel cortile per paura di vederla: avevo tanta voglia di abbracciarla. Tanta voglia che non potei fare a meno di spogliarmi davanti allo specchio e cercare di abbracciarmi come lei mi abbracciava. La sua bocca allo specchio, le sue mani allo specchio: con le sue mani cercavo di ritrovare quel calore che lei mi comunicava nei giorni felici. Mi spogliavo, cercavo di abbracciarmi e di carezzarmi: ma quei due schiaffi mi colpivano e la lampadina si accendeva costringendomi a cadere in ginocchio, sola, in mezzo alla stanza.
È un’azione ripetuta e risemantizzata anche pochi anni dopo, ne Il filo di mezzogiorno, dove la scrittrice colpisce proprio con due schiaffi il suo analista, reo di criticare la pericolosa ambiguità delle sue amicizie femminili. La riproposizione di quel gesto non le permette ovviamente di superare la proibizione sessuale instillata da Maria, anzi, acuisce la frustrazione provata da bambina.
gli tirai due ceffoni che gli fecero ondeggiare la testa come un papavero sul gambo esile. Lo fissai terrorizzata. Vidi il suo viso tornare diritto sul collo.
“Bene. Vedo che reagisce. È un buon segno. Sa che ha una bella forza, non si direbbe. In seguito dovremo capire la ragione vera di questi schiaffi, Sarà così buona da aiutarmi?” […] E quel pomeriggio quei due schiaffi psicanalitici mi strapparono dalle braccia di Nica…
A questo punto la scrittrice cerca di interrogarsi sulle cause che hanno permesso alla madre di configurarsi come una figura così opprimente, arrivando a individuarle nel loro comune retroterra culturale. La “ferocia del dogma”, prima socialista e poi comunista, di cui Maria Giudice era stata schiava, fino ai fatti di Ungheria del 1956 aveva abbagliato la stessa Sapienza (in occasione di quegli episodi anche altri intellettuali, come Italo Calvino, avevano preso apertamente le distanze dal partito comunista dopo anni di militanza).
A questi “mostri dogmatici novecenteschi”, come li definisce lei nei suoi diari (pubblicati postumi nel 2011 e nel 2013 da Einaudi), la scrittrice cerca di contrapporre una proposta anarchica, libera dal furore ideologico degli “-ismi” (tra cui annovera anche la teoria psicanalitica, già osteggiata ne Il filo di mezzogiorno) e da una visione dell’esistenza fondamentalmente antistorica. L’educazione impostata sui doveri e sulla riduzione della molteplicità del reale deve essere sostituita, secondo Sapienza, dal libero sviluppo interiore della persona.
Ci troviamo nel 1969, e Sapienza capisce che può sfruttare il clima di cambiamento che si respira in questo periodo per tradurre le conclusioni a cui è arrivata in questi anni in un nuovo libro. Decide così, per la prima volta, di creare un personaggio fittizio e farlo agire nella cornice di un romanzo d’invenzione: nasce Modesta, la protagonista de L’arte della gioia. La stesura del romanzo richiederà però quasi dieci anni di lavoro e Sapienza non riuscirà mai a vederlo pubblicato. Dopo sfortunate edizioni indipendenti, il libro riuscirà a prendere la tanto desiderata “strada de fora” solamente nel 2008 grazie a Einaudi.
Fra i tuoi compagni ho trovato soltanto malcelata aspirazione alla santità e alla vocazione al martirio. O la ferocia del dogma per nascondere la paura della ricerca, della sperimentazione, della scoperta, della fluidità della vita. Se lo vuoi sapere, non ho trovato nulla che assomigliasse alla libertà del materialismo. E sono fuggita via, sì, perché non avevo intenzione di cadere in un tranello forse peggiore della chiesa alla quale sono sfuggita. […] Io non nego nessuna lotta! Critico l’atteggiamento del pensiero che è troppo poco differente da quello del vecchio mondo che voi volete combattere. Pensando come pensate voi, nella migliore delle ipotesi, si costruirà una società che sarà una copia, per giunta scadente, della vecchia società cristiana e borghese.
Il personaggio di Modesta nasce il primo gennaio 1900. La scrittrice tenta di tracciare una storia del secolo paradigmatica e universale (sullo sfondo dei primi sessant’anni del Novecento italiano) e al contempo una storia di vicende personali. Modesta, corpo allegorico e autobiografico, è il collante tra le due realtà, che coesistono all’interno del libro anche grazie a frequenti cambi della voce narrante, dalla prima persona della protagonista alla terza della narratrice onnisciente Sapienza. Questo delicato equilibrio non riesce però a conservarsi per tutto il corso del romanzo e così la componente più intima della scrittura di Sapienza prende il sopravvento.
Modesta va quindi a delinearsi sempre più come un alter ego della scrittrice, la sublimazione di una vita immaginata e mai esperita, insomma l’apice di quel processo di auto-rafforzamento del proprio io iniziato dall’autrice nei suoi primi scritti autobiografici. Un’assillante ricerca identitaria attraverso la scrittura che ricorda quella intrapresa dal personaggio di Lenù del ciclo de L’amica Geniale di Elena Ferrante, anche lei attenta alla condizione femminile nel sud Italia, lo stesso teatro delle vicende letterarie di Modesta. L’obiettivo che sembra prefiggersi Sapienza, attraverso le relazioni sentimentali eterosessuali e omosessuali in cui coinvolge Modesta, è il superamento di ogni costrizione categoriale e la rinuncia a ogni ruolo prestabilito, in quello che appare come il definitivo atto di ribellione nei confronti di Maria Giudice.
Tematiche simili verranno formalizzate in seno alla critica post-strutturalista e agli studi di genere solamente a inizio anni Novanta, sulla scia delle tesi di Derrida, Kristeva e Foucault, dalla cosiddetta Queer Theory. Per questi teorici, tra cui spicca la filosofa americana Judith Butler con il saggio seminale Gender Trouble (del 1990), l’idea di “genere”, e addirittura di “sesso”, andrebbe a costituire una gabbia comportamentale costruita socio-culturalmente, che non permetterebbe al singolo individuo una legittima possibilità di scelta identitaria. In maniera non differente, senza il rigore di un saggio argomentativo, la poetica di Goliarda Sapienza è intrisa di questi concetti, soprattutto ne L’arte della gioia.
“Vieni, ca’ t’insegno. Oh figghia, io ti levo ‘sto capriccio, ma non è ca tu ti metti a fumare come a un carusu?”
“E perché no?”
“E perché sì? Dimmelo, perché sì, allora?”
“Perché io pure carusu sono!”
“Chista è proprio bella! Pure carusu sei?”
“Sì. Mezzo carusu e mezzo maredda.”
Modesta si confronta con Carmine, un uomo rozzo e all’antica, e gli si rivela apertamente come entità fluida, “mezzo carusu e mezzo maredda”, mezzo uomo e mezza donna. E poco più avanti esprime la semplicità della sua natura sentimentale, amare chiunque scelga: “sono donna […], e per me la normalità è amare l’uomo e la donna”, respingendo così l’omofobia interiorizzata di una delle sue amanti, non a caso una psicologa che fa carriera nel Partito Comunista.
La maniera in cui Modesta giunge a questa conquista identitaria, costituisce sicuramente uno degli elementi più stranianti della narrazione de L’arte della gioia, poiché si tratta di un processo di liberazione dalla sottomissione femminile messo in atto con il ricorso di tre omicidi, collocati in tre parti chiave del romanzo. Tre figure materne, un’umanità femminile debole (“La donna non può mai arrivare alla sapienza dell’uomo. Prega e ricama”, le dice una delle sue vittime) che intralcia il cammino della protagonista, restringendo intorno a lei lo spazio necessario al movimento e al cambiamento.
Accecata dal terrore avevo dimenticato di avere il seno, il ventre, le gambe. Allora il dolore. L’umiliazione, la paura non erano, come dicevano, una fonte di purificazione e beatitudine. Erano ladri viscidi che di notte, approfittando del sonno, scivolavano al capezzale per rubarti la gioia di essere viva. Quelle donne non facevano nessun rumore quando ti passavano accanto o entravano e uscivano dalle loro celle: non avevano corpo. Non volevo diventare trasparente come loro.
Sapienza architetta diegeticamente questi omicidi simbolici mascherandoli da incidenti, svuotandoli così di qualsiasi concetto di colpa, moralmente ed eticamente intesa. Si ha quasi la sensazione, leggendo le riflessioni di Modesta, di trovarci di fronte a una grande operazione di eutanasia coatta, tesa ad alleviare le sofferenze di donne moribonde, afflitte dall’inguaribile morbo dello svilimento della figura femminile.
Un’ulteriore giustificazione ai crimini di Modesta ci è suggerito da uno spunto della critica Maria Teresa Maenza (nel saggio Fuori dall’ordine simbolico della madre all’interno della raccolta Quel sogno d’essere), che chiama in causa il concetto di “eudaimonia”, l’idea di felicità nata in seno alla cultura greca classica. Per raggiungere lo stato di “eudaimonia”, l’uso della violenza è legittimo, in quanto atto pre-politico che precede lo stato di libertà. Una violenza necessaria, quindi, per poter ricominciare a vivere in una società basata sulla solidarietà e non più sulla schiavitù.
Questa idea si basa in fondo sullo stesso concetto espresso dal termine “gioia” che compare nel titolo e pervade tutto il romanzo, oltre che l’intera opera della scrittrice siciliana (nei suoi diari scrive “Niente di programmato, meno la gioia. Sì, l’unica legge che abbiamo è quella di ricercare la gioia”). Una parola che sottintende una sofferta ricerca personale, attraverso continui processi di rinascita, il cui unico e solo obiettivo è il raggiungimento della felicità. Trasformandosi attraverso la propria scrittura Sapienza cerca così di superare i propri conflitti interiori, e recuperare la pienezza della propria vita.
Tu sei uomo, e non sai nel tuo corpo, o sapevi e poi nella fretta di agire hai dimenticato, le metamorfosi della materia e temi un po’ a questa parola, ma se ti stringi a me, io, donna, ti aiuterò a ricordare e a non temere quel che deve mutare per continuare a essere vivo.