P er Il Tascabile, Paolo Pecere ha scritto racconti di viaggio e approfondimenti di scienze naturali, neuroscienze, filosofia e letteratura. Il suo ultimo libro, Il dio che danza (nottetempo, 2021), è un viaggio sulle tracce di danze e rituali dionisiaci in giro per il mondo: la Taranta in Salento, il theyyam in Kerala, le danze sufi in Pakistan, il vodu in Benin, gli sciamani in Amazzonia e le tribù urbane di New York. Alcuni frammenti di questi racconti sono già apparsi sul Tascabile. La pubblicazione del Dio che danza è lo spunto per questo dialogo.
Matteo De Giuli: Voglio partire dalla “categoria merceologica” del Dio che danza. Perché esce nella collana di saggi di nottetempo e ha quaranta pagine tra note bibliografiche e indice. Ma per buona parte è un libro di racconti di viaggio che si nutre dei pensieri e delle inquietudini di uno scrittore.
Nel primo capitolo ricostruisci le origini culturali della Taranta. Racconti come il suo potere liberatore, esoterico e misterico, con il tempo si sia diluito sempre più; e come da qualche anno, con l’affermazione turistica del Salento, il rituale si sia snaturato in un innocuo ballo vacanziero. Per illustrare tutto questo scegli vie laterali, inizi dai ricordi delle estati della tua infanzia, quando tornavi dai parenti in Puglia:
A volte il tempo collassa. Secoli, generazioni, nascite e morti, cicli vegetali e animali scandiscono il silenzio. (…) [Paolo] vorrebbe dormire al trullo, un rifugio inventato tra gli ulivi. Gli piacciono il vecchio pozzo sul cui fondo vede ballare monete d’argento, gli strumenti appoggiati sul ripiano di malta, il profumo di polvere e olio. Ma gli adulti, dopo la morte del nonno, preferiscono restare in paese, e il trullo viene venduto. Sul pendio che porta al centro storico c’è “casa vecchia”, dove a volte va a dormire. Anche questa non sembra una casa: è una sala comune con i letti allineati in salette laterali, chiuse da tovaglie appese. Ma anche questa, in pochi anni, è sostituita da “casa nuova”, vicino al viale principale, dove i nonni si sono trasferiti mentre i figli studiavano al liceo, e solo qui ormai si può stare dignitosamente. La vita rurale è passata.
Poi in altri momenti il rigore da studioso prende invece il sopravvento. Scrivi di argomenti (trance, possessioni e danze: il tarantismo, appunto, e il vodu, l’āveśa, il candomblé, lo sciamanismo, lo zar, il wajd) di cui di solito non ti occupi, nel tuo lavoro accademico, ma che comunque hai studiato a fondo. Citi e riprendi i lavori di altri, di molti antropologi ed etnografi, oltre che filosofi.
Ecco, negli ultimi anni si parla sempre più spesso di non-fiction narrativa o auto-fiction. Ma se dovessi cercare un riferimento per Il dio che danza guarderei più indietro ancora. I nomi a cui ti rifai, e che infatti nel libro citi molto, sono Ernesto De Martino o Michel Leiris o Alexander von Humboldt, naturalisti, etnografi, antropologi che, in modi diversi, appartengono però a tempi in cui il germe di questo approccio ibrido tra saggio e narrazione esisteva già. Anzi, scrivere mescolando proprio sentimento e conoscenza, approcci interdisciplinari, storie culturali e cronache personali, a lungo è stata la cosa più naturale per un certo tipo di intellettuali, per un certo tipo di ricercatori.
Paolo Pecere: Ho fatto diversi tentativi prima di trovare la forma adatta a questo libro, poteva avere una cornice narrativa più articolata, poteva diventare un saggio filosofico-antropologico. Dietro la scelta di un saggio narrativo, con un narratore parzialmente connotato, c’è prima di tutto un’esigenza: calare il discorso nel contesto, mettere in campo l’osservatore in carne e ossa con la sua origine e il suo coinvolgimento. Si tratta di un’esigenza che ho avvertito fin dagli anni degli studi di filosofia, quando invidiavo a storici e antropologi il fatto di analizzare un mondo concreto, mentre tanta filosofia si concentrava (e si concentra ancora) su un soggetto astratto con le sue operazioni cognitive, anche quando insiste sul fatto che il soggetto è situato, corporeo, storico. La ricerca ha bisogno di non perdere questo contesto, per mettere in luce una serie di presupposti.
Nell’antropologia questo è ormai un luogo comune, per me vale in generale. Viaggi e scrittura per me appartengono a una stessa ricerca di conoscenza, e anche i romanzi che ho scritto (in cui si viaggia dall’Italia all’India, l’Indonesia, la Cina) ne fanno parte. In questo libro, soltanto raccontando i dettagli del mio arrivo in altri territori, in quanto bianco europeo, nella società di oggi, potevo illuminare alcuni aspetti della realtà che altrimenti vengono tagliati fuori.
Quindi c’è un’esigenza scientifica: raccontare le trance di possessione senza raccontare anche il viaggiare oggi, il turismo, le dinamiche storiche, sociali, ecologiche che si attraversano, sarebbe come fare osservazioni senza chiarire le condizioni sperimentali. Ovviamente c’è anche una componente emotiva fondamentale, in parte oscura: cancellarla metterebbe fuori strada il lettore, che invece voglio portare con me.
Come osservi tu, questa si può chiamare non-fiction narrativa, ma non è nulla di nuovo. Gli esempi sono innumerevoli: molti filosofi che chiamo in causa hanno scritto saggi basandosi sui viaggi degli altri (come Montaigne e Diderot), molti hanno viaggiato direttamente, come Plotino (stando alle testimonianze) e François Bernier. Per gli illuministi la geografia e la storia sono componenti indispensabili della riflessione filosofica, che deve comprendere la totalità del globo. Kant ogni anno faceva lezione di antropologia (basandosi su racconti di viaggio) e di geografia. La forma del racconto è fondamentale per Tristi tropici di Lévi-Strauss, come lo era per Sartre quando voleva descrivere l’esistenza umana.
Nel caso del mio libro, le danze e i rituali di cui parlo sono stati portati in viaggio per il mondo, e sono state documentate in saggi, romanzi, film, perciò ricerca, storia e geografia qui sono inseparabili. Oggi molti filosofi scrivono libri simili in cui il testo, non privo di innesti narrativi, è separato dalle note specialistiche: pensa a Peter Godfrey-Smith, che in Metazoa ha trenta pagine di note specialistiche per commentare le sue ricerche sulla mente animale, mentre il testo principale è un’alternanza di reportage naturalistico e riflessioni filosofico-scientifiche. A risultati analoghi si può arrivare partendo da una intenzione prevalentemente narrativa, che diventa scientifica: penso a Roberto Calasso, a Robert MacFarlane, a William Dalrymple, che pure hanno testi ibridi. La popolarità di questa forma narrativa dipende anche da esigenze divulgative e di mercato. Ma il punto decisivo, per me, è in una parola che tu hai usato: “rigore”. Rifiuto fermamente il collasso tra narrazione e ricerca di verità. Libri aneddotici, basati su memorie e impressioni soggettive dell’autore, privi di un lavoro di ricerca rigorosa e di uno sguardo critico sulle vicende, per me sono potenzialmente dannosi. Rischiano di riproporre l’idea postmoderna per cui non c’è iato tra prospettiva soggettiva e verità, che qualche decennio fa veniva presentata come una grande conquista di civiltà e tolleranza.
In Italia, Vattimo scriveva che “l’addio alla verità è l’inizio, e la base stessa, della democrazia”. È una prospettiva aberrante, come si vede sempre meglio. Così diventa impossibile cercare una comprensione universale, e i saperi umanistici diventano una chiacchiera di voci non comunicanti, in un mondo che ha bisogno più che mai di un approccio globale.
MDG: Sono poche le volte in cui, nel libro, partecipi in maniera attiva ai rituali che osservi. Spesso ovviamente da straniero e da estraneo, anche per rispetto, puoi solo osservare. Ma mi sono fatto l’idea che sia per lo più una tua scelta – autoriale o di indole. Il dio che danza non è un libro “esperienziale”, comunque, un libro “alla Huxley” che prende la mescalina e poi racconta le visioni che ha avuto.
PP: Sì, è una scelta: volevo dire del mio coinvolgimento, per invitare chi legge a calarsi nel contesto; ma ho voluto tenere per me parte dell’esperienza soggettiva. C’è un aspetto personale dell’esperienza che è inutile tentare di riprodurre, soprattutto se l’obiettivo è raccontare qualcosa che abbiamo in comune. In ogni caso, per me è fondamentale mantenere un angolo di riflessione vigile, anche nei momenti di massimo coinvolgimento. Gli stessi posseduti, come racconto, mantengono spesso una consapevolezza di sé mentre diventano altri. Si pensa all’esperienza dei posseduti e dei mistici come una completa eclissi dell’io, ma in questo libro ho trovato in certe esperienze una trasformazione dell’io, e per potersi trasformare si resta in un certo senso gli stessi. Su questo punto mi discosto dal dionisiaco di Nietzsche, in cui c’era una “gioia per l’annientamento dell’individuo”. Se qualcosa del genere è possibile, per esempio la fusione mistica, mi sembra un processo indicibile, irriferibile, totalmente estraneo rispetto alla nostra esperienza. Anche l’immedesimazione spinoziana con Dio è l’intuizione intellettuale di un individuo, che resta individuato nel suo corpo.
Del dionisiaco nietzscheano conservo l’“impulso verso l’Unità”, il “dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà”, ma questo impulso a trascendere i confini personali e sociali, e le stesse leggi del reale, anche quando si realizza, non vuol dire un completo smarrimento di sé. Infatti, se non ci fosse un io che resta in qualche modo presente, sia pure nel desiderio di smarcarsi, perdersi e trasformarsi, chi proverebbe quella gioia, e chi potrebbe raccontarla?
MDG: Nei tuoi viaggi mostri come lo spirito dionisiaco, che è lo spirito dell’ebbrezza e dell’estasi, della liberazione, sia apparso nella storia dell’umanità anche in società diverse e lontanissime. Si può chiamare Dioniso o Shiva, si può nascondere nella possessione sciamanica o in qualche altra metamorfosi spirituale (o mondana: nell’ultimo capitolo rileggi sotto questa lente la vita culturale di New York, tra pride, concerti e discoteche). Ma sembra davvero di assistere all’affiorare della stessa forza primordiale e antichissima che scorre sepolta in ogni essere umano. Un dio impetuoso e ribelle che prende forme diverse quando poi si manifesta nelle varie culture ma che lascia tracce simili ovunque. E le similitudini sono notevoli: in India, Africa o Europa, è evocato da ritmi musicali ossessivi o da danze rituali, per esempio, porta al sovvertimento temporaneo di ogni ordine di classe (come nei carnevali), o lo sconvolgimento delle convenzioni sessuali.
PP: Queste somiglianze sono la scoperta che hanno dato avvio al progetto del libro, al percorso sulla mappa. L’ho fatta molto tardi, dopo aver seguito per anni una traccia oscura, tra viaggi e letture. Non ci sono gli elementi per parlare di una tradizione, ma certamente colpiscono le analogie, come se ci fosse appunto una tendenza universale a cercare nelle danze estatiche una liberazione dall’oppressione. Ecco, forse l’oppressione in qualche senso esiste ovunque nella civiltà umana, almeno da quando la civiltà stanziale ha comportato la disuguaglianza. Non deve sorprendere, allora, che sotto diversi nomi dei e spiriti abbiano ispirato l’impulso insopprimibile a ribellarsi. Ma credo che ci sia qualcosa di ulteriore rispetto alle dinamiche socioeconomiche, un bisogno di affrancarsi dai ruoli sociali e esplorare altre vite, che è intrinseco all’essere umano, e alimenta per esempio il teatro e il cinema.
Nel mondo moderno, poi, il tema si associa alla riscoperta della natura “selvaggia”, che è molto forte in grandi viaggiatori moderni. Georg Foster – compagno di viaggio di James Cook nel viaggio intorno al mondo e pensatore rivoluzionario – scrive che “la voce della natura (…) insorge contro ogni oppressione”. Humboldt, a proposito dei paesaggi della foresta sudamericana, scrive poco dopo che “dall’immagine di una vegetazione libera e rigogliosa, l’animo viene alleviato e fortificato, così come lo spirito che sempre aspira a librarsi in alto, quando è oppresso dal presente si rianima rammentando la giovinezza dell’umanità e la sua semplice grandezza”. Questo presente che opprime è quello della nostra civiltà, e questi viaggiatori, nutriti di idee illuministe, si ritrovano di fronte la colonizzazione e la schiavitù. La vegetazione libera, qui evocata per contrasto, significa la riscoperta del fondamento ignorato della civiltà. È quella che con tanti nomi è stata opposta all’ordine della città, la natura di cui noi stessi siamo parte, Dioniso che arriva a Tebe con le baccanti, la Foresta animata delle culture amazzoniche. L’universalità delle danze estatiche è legata anche a questo: la natura è qualcosa di universale, di globale, che non può sopportare i confini di classe, i rigidi codici morali, economici, e in genere la secca dicotomia rispetto alla cultura. Nelle danze estatiche si manifesta un universalismo, che ha spesso tratti sociali, e a volte ha distinti tratti ecologici.
MDG: Un’altra chiave d’accesso per capire il dionisiaco è l’infanzia. Nel suo Dio dell’ebbrezza Elémire Zolla, grande conoscitore di sciamanismo e di dottrine esoteriche, scriveva proprio questo: che Dioniso si manifesta nel gioco dei fanciulli, Dioniso è il trasporto che spinge due bambini che neanche si conoscono a correre, a gridare, a rincorrersi, a giocare, di colpo, senza bisogno di doverselo dire.
Non solo. Tu dici che il fascino dello sciamanismo è ambiguo, perché è sospeso in un limbo tra creazione di miti e ciarlataneria. Chi sono i veri sciamani? Come mi faccio a fidare di loro? Sarà vero che hanno visto la Via Lattea trasformarsi in un sentiero cosmico? In fondo stai descrivendo proprio qualcosa che assomiglia molto alle abilità escapiste dei bambini, ai loro giochi surreali, i loro “facciamo finta che io ero…”. Scrivi infatti che c’è una “analogia tra infanzia, recitazione ed esperienza di possessione”.
Mi viene in mente la moda recente del “reality shifting”, una cosa che ho scoperto in un post della storica dell’arte Valentina Tanni, che si occupa molto di culture del web: “In pratica, migliaia di persone – in gran parte adolescenti e bambini – affermano di poter saltare, e vivere, in realtà alternative, in una specie di sogno lucido, dopo aver accuratamente sceneggiato il tutto. Poi ci sono ovviamente i metodi per shiftare, che sono tanti e molto elaborati. La realtà alternativa (DR – desired reality) che va per la maggiore è Hogwarts, la scuola di magia di Harry Potter, luogo dove alcuni sostengono di aver trascorso intere settimane”.
PP: Seguo l’analogia (e parziale continuità) tra infanzia, recitazione e possessione, anche attingendo al mio vissuto, per avvicinarmi a una comprensione delle esperienze che ho seguito nel libro. Da grande appassionato di letteratura fantastica riprendo un libro come Attraverso lo specchio, dove Alice giocava a far finta di “essere due” e così esplorava un altro mondo, e ci ritrovo una chiave di accesso all’esperienza dionisiaca.
Ma analogia non significa identità: il rischio, per esempio, è di fare dei posseduti africani e afroamericani dei bambini, degli ingenui incapaci di comprendere i rapporti sociali e coloniali. C’è, più in generale, un problema: il distacco dall’io comporta una messa in gioco della realtà, che apre diverse possibilità, non tutte felici. Ho lavorato su questo già in un altro libro ibrido, Dalla parte di Alice, formulando un dilemma: l’immaginario in genere libera dalle circostanze, apre a un altro mondo ipotetico, ha quindi un potenziale di cambiamento; ma al tempo stesso può staccare dal mondo reale, chiudere in un’esperienza al limite patologica. I bambini hanno di solito il controllo di questo gioco, è l’incanto potente dell’infanzia (anche se sullo shifting, che mi pare anche una pratica messa sul mercato, bisognerebbe riflettere più a fondo e io non l’ho ancora fatto). Lo stesso vale per i posseduti nelle danze rituali, sostenute dal consenso di una comunità, e lo stesso vale per gli attori.
Quando il gioco è diretto da un terzo, come lo sciamano, la situazione si complica. De Martino, di cui condivido pienamente l’attenzione per l’aspetto irrazionale dell’esperienza, l’aveva capito. In un bell’aneddoto, ricordava che all’ingresso delle sale da concerto tedesche c’era scritto: Mitsingen ist verboten, “vietato unirsi al canto”. Voleva dire che l’indagine su religione, magia e sciamanismo, per quanto partecipata, non deve perdere ogni distacco critico. (È un’idea simile a quella della battuta di Woody Allen: “Ma davvero ti piace Wagner? – Certo, anche se ogni volta che lo sento mi viene voglia di invadere la Polonia!”).
Non si canta in coro, cioè non ci si abbandona senza condizioni al fascino dionisiaco simboleggiato dalla musica, o il rischio, ricordava De Martino, è mancarne il valore autentico e mettersi nelle mani sbagliate, invece che liberarsi. Quindi regredire incondizionatamente al mito e all’illusione, mentre la realtà va alla deriva. Come scriveva a chiare lettere – erano gli anni Cinquanta – Hitler è stato un “atroce sciamano europeo”. Così, oggi, lo sciamanismo può essere portatore di una lungimiranza, di una resistenza alle traiettorie distruttive della civiltà moderna, ma, senza filtro, può essere malinteso. Pensa allo “sciamano di QAnon” nel Campidoglio di Washington (che al tempo del libro non si era ancora manifestato). Una caricatura che va presa sul serio, come il suo profeta Trump.
In conclusione, tornando a dei e bambini: queste energie non possono essere lasciate a una cultura priva del concetto di verità, bisogna comprenderle, rivendicarle, farle rivivere in nuove forme.
MDG: Voglio tornare a Leiris, perché a lui dedichi molte pagine. Era uno scrittore patafisico e surrealista, decise di abbandonare la Francia, andò in Africa, si unì a una spedizione di ricerca etnografica. Fuori dai tracciati del turismo, cercava “un vagabondaggio nell’imprevisto e nell’ignoto”. In Africa trovò invece, come scrisse, “poche avventure, studi che prima lo appassionano ma che presto si rivelano troppo disumani per soddisfarlo, un’ossessione erotica crescente, un vuoto sentimentale sempre piú grande. Malgrado il suo disgusto per i popoli civilizzati e per la vita della metropoli”, aspirò al ritorno. Il suo tentativo di evasione fallisce, e smette anche di credere “al valore dell’evasione”.
Leiris non riesce a scappare dall’oppressione del mondo, si porta il disagio esistenziale in Africa, andata e ritorno. A più riprese e in maniera più o meno esplicita, nel tuo libro, ho pensato di leggere una confessione: tu stesso sembri vivere inquietudini e insoddisfazioni simili a quelle di Leiris, i suoi turbamenti nei confronti della casa, dell’Occidente. Sembra essere anche questo a spingerti al viaggio, e non solo il desiderio di conoscenza.
PP: Sì, fin da bambino ho avuto questo disagio per l’origine, una passione per il fantastico, e per le mappe. Disegnavo scenari di mondi inventati, inventavo nomi in lingue inesistenti. Da adulto mi sono ritrovato nelle parole di Joseph Conrad, affascinato dagli “spazi bianchi” delle mappe, dai segni dei fiumi, come serpenti che lo pungevano. Anche Leiris mi è congeniale, perché articolava questo sotto forma di disagio per l’industria capitalistica, cioè per una razionalizzazione totale del mondo come sistema produttivo, sostenuta da gerarchie politiche, militari e religiose come avveniva nella Francia di un secolo fa. La sua reazione era trovare il sacro negli oggetti quotidiani, regredire a un sé poroso, molteplice, amorale, simile a quello dei posseduti africani. Questa esperienza del surrealismo per me è stata importante, anche se io mi tengo più stretta la funzione dell’io, con De Martino (e Freud), perché come ho detto mi sembra necessaria a tenere insieme l’esperienza.
In generale, più che l’evasione e l’illusione che in certi luoghi il tempo sia abolito (una forte tentazione, va detto), a me interessa una certa esperienza che raggiungo solo in movimento. Camminando in alta montagna, sulle scogliere, facendo immersioni subacquee, viaggiando in luoghi remoti in Asia, Africa e Sud America, da solo o schiacciato tra la gente in assordanti feste rurali. In casi come questi ho raggiunto stati di gioia unita a una coscienza particolarmente acuta. Questo acuirsi della coscienza, piuttosto che il suo indebolirsi e confondersi, è decisivo per quello che ho cercato di raccontare in questo libro. I posseduti del theyyam parlano proprio di uno stato simile raggiunto nella possessione. Le parole greche entusiasmo, mania, forse indicavano la stessa esaltazione della coscienza, che avviene con la danza, la poesia, la visione, l’amore.
Per me, che non pratico la meditazione, si tratta di esperienze inestimabili, che iniziano con l’innamoramento per i luoghi e le persone che li abitano. Diventano parte di me, si snodano per mesi, nella riflessione, nella lettura, nella scrittura di romanzi e saggi, che riportano indietro immagini e voci come una risacca. Ne ricavo conoscenza, un senso di solidarietà, di appartenenza a qualcosa che trascende la dimensione individuale. Ecco la trasformazione.
MDG: Una cosa che succede in molte delle tappe dei tuoi viaggi è che non trovi quello che ti aspetti (è un fallimento, anche qui, tutto sommato simile a quello di Leiris). Cerchi l’autenticità dei posti e dei riti e spesso ti ritrovi invece a contemplare la disarmonia della modernità, le storture che la pressione del mondo globalizzato crea sulle culture e le tradizioni locali dei paesi che visiti. Come quando vai al Festival Internazionale del Vodú di Ouidah (Benin, Africa occidentale) e dici di non capire dove finisce il rituale e dove inizia la ciarlataneria, perché il festival è invaso dai turisti e sembra ormai più che altro “una sagra del vodu”:
In città è pieno di turisti europei. Ci sono metallari scandinavi che forse pensavano di stonarsi a un festival di rock satanista, e coppie di anziani in pantaloncini con guida personale e obiettivo telescopico lungo mezzo metro. Fuori dal paese si trovano diversi hotel e residenze lussuose con vista sull’oceano: “È solo fuori Europa che si può vivere da sultani” , osservava già Leiris, e molti continuano a venire qui per godersi il lusso con la scusa del vodu. Nella confusione di questi giorni è impossibile avere un appuntamento privato con il “re del vodu”, un sommo sacerdote che dà udienza a fedeli e curiosi, ma riesco a incontrarlo vicino al mare, nei pressi del luogo in cui si terranno le danze. Avanza lentamente, sotto un ombrello per il sole retto da sua moglie, in mezzo a decine di persone. Ha un alto cappello a cilindro di paillettes e brandisce uno scettro di conchiglie. Va a fare un’offerta al mare e se ne torna all’ombra. Lo sciame di Canon e Nikon è impenetrabile.
Questo è l’episodio più eclatante, ma con sfumature diverse molti dei tuoi incontri di viaggio sembrano comunque dimostrare proprio questo: che da occidentale, e benestante, la ricerca dell’esperienza autentica in terre lontane oggi è un miraggio, e forse lo è sempre stato. E che diventa, più facilmente, esotismo, colonialismo o folklore da cartolina. I rapporti e le esperienze si deformano sotto il peso di disuguaglianze economiche e culturali impossibili da nascondere.
PP: Il tempo dei viaggi a “cercare se stessi” in un altrove incontaminato è passato. Per esempio l’India non può più essere il miraggio della controcultura americana, è una realtà complessa, ascetica e capitalista, mistica e piena di divisioni, pacifica e violenta. L’industria del turismo, ora paralizzata, è tra le più grandi del pianeta. È qui la causa del fatto che tanti siti turistici, per esempio i famosi siti UNESCO, vengono congelati da uno “sguardo di Medusa”: poiché ogni luogo, se vive, si trasforma; se è del tutto musealizzato, muore. Per quanto riguarda i rituali, come racconto nel libro, ogni momento di apertura innesca immediatamente una dinamica economica, che tende a trasformarli in spettacoli: questo accade in Puglia, in Kerala, in Benin, in Brasile, ovunque.
Ma non si può tornare indietro. Come osservava Marco D’Eramo ne Il selfie del mondo, teorizzare un ritorno al viaggio dei pochi, avventurosi e aristocratici, pensare a numeri chiusi e all’abolizione dei viaggi turistici a buon mercato, rischia solo di alimentare le divisioni culturali e le disuguaglianze sociali (per inciso io, in mancanza di frontiere aperte, voli low cost e ostelli, non avrei mai potuto fare i viaggi che racconto in questo libro). L’incontro tra civiltà moderna e tradizioni locali è nel complesso inevitabile, piuttosto che pensare di limitarlo bisognerebbe che producesse un ravvedimento, prima o poi inevitabile, tra i visitatori. E allora che si fa? Si studia, si cerca di capire, si cercano nuove forme di incontro, solidarietà e tutela, anche nel turismo. E lo spettacolo può conservare qualcosa del rituale, così come è successo nel teatro greco e in quello moderno.
D’altra parte, la geografia moderna ha riconosciuto che il mondo è interconnesso, fisicamente e socialmente, e il viaggio è ancora un modo insostituibile di tenere viva questa consapevolezza. Per Kant la geografia “deve cominciare col globo, l’idea dell’insieme, e riportarsi sempre a questo”. L’allargamento dello sguardo illuministico si accompagna alla globalizzazione coloniale e industriale. Per certi versi è una sua razionalizzazione, come quando si presentano proprietà privata e mercato come fatti naturali, ma per altri versi è una reazione alla disuguaglianza, al razzismo, allo schiavismo, alla distruzione delle foreste. Da Diderot a Humboldt queste cose vanno di pari passo, e lo stesso Humboldt insiste sul fatto che la geografia è “ricerca dell’insieme e della connessione”, sviluppando un ragionamento fondamentale: un paesaggio che ci piace è inseparabile da un equilibrio di forze, questo equilibrio di forze è inseparabile dall’equilibrio globale del pianeta, e questo è inseparabile dalla società umana. È questione di tempo e il problema ecologico globale diventerà il tema di qualsiasi discorso. Chiudersi nel particolare non ha senso. Allora viaggiare, consapevoli dei miraggi e delle implicazioni anche economiche e ecologiche, è una pratica fondamentale, almeno quanto andare a fare la spesa al mercato. Bisognerebbe insegnare cos’è il viaggio, perché il problema non lo crea tanto l’arrivo del turista, ma la sua ignoranza e miopia. Bisognerebbe far capire che l’obiettivo non è tornare con un souvenir, una curiosità primitiva, ma con un’idea del futuro comune.
L’obiettivo è allargare l’orizzonte, che, nonostante internet, è incredibilmente ristretto. Il contatto fisico, analogico, è insostituibile. E con un po’ di ricerca si può fare un’esperienza straordinaria, incontrare Dioniso.