L’ Adagio in Sol Minore di Albinoni è la famosa composizione neo-barocca di archi e organo dal tono mesto e funereo, che da La rabbia di Pasolini a Ordet di Dreyer al Processo di Welles ha commosso e continua a commuovere. Con queste note si apre anche la seconda stagione della serie antologica American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace, creata da Ryan Murphy e trasmessa da gennaio a marzo 2018 sul canale via cavo FX. Maestose e altisonanti coprono ogni altro suono diegetico: la realtà di questa mattinata assolata del 15 luglio 1997 a Miami Beach appare ovattata, attutita, come già vista e qui rivissuta. E mentre l’Adagio procede cupo e profetico l’occhio della camera non anticipa e non svela, piuttosto insegue, arriva a conti fatti: quando, dagli stucchi color pastello dei soffitti art-déco di Casa Casuarina si abbassa fino a inquadrarlo, lui, Gianni Versace, è già sveglio, solo nel letto, lo sguardo fisso e come in attesa. Quando, pochi secondi dopo e con un movimento opposto, la camera invece si alza, idolatrante, per incorniciare lo stilista calabrese allora all’apice del successo mentre contempla in vestaglia rosa acceso dal balcone della villa il cielo azzurro brillante e le file di palme sul mitico Ocean Drive sappiamo che queste immagini patetiche e perfette sono le ultime.
E difatti, solo due o tre strade più in là, il destino incalza ostile, tesse le sue trame. Il risveglio sontuoso di Mr. Versace (Édgar Ramirez) è montato in parallelo con la disperazione irrequieta di Andrew Cunanan (Darren Criss), il serial killer statunitense tristemente passato alla storia per aver massacrato nel 1997, prima di suicidarsi, tre dei suoi amanti e lo stilista.
Vittima e carnefice sono qui dunque fianco a fianco. L’uno sorridente, amato e riverito, mentre svolge i suoi consueti rituali mattutini – succo d’arancia fresco, passeggiata lungomare e giornali di moda – l’altro, meteora impazzita, sveglio da giorni, mentre si trascina in ambienti sporchi e ostili – dalla spiaggia ancora deserta ai bagni pubblici, dove vomita e si contorce e dove sul muro appare l’odiosa scritta “Filthy faggots”. Questo montaggio antitetico si conclude fatalmente poco dopo sui gradini della villa dello stilista. Lo vediamo voltarsi verso il suo assassino, del quale sembra aver già avvertito la presenza alle sue spalle. Poi lo sparo e in un picco di simbolismo manierista la morte viene accostata allo svolazzare di due bianche colombe. A questo punto l’Adagio si spegne e appare il titolo della serie, bianco su schermo nero.
Last Night a DJ Saved my Life
Fin qui sono trascorsi soltanto sette minuti. Posta all’inizio la scena dell’assassinio di Versace (o sarebbe più corretto parlare di martirio, data la rappresentazione sacraleggiante nella sequenza descritta?) ha la funzione di mettere in moto l’azione – o meglio – la memoria collettiva. Da qui in poi infatti, la serie interrompe la narrazione nel tempo presente per retrocedere nel passato, narrando gli eventi che hanno preceduto la morte di Versace tramite molteplici flashback impersonali che si susseguono via via nei nove episodi che la compongono. Le analessi però, più che fornire indizi e fare chiarezza sulle ragioni e le cause dell’omicidio, offuscano e confondono: tempi e luoghi si accavallano, personaggi ed eventi s’intrecciano in maniera contorta. Solo il punto di fuga – il grado zero della fabula – rimane certo quanto ineluttabile: il delitto quella lontana mattina di luglio, con il quale la serie ha inizio ma anche fine.
La dietrologia come metodo di ricerca della verità è dunque il presupposto centrale alla base della seconda stagione di American Crime Story. Ideologicamente il movimento regressivo che caratterizza la serie si rivela problematico perché suggerisce un rassegnato fatalismo secondo cui per quanto riguarda l’assassinio di Versace si tratterebbe di un “incidente inevitabile”, dettato dagli eventi imponderabili ad esso preceduti, che vengono ripercorsi sotto i nostri occhi come dettati da un destino insormontabile. La scelta di determinare il presente raccontando gli antefatti corrisponde inoltre alla ricostruzione della biografia dell’assassino, il che potrebbe farci chiedere se così facendo non venga concesso fin troppo spazio a un serial killer che, per cinque settimane nell’estate del 1997, quando fu il Most Wanted Fugitive dell’FBI, già ebbe il suo momento di gloria.
Come nel libro della giornalista Maureen Orth, Vulgar Favors: The Assassination of Gianni Versace, su cui si basa la serie, della vita di Gianni Versace non viene raccontato pressoché nulla e quelle poche sequenze dedicate alla biografia dello stilista ricorrono a una rappresentazione edulcorata e convenzionale della figura del genio maschile: ecco Gianni bambino-prodigio nella sartoria della madre, in una Calabria anni Cinquanta immersa in un’intensa luce giallo zafferano, eccolo anni dopo a Milano, nell’atelier di famiglia, con la sorella Donatella, meravigliosamente impersonata da Penelope Cruz, a impartirle lezioni di stile (e di vita). Per il resto, tutta l’attenzione è rivolta su Andrew Cunanan: un bugiardo patologico e sociopatico che mente sulle sue umili origini, su studi e amicizie, ma anche un considerevole retore e un dandy narcisista, che si guadagna da vivere talvolta come escort sadomaso di lusso, talvolta come drug dealer ed è conosciuto tra San Francisco e San Diego sia nella scena dei leather bar che in quella della confraternita privata repubblicana “Gamma Mu”, dove si fa mantenere dai suoi membri omosessuali non dichiarati, ricchissimi e pluri-sessantenni.
La serie vuole mostrare come l’omofobia dietro all’assassinio di Versace sia un fenomeno politico e sociale, che va ben oltre alla dimensione privata.
Prima di quella fatale mattina del 1997 le vite di Versace e di Cunanan si sono intersecate una sola volta, una notte nell’ottobre 1990, in un club gay di San Francisco, il Colossus. In American Crime Story a quest’incontro corrisponde il primo flash back della serie, ritmato, poco dopo l’Adagio di Albinoni del prologo, da un secondo celebre accompagnamento musicale, dal groove incalzante del binomio basso batteria in Last Night a DJ Saved my Life, la hit-dance anni ottanta, il cui refrain qui suona però quasi cinico: come salvare chi abbiamo visto morire appena pochi minuti fa, come salvare chi è già spacciato?
L’incontro al Colossus non è però solo l’inizio della fine. È anche il momento in cui l’ossessione prende forma: negli episodi a seguire il nome di Versace affiorerà parecchie volte sulle labbra di Andrew Cunanan, comparirà ripetutamente sulle riviste di moda che questi sfoglia, studia, colleziona. Versace rappresenta agli occhi di Cunanan lo stilista di successo che dal nulla è arrivato alle vette, l’omosessuale che decide di fare coming out due anni prima di morire rivelando la sua relazione con Antonio D’amico (qui interpretato dal cantante portoricano Ricky Martin, che esordisce come attore), o più genericamente quel “someone special” che anch’egli vorrebbe tanto diventare, elevandosi al di sopra della mediocrità collettiva e delle masse.
Omofobia e anni Novanta
Non è per odio di classe né per invidia sociale però che Andrew Cunanan uccide – su questo sia il libro che la serie sembrano non avere dubbi. La psicosi è messa in atto piuttosto dall’incapacità di accettarsi e dall’odio verso se stessi, che si traduce in auto-monitoraggio e auto-osservazione ossessivi e narcisistici. Lo sguardo allo specchio è difatti un motivo ricorrente non solo nella sequenza di apertura sopra analizzata, ma più in generale in tutti gli episodi, tanto che la seconda stagione di American Crime Story più che ricollegarsi al genere true-crime e quindi alla precedente stagione dedicata al caso O. J. Simpson, ci ricorda Nip/Tuck, il medical drama e serie TV culto sulla chirurgia estetica creata dallo stesso regista, Ryan Murphy, dove chirurghi rampanti e cinici invitano i potenziali pazienti all’autocritica: “Tell me what you don’t like about yourself”.
Il disprezzo di sé ha nel caso di Andrew Cunanan precisamente a che fare con l’identità sessuale ed è riconducibile al fenomeno dell’omofobia interiorizzata, a quell’insieme cioè di sentimenti negativi di vergogna, senso di colpa e rabbia che possono nascere verso l’omosessualità propria e altrui. Per raccontare la difficile costruzione dell’ambivalente identità sessuale di Cunanan la serie ricorre ancora una volta al suo strumento argomentativo preferito – il flashback – e scava nella biografia del killer, portando alla luce un’infanzia traumatica, dolorosamente segnata dalle violenze di un padre-padrone abusante e di una madre labile, che, pur cogliendo diversi segnali, sceglie il meccanismo difensivo della negazione per difendersi dall’angoscia. In seguito il padre, un broker manipolatore schiacciato dai debiti, abbandonerà la famiglia lasciandola sul lastrico per darsi alla macchia nel suo paese di origine, nelle Filippine, qui rappresentato come un luogo dimenticato sull’orlo del collasso, dove il caldo, anche la notte, è insopportabile. Con la sparizione del padre la serie, applicando in maniera piuttosto naive la classica spiegazione psicoanalitica, sembra aver trovato uno dei motivi chiave al quale ricondurre l’omosessualità di Andrew, il quale non riuscirà però mai ad accettare.
In American Crime Story l’aspetto più interessante rispetto al tema identità di genere sessuale/omofobia non è però da ricercare nei salti temporali all’indietro che la serie compie cercando di creare una forzata linearità nella biografia di Andrew Cunanan, quanto piuttosto nel porre in relazione psicosi del singolo e psicosi collettiva, mostrando come l’omofobia dietro all’assassinio di Versace sia un fenomeno politico e sociale, che va ben oltre alla dimensione privata.
“Pronounced: Ver-sa-ce“ spiega un agente dell’FBI a un collega, il quale, non convinto, chiede: “The singer?” – “No, that’s Liberace…He is the jeans guy!”. Per la legge, a distanza di poche ore dall’assassinio, il nome dello stilista è interscambiabile con quello dell’eccentrico pianista di origini italo-polacche celeberrimo negli Stati Uniti tra gli anni Cinquanta e Settanta e morto di AIDS nel 1987. Versace – Liberace, onomatopeicamente, certo, le due parole si somigliano e può succedere di confondere l’uno con l’altro. Si coglie però qui il cinismo per il quale un gay equivale a un altro, non merita ne nome ne un’identità. Ogni poliziotto e agente si comporterà con noncuranza, alla spicciola, una volta intuito che la vittima è un omosessuale: se da un lato in queste scene il soggetto gay viene rilegato nel ruolo passivo di “vittima”, dall’altro irrompe la realtà omofoba degli anni Novanta negli Stati Uniti d’America, e mentre la serie si impegna a ricapitolare, a raccontare gli antefatti degli antefatti, l’omofobia affiora sempre e di nuovo, in tempi e luoghi diversi e con essa irrompe, paradossalmente, il presente della storia.