S essant’anni fa, nell’aprile del 1958, in due stanze degli studi londinesi di Maida Vale nasceva il BBC Radiophonic Workshop. L’unità della emittente di stato britannica destinata alla creazione di musiche di scena per programmi radiofonici e televisivi era stata fortemente voluta da Desmond Briscoe e Daphne Oram, assistenti alla programmazione che avevano convinto una riluttante “Beeb” a investire in strumenti all’avanguardia allo scopo di addentrarsi, con approccio scientifico e copertura istituzionale, nei territori allora in gran parte inesplorati della musica elettronica e della musica concreta. Insinuare nella quotidianità dei sudditi di Sua Maestà sonorità fino ad allora riservate agli specialisti e agli accademici era anche un modo per far quadrare ricerca e stipendio sicuro. Pur dovendo sottostare alle strette regole del committente, quei pionieri erano riusciti ad accedere a una libertà creativa mai sperimentata prima. I laboratori musicali creati negli anni precedenti da emittenti come la tedesca Westdeutscher Rundfunk e la francese RTF, affidati a esponenti di spicco della musica contemporanea come Karlheinz Stockhausen e Bernard Parmegiani, dediti alla ricerca pura, avevano carta bianca e non dovevano rendere conto a nessuno del loro operato. E tuttavia in questo caso la possibilità che gli esperimenti sonori di Maida Vale avessero un utilizzo pratico, che consentiva di avvicinare la musica elettronica alla sensibilità del grande pubblico, doveva sembrare una sfida ancora più ambiziosa e una occasione ancora più ghiotta.
L’anno precedente Daphne Oram, che aveva solidi studi musicali alle spalle, era stata l’autrice della prima colonna sonora elettronica nella storia della BBC: le musiche per la pièce teatrale Amphytrion 38, realizzate utilizzando un oscillatore sinusoidale, un registratore a nastro e una serie di filtri sonori costruiti dalla stessa Oram. Se inizialmente l’emittente aveva fatto ricorso al Workshop per il commento sonoro di poemi radiofonici e radiodrammi sperimentali (la divisione teatrale della BBC si era subito dimostrata assai più ricettiva di quella musicale, inizialmente diffidente se non addirittura ostile), ben presto quelle tecniche innovative, che consentivano l’accesso a mondi sonori fino ad allora inaccessibili, avrebbero incrociato la loro strada con un genere di intrattenimento popolare per definizione proiettato verso l’esplorazione di altri universi: la fantascienza. Uno dei primi progetti assegnati al Workshop, in quell’ambito, era stato la sonorizzazione – in una accezione più strettamente effettistica che musicale – della miniserie televisiva Quatermass And The Pit, quintessenza dell’approccio british al genere.
Cinque anni dopo, il lavoro oscuro e anonimo del Workshop entrerà nell’immaginario collettivo grazie al talento creativo di una ventiseienne di Coventry, Delia Derbyshire, entrata alla BBC come assistente alla programmazione nel 1960. Nel momento in cui aveva chiesto di poter lavorare al Workshop, Derbyshire aveva scoperto di essere stata la prima persona, in assoluto, a chiedere volontariamente l’assegnazione. Laureata al Girton College di Cambridge in musica e matematica, in quel 1963 la Derbyshire si occupa in prima persona di rielaborare elettronicamente il tema scritto dal compositore Rob Greiner per una nuova serie fantascientifica, Doctor Who, destinata a diventare una delle più longeve della storia della televisione.
La meticolosità della Derbyshire, che elabora il brano facendo ricorso a suoni preregistrati, oscillatori di vario tipo e un meticoloso e certosino lavoro di montaggio su nastri da un quarto di pollice, impressiona Greiner al punto che il compositore cerca, senza successo, di farla figurare come coautrice. All’epoca le regole interne sono piuttosto rigide, e chi lavora al Workshop non è considerato un compositore ma di fatto un tecnico di laboratorio costretto a rinunciare a qualsiasi velleità autoriale. L’ambiente è inoltre prevalentemente maschile, ed è senza dubbio maschilista. Prima di entrare alla BBC la Derbyshire aveva tentato di farsi assumere dalla Decca, colosso dell’industria discografica, sentendosi rispondere da un dirigente che “lo studio di registrazione non è luogo adatto a una donna”. E il suo percorso di studi, da questo punto di vista, non era stato più agevole, come dirà nel 1993 in una intervista concessa al Doctor Who Magazine:
C’erano poche donne all’epoca all’Università e per questo motivo eravamo trattate orribilmente. Tuttavia la musica era la mia consolazione. I musicisti generalmente odiavano studiare acustica e teoria del suono, ma quando ci mettemmo a farlo io mi ritrovai nel mio elemento.
Le intuizioni presenti nella sigla di Doctor Who sono inequivocabilmente proiettate sui decenni successivi, caratteristica ancora più sorprendente se si tiene conto del fatto che questo dialogo con il futuro parte da basi primitive e artigianali, da una tecnologia limitata che va testata e tarata procedendo per tentativi. Il mixer multitraccia in quel momento è ancora un lusso che si possono permettere pochi studi di registrazione, e per assemblare il tutto occorre munirsi di tempo e pazienza, dovendo oltretutto rispettare strettissime scadenze. “Abbiamo preparato tre nastri differenti, li abbiamo montati su tre registratori e siamo rimasti accanto alle macchine, poi abbiamo detto all’unisono, ‘pronti, partenza, via!’”: così racconterà anni dopo la Derbyshire, in una intervista, il procedimento di assemblaggio delle singole tracce sonore che concretizzano lo spartito di Greiner. Gli anni Sessanta, dopo la creazione del popolarissimo tema, procedono a ritmi serrati per la musicista, che produce senza sosta materiale destinato a vari utilizzi: documentari, serie TV, poemi sonori, jingle. L’intuizione di base della Derbyshire, la sua linea guida, è che qualsiasi suono, naturale o meno, debba avere diritto di cittadinanza all’interno della traccia sonora. Che si tratti dei frammenti di rumore bianco che, appropriatamente editati, contribuiscono a irrobustire lo scheletro ritmico della musica di Doctor Who, o della lampada di metallo percossa il cui suono, rallentato e rimodellato, genera eterei e arcani chiaroscuri ambientali, come avviene in Blue Veils and Golden Sands, documentario sui Tuareg del 1968.
Pur lavorando all’interno di una istituzione governata da regole rigide e ritmi serrati di produzione la Derbyshire, spirito libero e anticonformista, incomincia a guardarsi intorno, a cercare nuovi canali per condividere le proprie intuizioni. Sposa, con il fervore dell’adepto, la causa della musica elettronica e fonda, insieme al collega e amico Brian Hodgson e all’inventore Peter Zinovieff (creatore di uno dei primi sintetizzatori “portatili”, il VCS3, di cui gruppi come Pink Floyd e Roxy Music, ma anche il nostro Franco Battiato nel suo periodo più sperimentale, faranno ampio uso), lo Unit Delta Plus, progetto indipendente nato per promuovere quelle sonorità avveniristiche e la loro diffusione nel cinema e nella televisione ma anche nel campo pubblicitario e nel mondo dell’arte. È protagonista di incontri, seminari, dimostrazioni, e, nel 1968, in una di queste occasioni, lei e Hodgson incontrano il più giovane David Vorhaus, studente americano che vorrebbe fondere i suoi freschi studi di elettronica, musica classica e contrabbasso in una nuova formula ibrida. I tre iniziano a registrare nottetempo le loro composizioni, da clandestini, negli studi di Maida Vale, e successivamente si trasferiscono nel modernissimo studio, ribattezzato Kaleidophon, che Vorhaus sta approntando.
Per la prima volta la Derbyshire entra direttamente in contatto con il mondo della popular music, sebbene per vie traverse e, come vedremo, non esattamente agevoli. In particolare con le sue frange più illuminate e sperimentali, le quali si sono appena affacciate sul proscenio della cultura di massa, intercettando mutazioni culturali, generazionali, sociali. Il trio inizialmente non ha alcuna ambizione se non quella di registrare musica in totale libertà, ma il boss della Island, Chris Blackwell, si interessa al loro lavoro. Il progetto si battezza White Noise: l’idea iniziale è di pubblicare un singolo per l’etichetta, da qualche tempo particolarmente interessata ai nuovi fermenti dell’underground, ma Blackwell è convinto che quella musica funzioni meglio sulla distanza dell’LP. An Electric Storm è il titolo dell’album e la sua miscela di canzoni filtrate da una sensibilità rumorista in anticipo sui tempi, paradossalmente ancora più aliena di quella maneggiata dalle frange più avanzate del rock coevo, e di composizioni più lunghe, come l’impressionante e sinistra Black Mass Electric Storm In Hell, un gorgo percussivo cupo e orrorifico, assumerà nel tempo uno status profetico. Difficile non immaginare una influenza diretta, in tempo reale, su personaggi all’epoca alle prime armi come Brian Eno e i Kraftwerk, e su pionieri dello space rock come gli Hawkwind.
Ma al momento dell’uscita i rapporti con i discografici, logorati dai tempi lunghi di lavorazione (si arriva anche a tre mesi per completare un brano), si sono fatti tesi. L’innamoramento di Blackwell si è rivelato assai effimero e il disco viene lasciato al suo destino, senza ottenere alcun riscontro commerciale. Insomma, resta una bizzarria per pochi, attentissimi eletti. Nonostante le difficoltà e l’indifferenza che incontra il progetto, la Derbyshire, come dicevamo, ha potuto sperimentare le proprie scoperte nel campo della musica di consumo. Allo stesso tempo ha maturato una consapevolezza: saranno altri a raccogliere i risultati di quella incessante fatica creativa. Qualche anno prima, ricorda Hodgson nelle note che accompagnano una recente ristampa di An Electric Storm, durante una passeggiata notturna di ritorno dal lavoro per Unit Delta Plus, l’amica gli aveva confidato:
Quello che facciamo non è importante di per sé, ma un giorno ci sarà qualcuno sufficientemente interessato a portare avanti il discorso e a creare qualcosa di meraviglioso su queste basi.
L’arrivo degli anni Settanta coincide con una progressiva disillusione nei confronti della BBC e non solo. In una intervista risalente agli anni Novanta, dirà: “È successo qualcosa di molto grave intorno al ’72, ’73, ’74. Il mondo ha smarrito la sintonia che aveva con sé stesso, e alla BBC è accaduta la stessa cosa”. Anche il rapporto con la propria creatività è diventato problematico e conflittuale. Nel 1971 distrugge i nastri di I.E.E. 100, brano composto in occasione di un concerto per i cento anni dell’Institute of Electrical Engineers alla Royal Festival Hall, una rara incursione al di fuori delle stanze della BBC. Fortunatamente Hodgson ha avuto l’accortezza di farne una copia, intuendo i propositi distruttivi della collega. Risale a questo periodo uno dei suoi pochi lavori completi pubblicati, la colonna sonora per il film sperimentale Circle Of Light, realizzato in collaborazione con Elsa Stansfield e riemerso nel 2013 grazie all’etichetta britannica Trunk Records, specializzata nel recupero di album fuori categoria e fuori catalogo: 30 minuti o poco più di soundtrack in cui i rumori della natura dialogano con una tenue e ondeggiante trama elettronica, ai limiti del silenzio.
Delia Derbyshire lascia il BBC Radiophonic Workshop nel 1973. Anno in cui, coincidenza significativa, l’emittente di stato acquista dei sintetizzatori e li installa a Maida Vale. L’era dei pionieri elettronici armati di colla, cutter e pazienza è definitivamente tramontata. La divisione dell’emittente britannica continuerà a funzionare a pieno regime per tutti gli anni Ottanta, prima di venire definitivamente pensionata nel 1998, dopo quarant’anni di servizio, ma nulla sarà più come prima. La compositrice viene coinvolta da Brian Hodgson nel progetto di uno studio di registrazione indipendente, Electrophon, ma lo abbandona prima di iniziare, ancora una volta disillusa dalla possibilità di creare qualcosa di significativo all’interno del mondo di cui è stata fino a poco tempo prima parte attiva e sostenitrice entusiasta. Si trasferisce nel nord del paese, si sposa – un matrimonio breve e infelice – e lavora come operatrice radio presso una ditta che installa un gasdotto in Cumbria. Nel 1978 si ritrasferisce a Londra, dove conosce Clive Blackburn, che sarà il suo partner fino alla morte.
Lavora in una galleria d’arte e in una biblioteca, e sul finire degli anni Ottanta l’interesse intorno alle sue creazioni si ravviva, pur restando appannaggio di pochi eletti: appassionati di incredibly strange music, di archeologia elettronica, musicisti anni Novanta con le antenne orientate al retrofuturismo come Add N To (X), Broadcast, Boards Of Canada, oscure fanzine. All’alba del terzo millennio collabora con Peter Kember, meglio noto come Sonic Boom, ex componente della band neopsichedelica Spacemen 3 ed esperto collezionista di strumentazione elettronica vintage, legame artistico cementato da lunghe conversazioni telefoniche notturne. A questo periodo risale l’ultima sua composizione nota, di cui è coautrice proprio con Kimber, Sinchrondipity Machine, che uscirà postuma. Nello stesso periodo le viene infatti diagnosticato un cancro al seno. Muore nel luglio del 2001, appena sfiorata da un rinnovato interesse che, al di là degli sporadici attestati di stima raccolti fino ad allora, sembra infine strutturarsi con una certa coerenza. In particolare in quell’area culturale che fa riferimento alla cosiddetta hauntology (dall’inglese to haunt, “infestare”, in particolare riferito al soprannaturale), termine di derivazione filosofica utilizzato per la prima volta da Jaques Derrida e applicato da teorici e critici musicali come Mark Fisher e Simon Reynolds ad artisti ed etichette accomunati da un sentimento di nostalgia per un futuro immaginato nel passato e mai concretizzatosi.
Il lavoro di una realtà come Ghost Box, infine, sembra davvero rappresentare la chiusura di un cerchio. Il frullato di cultura pop inconfondibilmente british distillato dal collettivo inglese nelle sue emanazioni grafiche e discografiche attinge infatti al periodo che va dalla metà degli anni Sessanta ai primi Ottanta, facendo convivere, in una ricostruzione tanto fittizia quanto suggestiva, fantascienza rurale, rituali pagani, incursioni da altri mondi che scompaginano il tessuto ordinario dell’esistenza, ma anche il conforto di un welfare state televisivo e radiofonico che, con accenti talvolta inquietanti e spesso visionari, coltiva la fantasia e allarga i confini dell’immaginario. Fantasmi di un passato mai vissuto, spettri di universi paralleli allo stesso tempo rassicuranti e sinistri, frammenti di un altrove inesplorato che si insinuano nella quotidianità: proprio come Doctor Who e i suoi viaggi attraverso lo spazio e il tempo. E come la musica di Delia Derbyshire.
Se fin qui abbiamo parlato di culti minoritari e celebrazioni per pochi la riscoperta – e per certi versi la riabilitazione – della compositrice negli ultimi anni si è spinta più in là, approdando in territori istituzionali. Nel 2007 l’università di Manchester ha catalogato e digitalizzato le 267 bobine ordinatamente sistemate in scatoloni, con tanto di annotazioni e fogli esplicativi, che la Derbyshire aveva accumulato in casa; essendoci di mezzo la BBC problemi di diritti impediscono tuttora la circolazione di quel materiale al di fuori dell’ambito accademico, ma non è impensabile che prima o poi la matassa burocratica possa essere sbrogliata. Soprattutto, lo scorso autunno, in concomitanza con la notizia che il ruolo del fantomatico Doctor Who sarebbe stato affidato per la prima volta a una donna, Jodie Whittaker, l’università di Coventry annunciava l’assegnazione postuma di un dottorato alla sua concittadina, con tanto di laboratori scolastici in sua memoria destinati alle scuole primarie. E, a partire dallo scorso dicembre, il Coventry Music Museum ha inaugurato una sezione a lei dedicata, ricostruendo parte del celebre Radiophonic Workshop. Piccoli segnali di allineamento tra passato, presente e futuro, che fanno riprendere aria a un patrimonio creativo troppo a lungo rimasto sigillato in uno scatolone.