A spettando l’uscita di Senza lasciare traccia di Debra Granik ho ripreso ad ascoltare il podcast Serial, giunto a fine settembre alla terza stagione. Nel 2014 Serial ha rivoluzionato le radio online e, volendo, la moderna narrazione orale, raccontando il caso di Adnan Syed, un ragazzo (forse ingiustamente) accusato di omicidio nel 1999 e tuttora in carcere. La serie ha anche innovato il genere “giallo”: i creatori del programma condividevano con lo spettatore l’ignoranza riguardo alla verità del caso, il famoso whodunit che ci tiene incollati a questo tipo di narrazione nella consapevolezza che chi racconta sa fin dall’inizio cosa è successo. L’ideatrice e voce del programma, Sarah Koenig, ha raggiunto uno statuto di culto grazie al modo schietto di guidare l’ascoltatore attraverso le peripezie giuridiche, il tono sia materno che perentorio di approcciare gli intervistati, la capacità di anticipare i dubbi e farne materia di conversazione condivisa per offrire un servizio che non è solamente d’intrattenimento, ma è anche di natura politica. A maggior ragione il lavoro di Sarah Koenig è notevole poiché dopo l’immenso successo di Serial I, ha continuato a mantenere un profilo basso servendo un’idea di “arte attivista” rigorosa e rara, cruciale da esercitare in questo periodo.
Un profilo professionale e un atteggiamento creativo simile anima la regista Debra Granik (1963), quasi coetanea di Koenig, autrice di tre lungometraggi e svariati documentari. Il film per cui è conosciuta è Winter’s Bone (Un gelido inverno, 2010), che fu nominato a quattro Oscar, tra cui migliore attrice per Jennifer Lawrence. Granik ritorna oggi con Senza lasciare traccia, in concorso alla Quinzaine di Cannes quest’anno e, dopo il successo precedente, prova tanto umile quanto aderente ai valori di una filmografia dell’umano e dell’“americano”. E cioè un cinema che da una parte esibisce alcune caratteristiche specifiche degli Stati Uniti ma dall’altra racconta storie in cui tutti possono ritrovare tratti del mondo che conoscono, quello delle interazioni umane. In altre parole, un riuscito esempio di connubio tra particolare e universale. Forse complimento un po’ datato ma qualità importante in un’epoca storica in cui la chiusura al proprio interno di comunità locali e sub-nazionali è di fatto l’unico elemento che accomuna queste comunità e i suoi membri. In questa contraddizione si situa il cinema di Granik che se da una parte denuncia i difetti dell’isolamento globalizzato e gli orrori dei micro-mondi del contemporaneo, dall’altra li fa percorrere da personaggi femminili imperfetti ma che agiscono, militanti, in nome del bene.
Di formazione documentarista e operatrice, Debra Granik attinge molto al cinema non-fiction. Nella sua filmografia il genere si ripercuote sia stilisticamente che contenutisticamente, rendendo innanzitutto l’ambientazione una figura vivente tramite le riprese crude tipiche del cinema verité e il coinvolgimento degli abitanti locali, spesso ingaggiati come interpreti o comparse. Il suo film di debutto nasce come esercizio per la scuola di cinema, in cui una coppia di attori non professionisti re-inscenava le proprie tribolazioni con la droga. Il risultato è Down to the Bone (2004), ambientato nella provincia a nord dello stato di New York, dove una giovane Vera Farmiga interpreta Irene, madre sola con due figli piccoli, cassiera e tossicodipendente. L’incontro con un infermiere ex-eroinomane nel centro di riabilitazione le farà riscoprire l’amore ma anche ripiombare nel disagio, nel classico sviluppo a là Panico a Needle Park per cui amore e droga diventano un’unica dipendenza. Consumandosi in una provincia grigia che sembra sempre rappezzata col nastro isolante, la spirale si interrompe prima di compiere l’ultimo giro fatale, quando Irene sceglierà di smettere per proteggere i propri figli.
L’ultimo film di Granik è un adattamento di My Abandoment di Peter Rock, ispirato alla vera vicenda di un ex-Marine che ha risieduto insieme alla figlia in una foresta urbana per oltre quattro anni.
Connotato territorialmente è anche il film di mezzo, Un gelido inverno, tratto da un romanzo nato intorno a una regione del Missouri rurale, il complesso montano Ozark. Un Missouri che per colori e clima non spartisce nulla con il recente Tre manifesti a Ebbing, Missouri (che infatti è girato in North Carolina), ed è noto in quella zona per estrema povertà nonché consumo e fabbricazione di metanfetamina. Rispetto all’opera prima, qui Granik riduce l’estensione della comunità – praticamente in un compound dove sono quasi tutti parenti – e l’età della protagonista. Ree ha diciassette anni, sogna di entrare nell’esercito ma trascorre le sue giornate prendendosi cura dei fratelli minori e della madre catatonica. Intorno a lei un paesaggio livido (ricorda un altro film uscito nello stesso periodo – la trasposizione cinematografica di The Road di Cormac McCarthy), arido alveo che ospita baracche e carcasse di automobili, vicini avidi armati fino ai denti, ragazze madri con mariti maneschi. Il padre, noto “cuoco” di metanfetamina e spacciatore della zona, ricercato, ha posto come pegno per la sua cauzione l’unica proprietà loro rimasta, terreno e casa. Per salvare se stessa e la famiglia, Ree è costretta a cercarlo attraverso una rete familiare malvagia e dimentica dei legami, putrefatta in volto e nello spirito dal business di stupefacenti.
Non lasciare traccia, adesso nelle sale italiane, completa questa “traiettoria dell’isolamento” fino a portarla all’estrema introiezione. Il film si apre con un padre (Ben Foster) e una figlia adolescente (Thomasin McKenzie, al suo debutto) serenamente accampati in un grande parco nei pressi di Portland. Pensiamo a un’attrezzata escursione da fine settimana finché non è chiaro che l’anarco-primitivismo dei due non è un’esercitazione ludica. Eppure la loro assenza di dimora tradizionale è in dubbio finché non vengono scoperti dalle autorità. Siamo incapaci di identificare la loro condizione, ci confonde il loro agio nel disagio grondante del bosco cittadino e da spettatori ci scopriamo convenzionalmente allineati alle regole che il padre cerca di sovvertire. Ma in un perfetto comma-22 gli assistenti sociali ricordano: “Non è un crimine essere senzatetto, ma è illegale vivere su suolo pubblico”.
Insieme alla sceneggiatrice e produttrice Anne Rosellini, già collega nei film precedenti, Granik ha adattato il romanzo My Abandoment di Peter Rock, ispirato alla vera vicenda di un ex-Marine che ha risieduto insieme alla figlia in una foresta urbana per oltre quattro anni. In Leave No Trace l’affetto tra i due, riportato dai poliziotti che scoprirono il vero caso, è il nucleo della loro esistenza e il motore che guida i due terzi del film. Trasferiti presso una comunità che offre supporto a casi come il loro, Tom, la ragazza, socializza con altri coetanei durante un corso di veterinaria per animali da fattoria. Qui come altrove, gli animali sono emblema di innocenza ma anche strumenti di auto-consapevolezza per il mondo infantile, esposto suo malgrado a realtà adulte disturbate o insalubri. Il padre percepisce invece il tetto offertagli dallo Stato come un’estensione della società “corrotta” a cui ha cercato un’alternativa vivendo in mezzo alla natura. Si rimette in marcia con la figlia al seguito, questa volta in una zona e stagione più inospitali. È indicativa la caratterizzazione del suo personaggio come veterano: non solo perché l’auto-isolamento è spiegato come una reazione da stress post-traumatico (la quotidianità nei boschi è oltretutto un perenne addestramento all’“emergenza-vita”), ma anche perché sembra suggerire il fallimento, a livello emotivo e culturale, dell’espansionismo americano.
La svolta politica di Senza lasciare traccia avviene nell’apertura verso il futuro, nella reazione costruttiva dell’individuo rispetto al mondo.
La parabola spaziale di questa trilogia si evolve, film dopo film, dal “più grande” al “più piccolo”, percorrendo in parallelo la traiettoria narrativa ed emotiva delle protagoniste. In Down to The Bone, Irene vive in una provincia claustrofobica ma relativamente estesa, dove l’emancipazione si avvera nel mondo degli affetti, desiderando e poi rifiutando il compagno. In Un gelido inverno, la comunità si restringe e la caccia obbligata al padre guida un’emancipazione che si realizza tramite valori astratti (la patria, la famiglia, il dovere). In Non lasciare traccia il tracciato personale si riduce al minimo ingrandendo al massimo la sofisticazione della ricerca: per Tom, la ragazza, l’emancipazione passa attraverso la scoperta di se stessa e la fiducia nella propria identità. A percorrere i tre film di traverso è il documentario Stray Dog (2014), che riunisce alcuni degli elementi più americani esposti nella trilogia: la sopravvivenza in povertà, il servizio alla patria e il moto come sprone al miglioramento della propria condizione.
Protagonista è l’unico uomo positivo dell’universo di Debra Granik, Ron Hall, un veterano del Vietnam, motociclista e amante di cani, che gestisce un campo per caravan insieme alla moglie messicana, recentemente emigrata. Eventi culmine del documentario sono il pellegrinaggio in motocicletta che Ron organizza ogni anno attraverso il paese insieme ai compagni veterani fino a Washington DC, e l’arrivo del figlio adolescente della moglie, anch’egli emigrato dal Messico. Passando il testimone dalle figure femminili alla vicenda di Ron, Debra Granik fa il punto su un’America che esce dal ghetto delle sue particolarità locali e celebra diversità e umiltà non come valori politici ma piuttosto come tratti distintivi nazionali. Allo stesso tempo implicitamente si chiede: quand’è che gli Stati Uniti hanno smesso di guardare al di là dei propri confini?
Una simile domanda se la pone anche l’ultimo documentario di Frederick Wiseman, Monrovia, Indiana, stato tra l’altro confinante con il Missouri di Un gelido inverno. Il paesino preso in analisi è povero di tutto: di denaro e risorse e persone (una delle priorità del consiglio comunale è attirare nuovi residenti) ma anche di curiosità verso ciò che non è se stesso. Non si parla di politica e la società si limita a una serie di rituali ormai privi di significato. La performance come occasione di coesione sociale tanto importante nella cultura statunitense si riduce alla banda scolastica che stonatamente esegue la sigla dei Simpson o all’asta di trattori usati: chi guarda non è il cittadino ma piuttosto un pubblico impersonale che sonnecchia e guarda il cellulare, sopraffatto dalla propria gigantesca mole.
Si capisce come il protagonista di Senza lasciare traccia voglia risparmiare alla figlia tutto ciò. Eppure, in un paese segnato dalla mobilità interna e da un’energia esploratrice molte volte fin troppo aggressiva, questa scelta è storicamente significativa. La svolta politica del film di Granik avviene però nell’apertura verso il futuro, e cioè non nella constatazione rassegnata della situazione corrente quanto nella reazione costruttiva dell’individuo rispetto al mondo. Nell’ultima comunità rurale che l’accoglie, la ragazza fa amicizia con un’apicultrice che le mostra come allevare le api e produrre miele. Metafora facile ma non per questo meno efficace: la società non ferisce se impari a conoscerla, ed è solo interagendoci con cura che puoi creare qualcosa di nuovo per te e gli altri.