L a sostanza del mondo è provvista di sfondi. Certe volte rassomigliano a fondali, superfici sommerse dalle cose che gli accadono davanti, sanno sostenerne la precipitazione. Alcune si compongono di strati sottilissimi, capaci di generare paesaggi impossibili da raggiungere; accolgono le sembianze della realtà capovolte come in un processo di impressione fotografica, oppure le assorbono nella vividezza trasognata che gli attribuirebbe una lanterna magica, trasformandole in qualcosa di completamente differente. Accade così quando una scogliera di terra arsa si frappone tra noi e il tempo, rivelandosi alla coscienza come lo scheletro della storia. Una storia più larga dell’evoluzione di una specie e più profonda di un oceano – un racconto delle origini lungo milioni di anni che porta incastonate tra le rocce le ossa di un futuro già accaduto, e forse proprio per questo non ancora del tutto conoscibile.
È il “richiamo di una lontananza” che avverte Georgia O’Keeffe davanti al profilo delle montagne del Blue Ridge che si staglia all’orizzonte nel corso delle passeggiate tra le colline e i boschi della Virginia, di nascosto con una compagna, durante gli anni delle scuole superiori. O più tardi, in Texas con sua sorella, camminando all’imbrunire nella pianura della cittadina di provincia dov’era andata a insegnare, quando Venere diventava un punto fermo nello spazio calmo della sera; “mentre camminavamo, mia sorella, che aveva con sé un fucile, lanciava delle bottiglie in aria e poi sparava, cercando di colpirle prima che toccassero terra. “Io invece non avevo altro da fare che camminare nel nulla, vagare senza meta” lascia scritto nelle sue carte.
Da “quella stella” nacquero dieci acquerelli, ci fa sapere. E come avrebbe potuto essere altrimenti, per una bambina che aveva trascinato all’aperto la sua casa delle bambole, trasformando un campo incolto in un giardino; per una ragazza che si sarebbe rispecchiata nel nero torbido delle paludi, lungo il tragitto sulle rive del Lake George, dove si trovava per un seminario estivo – “nell’oscurità, quella visione così umida e cupa coincideva esattamente con le sensazioni che provavo”.
Ci sono esistenze che sanno farsi scenari, generare orizzonti azzurrini. O’Keeffe le chiamerà Blue lines – “ero sola e insolitamente libera, non avevo nessun altro da compiacere al di fuori di me stessa” scrive del suo periodo in bianco e nero, “credo fosse giugno quando ricorsi al blu, l’unico colore che mi sembrasse appropriato”. Era il 1916 e quelle linee avrebbero segnato l’inizio di un percorso di individuazione, il tragitto incalcolabile che intercorre tra un deserto del Sudovest e un iris nero.
Tutto sarebbe confluito nelle colline rosse e negli altipiani aridi dei suoi quadri più famosi, lungo i dorsi grigio scuro dei rilievi affastellati come greggi di elefanti e tra le fenditure di canyon e strapiombi, alberi secchi e spinosi; nei panorami costellati di imponenti croci nere, teschi di arieti e pubi di bovini scarnificati dalla luce e dal vento.
Ci sono esistenze che sanno farsi scenari, generare orizzonti azzurrini. O’Keeffe le chiamerà Blue lines – “ero sola e insolitamente libera, non avevo nessun altro da compiacere al di fuori di me stessa” scrive del suo periodo in bianco e nero.
“Mi interessava soprattutto l’azzurro che diventava visibile quando tenevo le ossa nel sole, contro il cielo, come si tende a fare in un mondo dove sembra esserci più cielo che terra”, scrive delle sue estati in New Mexico, dove si sarebbe trasferita dopo la morte del marito, il fotografo Alfred Stieglitz, nel 1949.
Alcuni richiami sanno farsi insistenti. La donna che percorreva a cavallo la strada verso le colline orientali di Taos con il sole alle spalle avrebbe lasciato New York, la luce della sua stanza al trentesimo piano dell’hotel Shelton, per attraversare le pianure del centro e le praterie popolate di mandrie, lavorare tutto il giorno in una Ford modello A dai finestrini spalancati – “potevo togliere il sedile anteriore di destra, staccare quello del guidatore, ruotarlo nella direzione opposta e sedermici sopra di fronte alla tela”.
“Dipingere un’esistenza può diventare una vocazione che si compie a propria insaputa. È necessario praticare una riformulazione costante, radicarsi al sentire piuttosto che ricalcare le cose. Lasciare che il mondo si depositi nel sottofondo della psiche, osservarne svanire i contorni senza sbattere le palpebre come per effetto di una diplopia, dalla cima di un tetto o dal centro di una casa dalle pareti di vetro – quella di Abiquiú, ristrutturata con un’amica, originata da un rudere di muri spezzati, figlia di un vecchio pozzo e di una porta sul vuoto”.
“Ho trovato le belle ossa bianche nel deserto, le ho raccolte e le ho portate a casa. Ho dipinto questi oggetti per esprimere ciò che significano per me la vastità e il miracolo del mondo” – scrive O’Keeffe, le parole e le cose combaciano solo dove le forme si incontrano. Decifrare la realtà è sempre un esercizio di astrazione.
Dipingere un’esistenza può diventare una vocazione che si compie a propria insaputa. È necessario praticare una riformulazione costante, radicarsi al sentire piuttosto che ricalcare le cose.
Nello stato di trance che talvolta benedice chi si aggira tra i corridoi di una galleria, potrebbe capitare di avvistare quelle ossa negli Animali immaginari di Carla Accardi. Due tele realizzate tra il 1987 e il 1988 recentemente esposte a Roma all’interno della retrospettiva dedicata dal Palazzo delle Esposizioni all’artista nel centenario della sua nascita, così come lo furono nel 1988 alla Biennale di Venezia insieme ad altre quattro opere degli stessi anni – Grande dittico, Grande verdeviola, Pieno giorno, Grande capriccio viola. Lavori che rappresentano una fase matura della produzione di Accardi, dove la tela grezza diventa coprotagonista in completo dialogo con il vinilico della pittura.
Sono tele che affiorano dopo anni di intrecciature brulicanti, sperimentazioni radicali che la portano a confrontarsi per ripetizione con il dispiegarsi inaddomesticato della vita nello spazio: “volevo usare la pittura come non l’avevo mai usata, sempre in una posizione di spaesamento. Allora ho usato un fondo, che è stata la tela grezza, come avevo usato il nero per i lavori bianchi, come avevo usato la plastica; all’interno sempre di due elementi”, raccontava in un’intervista a Rosma Scuteri nel 1989. Il risultato è la radiografia di un sogno, un ricordo ereditato per trasmissione simbolica, la dissezione di una panoramica profonda dove a venire a galla più che i resti sono le strutture. “È vero” rispondeva in un’altra conversazione dello stesso anno, “alcuni quadri come gli ‘animali immaginari’ rispondono a quella che io definisco la parte antropologica del mio lavoro: sono come visioni interiori che si trasformano sulla tela in immagini, e che risentono di un certo clima”.
Gli Animali immaginari di Carla Accardi affiorano dopo anni di intrecciature brulicanti, sperimentazioni radicali che la portano a confrontarsi per ripetizione con il dispiegarsi inaddomesticato della vita nello spazio.
Se in quegli scheletri potremmo rintracciare le carcasse di un deserto immaginario, è perché la tela grezza ne trattiene le sembianze fantastiche saldandole a una materialità tutta terrena, tanto da richiamare, per estensione, quel polveroso e dolce smarrimento evocato dalle Tende degli anni Settanta. “Carla è nata a Trapani” scriveva Toni Maraini nella presentazione della mostra che le esponeva a Rabat, in Marocco, tra il dicembre del 1972 e il gennaio del 1973 “una città già in un certo senso contaminata dall’Africa – la prima a ricevere la sabbia rossa portata dallo scirocco sahariano”. E riconosceva in quell’aver portato il suo “spazio immaginario” dall’altra parte del Mediterraneo “un gesto sperimentale e ostinato”.
Accardi era arrivata alle tende – strutture realizzate in sicofoil a cui aveva sovrapposto l’evoluzione dei suoi alfabeti di vernice – dopo una crisi in bianco e nero a cui era seguito un ritorno al colore che si era definito per contrasti tanto sgargianti da risultare opprimenti, spintonare la pittura al di fuori della tela, fino a superfici trasparenti che ne avrebbero presto costituito il supporto rendendola un fatto abitabile. “Per me la tenda è una cosa ovvia” aveva raccontato a Carla Lonzi nel 1966 “quando ho pensato che lo potevo fare io, da sola, di estendere la mia pittura a un ambiente mi è sembrato un atto di liberazione”.
In Triplice tenda, un labirinto percorribile di sicofoil ricoperto da segni di vernice rosa e composto da tre tende diversamente poligonali e concentriche dagli ingressi non allineati, l’interno e l’esterno delle cose si toccano attraverso la luce. In quel “vuoto appena ammaestrato” che è la tenda – come l’avrebbe definito Maraini nel 1971 – il tempo torna a girare in senso antiorario, generando lo stato d’incantamento che innescherebbe il telone di un circo. Il deserto potrebbe essere dietro l’angolo o trovarsi dall’altra parte dell’oceano. Quello che importa è addentrarsi nella geografia di anfratti lucidi che precede una visione ancestrale, la terra come un corpo disabitato.
In Triplice tenda, un labirinto percorribile di sicofoil ricoperto da segni di vernice rosa e composto da tre tende diversamente poligonali e concentriche dagli ingressi non allineati, l’interno e l’esterno delle cose si toccano attraverso la luce.
Forse la stessa che infestò Agnes Martin quando nel settembre del 1967, all’età di cinquantacinque anni, dopo un crollo psicotico che la portò a vagare per le strade di New York e poi ad essere ricoverata e sottoposta a elettroshock, agganciò una roulotte a un pickup, si tagliò i capelli e lasciò definitivamente la versione più mondana della sua persona. A raccontarla così, tra le pagine del saggio Everybody, è la critica inglese Olivia Laing che ne ripercorre il viaggio verso l’ignoto come un tentativo di abbandonare il corpo. Alla fine delle strade dove Martin visse per quasi due anni, accampandosi nei parchi nazionali, nuotando ovunque ci fosse un corso d’acqua, fino ad attraversare l’Ovest, il Canada e poi inoltrarsi a Sud, ci sarebbe stata una casa in mattoni d’argilla di una stanza sola ancora tutta da costruire, situata su una mesa isolata del New Mexico, nel villaggio di Cuba, a trecento metri sopra il livello del mare.
“La sua ritirata nel deserto era strettamente legata al bisogno di sfuggire al corpo” scrive Laing, che ne tratteggia il vissuto di lesbica e schizofrenica negli anni della “caccia alle streghe” in America, quando l’omosessualità era considerata non solo un reato ma una patologia. E la descrive in una foto di Diane Arbus, l’anno prima di partire, seduta su una sedia di legno nella sua tuta da lavoro trapuntata – “una persona capace di costruire una casa dal nulla e persino di cablarla, guarda nell’obiettivo timorosa, consunta, ansiosa di compiacere e pericolosamente indifesa”.
La vera meta che anni dopo la stessa Martin avrebbe individuato chiaramente era la libertà. A chi si preoccupava per la sua solitudine rispondeva che nelle vite precedenti si era sposata molte volte, aveva avuto molti figli, ma in questa vita aveva scelto di essere sé stessa e nessun’altra cosa. La sua insofferenza verso le categorie che la opprimevano si era collaudata nel tempo attorno a griglie di colori tenui e orizzontali che realizzava su tele dalle dimensioni di una persona, come per permettere a chi ci capitasse davanti di poterle attraversare.
“L’ambiente esterno non ha alcuna importanza per il mio lavoro. Non dipingo la natura, o questa vita sulla terra” racconta in With my back to the world, una lunga intervista video che la ritrae nel suo studio di Taos all’età di ottantasei anni. “Ci sono voluti vent’anni, non mi piacevano i miei dipinti e non li mostravo perché non ne ero soddisfatta. Poi è arrivata la griglia ed era quello che volevo, qualcosa di completamente astratto, nessun accenno alle sembianze di questo mondo”.
Impossibile non pensare al deserto come alla manifestazione terrena del vuoto, così necessario alla gestazione creativa.
Le griglie di Martin sono prospettive della mente concepite con le spalle rivolte al mondo, spazi infiniti generati da ispirazioni coltivate con devozione e disciplina, oggetti metafisici pronti a trasformarsi in soglie di meditazione. Sostarci davanti equivale a situarsi al confine di una radice interiore, al cospetto di una rete irriducibile di senso capace di lasciarsi trascendere da un momento all’altro: “quando ti svegli la mattina e ti senti felice per niente, è questo che dipingo”, racconta nella stessa intervista, “emozioni sottili che non hanno alcuna causa rintracciabile nel mondo intorno, e quello che spero è che di fronte a questo le persone possano rendersi conto del fatto che le loro vite sono più ampie di quanto non pensino”.
“Before it’s represented on paper it exists in the mind”, avrebbe scritto nel 1972 in The untroubled mind, una dichiarazione della sua postura prima ancora che un trattato estetico. Non si tratta di andare a perdersi tra le montagne per ritrovarsi, ma di coltivare una specie di distacco dalla natura delle cose. A volte l’unica condizione per fare spazio all’ispirazione è una mente che sa farsi imperturbabile.
“Certe donne vengono nel deserto per cancellare il passato, trovare un nuovo modo di stare al mondo” scriverà Ellen Meloy trent’anni più tardi, in equilibrio sul tetto dell’abitazione costruita insieme al marito nel deserto dello Utah meridionale. “Altre ne fanno la loro casa barattando i legami familiari con luce e colore” premetteva poco prima di ritagliarsi intorno una genealogia di avventuriere, esploratrici e intrepide naturaliste, tra le pagine di Antropologia del turchese, per molti versi un manifesto di rivolta verso il mito del progresso e insieme un’elegia del camminare: “abbiamo soffocato l’orgoglio e ci siamo ritirate prima che andasse tutto a rotoli, prima che le gambe cedessero e cadessimo faccia a terra nella polvere, incapaci di rialzarci”.
Tra le sue pagine andare a caccia della propria anima non è che un miraggio, non esiste pace o rifugio che tenga davanti a personalità spinose come opunzie, vissuti irriducibili a categorie narrative. “Dormiva su una pelle di canguro, fra le sottane nascondeva una rivoltella e una volta posò per una fotografia con un teschio in grembo” racconta di Daisy Bates, un’irlandese che all’inizio del Novecento era andata a vivere da sola tra le popolazioni aborigene dell’Outback, in Australia, collocando la propria esistenza in un intreccio di verità e dicerie, sull’uscio di una tenda ai margini del deserto circondata da creature invisibili – tra aborigene che le portavano in dono schegge di mica e abitanti che raccoglievano pietre per soffiarci sopra maledizioni e preghiere.
“Con una donna simile parlare non è semplice” scrive Meloy facendone una categoria. “Meglio limitarsi ad ascoltare, comprendere che cosa l’abbia portata a sondare simili profondità, toccare con mano l’energia e la determinazione che le hanno permesso di sopravvivere in questo luogo che ha scelto di chiamare casa”.
Per Meloy, il colore delle piscine della California che la ossessionava da bambina – lo stesso della pietra del deserto in cerca di cui da adulta si sarebbe spostata alla maniera di una rabdomante, una tensione a ricompensare gli smacchi subiti durante l’infanzia. Tra le sue pagine il colore turchese diventa uno stato di grazia in grado di plasmare la vita, trasformarla in un viaggio a forma di dedalo, nel cesto intrecciato da un’indiana Yokut che custodisce il racconto del mondo. Come nelle culture native del Colorado, dove “il sognatore camminava verso una meta, si nutriva, si fermava riposare, incontrava creature, vedeva luoghi importanti”. Come se l’unico senso del nostro passaggio non fosse che quello di muovere pietre e scambiarle di posto, rigirarcele tra le dita cullati dalla porosità che le contraddistingue, ascoltarle conversare in quella stretta con un aldilà, contribuendo mollata la presa alla conformazione di un manto geologico impolverato come una falena.
Il colore turchese per Meloy diventa uno stato di grazia in grado di plasmare la vita, trasformarla in un viaggio a forma di dedalo, nel cesto intrecciato da un’indiana Yokut che custodisce il racconto del mondo.
“La turchese è il lascito dell’acqua” scrive Meloy, che ha trascorso il suo tempo a ricostruirne la storia minerale e simbolica, “è volubile e invitante, e nessuno lascia il Sudovest senza accaparrarsene un pezzetto, malgrado la vita sembra abbandonarla non appena lascia l’arenaria asciutta e sanguigna della sua terra natia”. Ci sono posti che non esistono e che proprio per questo è impossibile lasciare. Sono i posti che non ci appartengono ma a cui sentiamo di appartenere; è da lì che scaturiscono le corrispondenze perfette. “Nella terra dei Canyon inizio da tre colori: blu, terracotta, verde” scrive Meloy. “Cielo, pietra, vita. Poi una piuma, un ciuffo di pelo o il dorso di una lucertola, la gola di un fiore o le increspature di un corso d’acqua illuminato dal sole penetrano nella scrittura, e sono costretta a passare in fretta da tre colori a migliaia, la quintessenza di un luogo, questo e non un altro”.
Ci sono posti che non esistono e che proprio per questo è impossibile lasciare. Sono i posti che non ci appartengono ma a cui sentiamo di appartenere; è da lì che scaturiscono le corrispondenze perfette.
È un procedimento che si dipana per associazioni. Prefigurarsi una pietra magica al posto della ghiandola pineale, affinare un sentire che riconduce lo spirito all’arte. Ecco il tipo di intuizione che si addentra nelle cose del mondo, contribuisce all’emersione di una cartografia di precisione che ne rappresenta l’impronta essenziale. Emma Kunz aveva quarantasei anni quando realizzò il primo dei suoi grandi disegni a matita su carta millimetrata attraverso la radiestesia. Tra i suoi strumenti quotidiani non c’erano tele e pennelli ma compassi e righelli, grandi tavoli da lavoro e un pendolo d’argento dalle estremità di giada che fin da adolescente adoperava per esercitare la sua inclinazione alla chiaroveggenza. Nel percorso che la vedeva impegnata a studiare da autodidatta le proprietà di piante e minerali, questi disegni non rappresentavano una forma d’arte ma la traccia di un processo di ricerca e conoscenza improntato alla cura.
I suoi lavori affioravano da un sottosuolo, con l’andamento di cosmogrammi intessuti al telaio si conformavano come profezie di guarigione realizzate sotto la dettatura di un’oscillazione incessante – il pendolo orientava la matita nel connettere i punti, percorrere le linee che calcavano canali energetici, accostare i colori a pastello in maniera coerente con i moti intuiti. Non c’erano titoli o date a contraddistinguere ognuna di quelle mappe. Più che l’esito di un’attività paranormale, si trattava di un corpus di risposte emerse di fronte alle interpellazioni giuste: non c’è niente di più spirituale della materia, interrogarne la sostanza e mettersi in ascolto di quello che ha da dire può diventare il fondamento di un’esistenza.
Era il 1938, e Kunz, che non si era mai sposata e dopo diversi spostamenti era tornata a vivere con le sorelle nel villaggio di Brittnau, in Svizzera, dov’era nata, si esercitava a coltivare la telepatia con l’universo, trascrivere energie colorate e sottili come i fili maneggiati dai tessitori che l’avevano cresciuta. Devota agli scritti di Paracelso, dalle amiche si faceva chiamare Penta. La sua persona era e resta avvolta da una placenta di misteri leggendari: a diciannove anni era andata in America per seguire il figlio di un pastore di cui si era innamorata ma che non aveva più trovato; oscillando il pendolo nel suo giardino faceva nascere calendule in successioni dispari di infiorescenze; guariva le malattie con le pietre; con uno dei suoi disegni aveva predetto la bomba atomica; era infestata da visioni premonitrici sulla guerra e sul destino del pianeta.
Richiami invisibili, a cui dava la forma di orizzonti geometrici, mandala di un inconscio iperesteso che aiutava a venire alla luce in una manifestazione quasi matematica. “Tutto accade in conformità con un sistema specifico di leggi che sento dentro di me e che non mi permette mai di riposare”, raccontava a chi pretendeva spiegazioni; dopo giorni interi di lavoro andava a riposare esausta in una grotta scavata nella roccia da cui recuperava le energie, a Würenlos, in Svizzera, dove oggi si trova il centro che ne raccoglie le opere – esposte per la prima volta negli anni Settanta, dopo la sua morte, e diverse delle quali raccolte nel 2019 dalla Serpentine Gallery di Londra in una delle rare retrospettive che finora le sono state dedicate.
I lavori di Emma Kunz affioravano da un sottosuolo, con l’andamento di cosmogrammi intessuti al telaio si conformavano come profezie di guarigione realizzate sotto la dettatura di un’oscillazione incessante – il pendolo orientava la matita nel connettere i punti, percorrere le linee che calcavano canali energetici, accostare i colori a pastello in maniera coerente con i moti intuiti.
In un saggio intitolato Drawing the invisible, la storica e teorica dell’arte Dawn Adès, rintraccia i parallelismi tra il metodo di Kunz e i principi del disegno automatico surrealista, ma se per i surrealisti questo automatismo era la prova del potere creativo di un inconscio individuale, per Kunz lo slancio proveniva da una sensazione fisica diffusa, la vibrazione profonda che negli anni Trenta l’aveva spinta con l’amica Charlotte Gugelmann a mettersi in cerca di corsi d’acqua sommersi e correnti sotterranee; la stessa che quando lavorava la invogliava a sfilarsi le scarpe facendo del suo corpo uno strumento di ricezione, l’apparato di un immenso organismo vivo.
Nei suoi disegni la natura è parte attiva della coscienza. I punti di contatto tra sé e materia, assunti a coordinate di significato, portano i segni della traduzione istantanea di un’immanenza: di fronte alla vibrazione sottesa che continuamente sfida il linguaggio per farsi espressione, il confine può assottigliarsi fino a svanire.
L’interiorità umana si manifesta così come inseparabile dal mondo e dalle leggi fisiche che lo governano, con le sue cavità cavernose e le sue innervazioni sensibili funziona come un’eco per la realtà vibrante in cui si trova immersa. Davanti alla constatazione che ogni forma materiale è anche psichica, che ogni stato psichico è consistente quanto la materia, confluisce in un intelletto universale e archetipico.
È solo quando la materia si fa simbolo e rivela ciò che è latente nello spirito che la guarigione di un’anima può coincidere con la guarigione del mondo, il surreale con il reale. A dissolversi sono le linee di separazione tra le superfici, i punti di rottura tra gli spazi solidi e gli spazi vuoti. La mente è già un paesaggio, l’orizzonte concentrico che trova sfocio dentro una teoria del tutto.
Riferimenti
Georgia O’Keeffe, Memorie, Abscondita, 2019
Palazzo Esposizioni Roma, Carla Accardi, Quodlibet, 2024
Ellen Meloy, Antropologia del turchese, Black Coffee, 2020
Olivia Laing, Everybody, Il Saggiatore, 2022
Emma Kunz, Visionary Drawings, Serpentine Galleries, 2019