5 luglio 1984. Il giocatore più geniale e costoso del mondo si trova nel labirinto di cemento sotto il manto erboso del San Paolo, nella metropoli più disfunzionale dell’Europa occidentale. Per tutta l’estate l’avevano cercato squadre più blasonate come Real Madrid e Tottenham, ma ad assicurarsi i suoi tacchetti, per una cifra record, alla fine era stata la Società Sportiva Calcio Napoli, che nella sua lunga storia ha sempre ottenuto clamorosamente meno di quanto investito, e vinto appena due coppe minori. Sopra la sua testa stanno saltando migliaia di persone, giunte per acclamarlo con una devozione e una fisicità ineguagliate al mondo.
Se stessimo guardando un qualunque amarcord televisivo sulla presentazione ufficiale del Pibe de oro ai tifosi partenopei, la scena successiva sarebbe stata probabilmente quella di lui che sale le scale che portano al campo e poi inizia a palleggiare – uno, due, tre tocchi – circondato dai fotografi. Uno dei tanti filmati mandati a memoria, religiosamente, da chi questa storia l’ha assorbita sin dall’infanzia.
Invece la scena successiva è la conferenza stampa, quello stesso 5 luglio, sotto le gradinate del San Paolo, in una sala che ha l’aspetto di un bunker sudamericano: illuminata al neon, stracolma all’inverosimile, con i carabinieri a fare da cordone tra i dirigenti sportivi e i cronisti. La prima domanda, scomoda, la rivolge un corrispondente francese: Maradona sa cos’è la camorra? Sa che essa è ovunque e controlla tutto? Il presidente Corrado Ferlaino, seduto al fianco del suo gioiello, non si consulta con nessuno e prende il microfono: Ma lei come si permette? Ma sa quanti sacrifici abbiamo fatto? Balbetta, è furibondo e già madido di sudore. Il giornalista viene cacciato via, tra i fischi dei colleghi italiani.
Inizia così il primo incontro pubblico del campione argentino e dei suoi sette anni partenopei, in cui succedono così tante cose che riempirebbero le biografie di cinque Messi e altrettanti CR7.
È possibile trovare qualcosa di nuovo in un documentario, l’ennesimo, su Diego Armando Maradona? Quello realizzato da Asif Kapadia, già autore di biopic pregevoli come Senna e Amy, parte da un riassunto che sembra la solita minestra: ecco le luci e soprattutto le ombre del poeta del calcio nei suoi anni a Napoli, questo è il lancio dell’opera presentata a Venezia a settembre e poi distribuita su Hbo e Netflix. Tutto già masticato e rimasticato, vedasi l’autobiografia-monumento non autorizzata con la firma di Marco Risi, che non si perdeva un solo cliché, oppure quel pasticcio populista che fu il Maradona di Kusturica, dove tra montaggi schizofrenici con Manu Chao, il detestato W. Bush, Matarrese, Thatcher e i Reali d’Inghilterra, il vero messaggio che doveva passare è che l’autore bosniaco era il Maradona dei registi.
Ma Kapadia adotta lo sguardo dello straniero vero, estraneo a certe logiche paesane, per risparmiarci la retorica e scavare con intelligenza negli archivi più impolverati: quelli della prima moglie di Maradona, Claudia Villafane, per esempio, quelli del suo amico d’infanzia e primo procuratore, Jorge Cyterszpiler, morto suicida due anni fa. Abbiamo forse il primo caso al mondo di un regista che dopo aver diretto, tra le altre cose, due episodi di Manhunter si è dovuto cimentare in ore di editing in compagnia di Aldo Biscardi, Paolo Cirino Pomicino e Nino D’Angelo (che, all’inaugurazione di un “American Bowling” con Maradona come ospite d’onore, si vede ignorato e diventa una comparsa qualsiasi).
Il risultato è un mosaico di ricordi in buona parte inediti, profondo e toccante come non si sarebbe mai creduto, che rifugge il più possibile la bolsa nostalgia e il qualunquismo sportivo. La storia del campione che cade e si rialza non manca, ma il vero protagonista, “maradoniano” in senso quasi antropologico, è il contesto.
La Napoli e l’Italia degli anni Ottanta sono posti spietati: il miliardario (in lire) Maradona viene praticamente sequestrato dal clan Giuliano: Carmine, trentacinque anni, detto “‘O lione” per la capigliatura alla Troisi, calciatore mancato che si era fatto costruire nei cunicoli del quartiere Forcella una stanza detta degli “specchi”, rivestita da cima a fondo, cura le relazioni pubbliche del clan. In un’intervista gli chiedono se sia il responsabile della pulizia etnica contro i dominicani del centro storico: lui, senza scomporsi troppo, dice che ha ben altro da fare e che ci deve pensare lo Stato. Preleva l’argentino e se lo porta a cena, in uno dei suoi fortini adibiti a dimore private nel budello cittadino, insomma lo mette sotto la sua ala protettiva, gli garantisce che nessuno gli farà mai del male, si fa fotografare con lui nella leggendaria vasca a forma di conchiglia, in un bagno con le Madonne al posto dei dispenser di sapone.
Per contro, nelle tv romane trionfa la demagogia più ottusa, con i soloni dei quotidiani progressisti che invitano i calciatori a mettersi in riga; e tuttavia anche un certo compiacimento nell’offrire al venticinquenne argentino le sue prede. Come quando, già sposato e con una figlia in arrivo, gli vengono offerte in diretta le grazie e la compagnia di Heather Parisi. Non c’è traccia del politicamente corretto che conosciamo oggi e questo per alcuni è il segno di maggiori possibilità espressive, ma la spontaneità del tempo segna lacerazioni che non si ricomporranno più.
Vi troviamo quelle scene di “amenissima follia collettiva” (per dirla con Brera) dei napoletani, che non mancano in ogni sintesi Rai già disponibile su YouTube. Ma c’è anche uno sguardo che si sofferma sullo spaesamento del Numero 10 travolto in quell’abbraccio soffocante, sui cori razzisti contro i meridionali negli stadi di mezza Italia in quella che già allora è una frattura identitaria tra Nord e Sud.
È possibile trovare qualcosa di nuovo in un documentario, l’ennesimo, su Diego Armando Maradona? Quello realizzato da Asif Kapadia adotta lo sguardo dello straniero vero, per risparmiarci la retorica.
Maradona durante i Mondiali del 1990 chiede ai napoletani di tifare Argentina. Non lo ascoltano, e quando l’Italia viene sconfitta ai rigori in semifinale proprio dalla biancoceleste e proprio al San Paolo, Maradona diventa per il resto della Penisola una specie di Lucifero. Nel film si vede un sondaggio commissionato da Repubblica sui personaggi più odiati dagli italiani all’indomani della sconfitta in casa: dal basso verso l’alto nella Top-10 ci sono Schillaci, Berlusconi, Agnelli, e via risalendo si arriva a Gorbaciov, Saddam e infine a Maradona, al primo posto. Il Muro di Berlino è già crollato e si vede non ci vogliamo arrendere alla fine della Storia.
Ci sono le donne, quasi sempre ridotte a uno stato larvale o miseramente decorativo: la madre di Diego, Doña Tota, che vive in funzione del figlio; la sposa scornata Claudia, che però sembra perdonargli tutto; le napoletane aspiranti ancelle, che per sfuggire alla miseria e all’anonimato gli si appiccicano addosso, circondate da uomini con il gel e la zazzera e i Rolex d’oro, che applaudono. Lo scandalo del 1986 è la notizia di una relazione randagia con una ventiduenne studentessa di ragioneria, che gli darà il primo figlio battendo sul tempo per due mesi la moglie. Un figlio lungamente non voluto e non riconosciuto, nonostante le denunce e i tribunali. Lui in cuor suo sa, ma non accetta: “Troppa gente è cattiva con me”, dirà ai giornali. “Mi dicono: riconosci il bambino. Ma quel bambino non è mio, il mio unico figlio è quello che avrò da Claudia… Avrei preferito mille volte che mi avessero dato del frocio”.
A un ulteriore livello di abbrutimento ci sono le donne affiliate alla camorra, che la saggistica specializzata descrive spesso come protagoniste nella gestione degli imperi criminali. In realtà, a fine anni Ottanta i padroni del territorio continuano a far loro sfornare prole e poco altro: Gemma Sacco, moglie di Pio Vittorio Giuliano, re di Forcella e padre di Carmine, diventa madre a 13 anni, ha già tre figli a 17 anni, ben undici a 40. La stessa storia del resto riguarda i proletari della Sanità, dei Quartieri, del Rione Traiano, che si riproducono come conigli. A fare da cerniera tra oppressori e manovalanza c’è una borghesia rassegnata e pavida. Gli ospedali della città sanno tutto ma non osano fare domande: “mio marito è contento così”, è la risposta più comune delle mamme bambine.
In questo contesto il capitano del Napoli è al tempo stesso ammaliato e disturbato, padrone e ostaggio. Dalle telefonate intercettate si apprendono nuovi particolari non tanto sulle sue notti proibite, quanto sul clima generale che si respira. È l’alba del 7 gennaio 1991, l’incontro giocato e perso con la Juventus di Gigi Maifredi, a Torino, è già un ricordo. Diego ha detto più volte che a fine stagione andrà via, la società non ha più niente da dargli, lui non ha più stimoli; tanto vale spassarsela. Compone il numero di donna Carmelina, affiliata al clan Lorusso, che aveva preso la palla al balzo, era andata a Soccavo, dove si allenava il Napoli, e detto a Maradona mentre saliva sulla sua Ferrari nera: Se vuoi belle guaglione chiamami.
La maîtresse quasi non crede che al telefono ci sia Dios in persona. Gli passa pure il figlio, di quindici anni, tifosissimo del Napoli, giovane promessa della lotta libera per i Vigili del Fuoco, e l’argomento è la sconfitta in campionato. “Sono delle merde”, gli dice Maradona con voce già strafatta, prima di fissare un appuntamento nella rispettabilissima via Petrarca, zona di cliniche per aborti clandestini e prostitute d’alto bordo, per due donne subito disponibili. La polizia, a scandalo esploso, si inventerà di sana pianta nomi di fantomatiche lavoratrici del sesso brasiliane, tunisine e algerine pur di coprire il fatto che si trattava, invece, di figlie di papà della Napoli-bene, studentesse o disoccupate ma anche professioniste, ragazze impeccabili che si facevano pagare con cinque o settecentomila lire o una piccola dose di coca. Se l’inizio della fine sono i fischi ricevuti dall’Argentina nella finale mondiale di Roma, la catastrofe è il sorteggio antidoping del marzo del 1991, che porta Maradona a un esilio precipitoso, nella solitudine più totale, e a molte altre cadute rovinose.
Ma qui siamo nel campo delle immagini trite, il Maradona engordado dai capelli ossigenati e lo sguardo stralunato che va nella Cuba dell’amico Fidel a disintossicarsi (e nel frattempo, a fare tre bimbi con altre due donne diverse), insomma quello che già conoscono tutti, facendoci distrarre dalla parte più prelibata del documentario, che sono le scene di vita quotidiana in una civiltà già in atroce declino.
In uno dei momenti più significativi del film, Maradona esce per le strade di Napoli a notte fonda, a bordo di un furgoncino malmesso, in una di quelle esplorazioni che lo avevano reso famoso tra il popolo dei “bassi”: anonimo fra gli anonimi. La mini-fuga si interrompe subito, perché viene riconosciuto e affiancato dal solito Carmine Giuliano, con la sua Lancia rossa scintillante, che lo scorta senza accettare obiezioni in una piazza di Forcella stranamente vuota e silenziosa.
Basta uno schiocco del caporione per far apparire dal nulla centinaia di persone, come emerse dalle cave di un presepe addormentato; dal silenzio si passa ai fuochi artificiali che esplodono per strada, in omaggio alla figlia di Maradona che compie gli anni quel giorno, in un tripudio esagerato dove però nessuno osa avvicinarsi al veicolo del calciatore, che altrove sarebbe stato preso d’assalto. Gli abitanti di Forcella sono insomma nient’altro che marionette a disposizione del camorrista, e non muovono un dito se lui non vuole.
Si sfogheranno, probabilmente, nei loro tuguri, su mogli figli e fidanzate. Emerge infatti, sopra a tutto, il dettaglio sostanziale del patriarcato: Diego ci manteneva tutti da quando aveva 15 anni, dicono i parenti, le sorelle, le compagne. Persino i suoceri a un certo punto si vedono ridenti e sudati durante un barbecue di carne asada, nell’estate del 1986, durante i Mondiali che Maradona vince da solo, quando già stanno girando voci fondate sulla sua relazione clandestina. Ciò che all’uomo della strada sarebbe costato l’esclusione sociale e lo stigma della comunità, al calciatore milionario è invece perdonato, grazie al suo apporto finanziario e alla capacità di creare un immaginario. E allora, se è impossibile separare davvero l’uomo dall’artista, lo strafottente dal genio, è possibile provare commozione per un patriarca fallito?