S aul Tenser (Viggo Mortensen) è fra lɜ performance artist più rispettatɜ del mondo. Ricercato, studiato, emulato e burocraticamente categorizzato, usa e lascia usare il proprio corpo (ma gli appartiene veramente?) da apparati biotecnologici guidati dalla partner Caprice (Léa Seydoux), chirurga convertita alla body art dal folgorante lavoro del proprio compagno. Insieme si aggirano per un mondo consumato, fatto di resti e rovine. Non ci sono crisi climatiche che minacciano l’esistenza delle specie; queste catastrofi sono già avvenute e si cerca di fare i conti con i loro effetti. Le strade e gli edifici dove si svolge l’azione sono consumati, minimalisti e sommessamente putrescenti. L’atmosfera è quella di un’estate incandescente perenne; l’umidità riduce il ritmo dell’azione e del dialogo, si aspetta la notte e l’ombra per parlare e uscire, per confrontarsi su nuovi esperimenti artistici (o sulle ultime banali trovate commerciali) e, soprattutto, su come gestire e intendere i nuovi organi e le fisicità divergenti che sembrano spuntare ovunque. Ci si chiede se questi siano cancri, infezioni proliferanti e fuori controllo, effetti esplosivi di inaspettati meccanismi autoimmuni o l’emersione di una nuova carne, di una diversa fase evolutiva per la specie.
Le risposte dellɜ variɜ protagonistɜ del film sono di meraviglia, orrore, rifiuto, bisogno di classificare e normare, opportunità per nuovi affari e accumulazioni private, o religioso e transumanista tecno-entusiasmo. Allo stesso tempo, nessuna di queste posizioni sembra risolvere o portare a compimento i quesiti presentati da tali processi, ogni risposta appare parziale se non completamente incapace di cogliere l’enigmaticità del mondo circostante. L’esempio più eclatante di tale fallimento sembra quello dellɜ mangiatorɜ di plastica e del loro leader Dotrice; convintɜ che la soluzione alla crisi dell’umano possa cristallizzarsi nella mutazione chirurgica dell’apparato digerente e nella conseguente possibilità di “convivere” con i resti e i rifiuti del mondo, questɜ vedono nel cadavere del figlio del leader (Brecken), primo nato (naturale-innaturale) con un nuovo organismo adatto allo scopo, l’incarnazione di un’inedita salvifica umanità. Eppure, nella sequenza più intensa del film, in cui vediamo questo corpo inerte sottoposto a un’autopsia performativa per mano di Caprice, i nuovi organi appaiono nella loro violenta convenzionalità: scomposti, deformi, pura e semplice materia che racconta dolori, tensioni, e mutazioni di una natura innocente nella sua agghiacciante inospitalità.
Quello di Crimes of the Future di Cronenberg, ultima opera e suo esplicito ritorno al body horror, pertanto, è un mondo di enigmi e impotenze, in cui si sopravvive, si aspetta la fine. Questo appare tanto più evidente osservando l’esausto Saul, la cui “anima tesa o che tende” (saul/soul tenser) prende forma in una corporeità fragile, che deve misurare con calma le prove e le soglie a cui si sottopone di continuo, riportandone con cura dettagli, sensazioni, inaspettati piaceri o insostenibili sforzi. Nel suo aggirarsi per il mondo ricoperto di veli, come un corpo malato, o tentando di mantenere una distanza da esso, Saul sembra incarnare perfettamente l’idea di umanità passiva/postuma descritta – rispettivamente su linee psicoanalitiche e su traiettorie spinoziste – da Elisa Cuter in Ripartire dal Desiderio e da Roberto Ciccarelli in Una Vita Liberata.
Melanconicamente ripiegata su sé stessa, questa soggettività debole, distrutta dalle continue richieste di performatività neoliberali e dai fallimenti delle promesse di emancipazione, è incapace di formare nuove relazioni e di rinnovarsi. Benché magari scampato agli effetti più punitivi del regime di sfruttamento e governance, il soggetto postumo attende terrorizzato e brama la fine del mondo come speranza di annullamento. Piuttosto di formulare strategie per abitare le contraddizioni del presente, sogna uno stellare buco nero che ne cancellerà ogni traccia, verso una pace che è oscura assenza di vita e dove la fine di un mondo diventa distruzione di tutti i mondi possibili. Il finale del film, con riferimento esplicito a La Passione di Giovanna D’Arco di Dreyer (1928) sembrerebbe rafforzare questa tesi. Saul muore o sublima i propri limiti sottoponendosi al test finale, mangiare la plastica, e si commuove sentendo un corpo che allo stesso tempo lo abbandona e lo trascende come quello dell’emblematica santa-mistica guerriera.
Crimes of the Future di David Cronenberg, ultima opera e suo esplicito ritorno al body horror, è un mondo di enigmi e impotenze, in cui resta solo la sopravvivenza.
Saul e le sue sperimentazioni cibernetiche, paradossalmente, non sono troppo dissimili dalle passeggiate per il quartiere Sanità di Napoli di Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) in Nostalgia di Mario Martone. Lontano dalla sua città di origine per 45 anni, dopo una vita professionale e sentimentale realizzata fra Libano e Egitto, Felice torna per cercare le tracce del proprio passato e chiudere i conti con rimpianti e ricordi più traumatici. Il corpo doloroso del protagonista, in questo caso, si combina col tessuto urbano. Napoli è miracolosamente uguale a se stessa, ripete continuamente Felice, ma in realtà è cambiata, è diventata, come sottolinea Martone stesso, un labirinto. Le ferite sociali ed ecologiche si moltiplicano oppure si sanano in forme inaspettate attraverso la formazione di nuove comunità; i tramonti rimangono meravigliosi, ma il tempo ne ha modificato il senso. Il figlio “cura” la madre e ne lava dolcemente il corpo nudo e segnato dagli anni e dalla solitudine in uno splendido e commovente ribaltamento della Pietà. Ma Felice non riesce ad adattarsi e fare tesoro di queste contraddizioni; freme per la riconquista di un’amicizia che non esiste più e per il senso di fratellanza e lealtà ad essa connesso, e anela a un impossibile ritorno a casa, entrambe tensioni che segneranno la sua sconfitta. Il legame corporeo con la propria memoria sofferta, densissima di senso e di conflitti, diventa una gabbia, una nuova ragione di impotenza che previene la costruzione di nuovi legami, laddove proprio il suo amato quartiere sembra esplodere di nuovi volti, di una nuova vitalità e capacità di condividere.
Ci sarebbe molto da dire rispetto alle traiettorie politiche ed estetiche dei due film. Entrambi ci restituiscono dei mondi a pezzi, forse anche sublimi nella loro decadenza e nel loro tendere verso il collasso e, ugualmente, delle soggetività che sembrano adeguarsi attendendo, persino con un certo compiacimento, l’inevitabile. Da qui, forse, anche l’impasse artistica espressa da Saul che, come notato da Tania Rispoli, in quanto alter-ego di Cronenberg stesso, rimane a sua volta fermo su un immaginario biotecnologico datato, quello principalmente legato a eXistenz (1999) o, sotto certi aspetti, a Crash (1996). Allo stesso modo, Rispoli continua, il film sembra muoversi attraverso tensioni strettamente edipiche che portano a facili dualismi (il corpo e la parola come insanabilmente distanti, ad esempio) o riducono la sperimentazione delle soglie (dolore, piacere, organico e inorganico) a poco più di semplici limiti che segnano l’ineluttabilità del corpo individuale e dei suoi traumi. D’altro canto, se negare i dolori del corpo ci appare ipocrita, allo stesso tempo, vivere la corporeità come una pura prigione e tana d’impotenza ne cancella il suo essere relazionale e le sue mutanti connessioni. Analogamente, se ignorare il passato e la violenta fisicità della memoria sembra una facile scappatoia (“la conoscenza è nella nostalgia, chi non si è perso non possiede” recita la citazione di Pasolini in apertura di Nostalgia), altrettanto depotenziante appare lasciare che queste tracce e ferite divorino il divenire del mondo.
Crimes of the Future e Nostalgia sembrano raccontarci dei fallimenti esistenziali completi, dunque, eppure rimangono entrambe esperienze molto vitali attraverso processi disturbanti e destabilizzanti. Basti pensare alla coppia Caprice-Saul; da un lato, il vecchio maschio (chi meglio di Viggo Mortensen per incarnare una mascolinità “classica” e, allo stesso tempo, non narcisista) stanco anche del suo ruolo come punto di riferimento che (giustamente, si direbbe) vuole abbandonare a causa della coscienza dei propri limiti. Dall’altro, in una sorta di facile dicotomia, Caprice, si presenta come una banale perversa polimorfa, capricciosa (appunto), curiosa di provare ogni nuova sensazione e innovazione nella body art. Tuttavia, è proprio Caprice a commuoversi di fronte al cadavere del giovane Brecken, a riconoscere la disperazione di un corpo che non ha risposte se non quella di sottolineare ancora di più la pervasività dell’orrore del mondo. Nel suo pianto ricorda anche che bisogna continuare a mappare con curiosità il cuore di tenebra del reale senza paura, senza temere di essere solɜ nel percorso, cosciente che gli strumenti e l’efficacia per farlo possano moltiplicarsi, e che tutto vada fatto senza forzare la mano su traiettorie autodistruttive.
Crimes of the Future e Nostalgia sembrano raccontarci dei fallimenti esistenziali completi, eppure restano entrambe esperienze vitali.
Non è una dualistica opposizione quella fra Caprice e Saul, pertanto. In due testano le soglie del possibile, sbagliano e falliscono, si illudono, e possono cadere vittime delle trappole che si annidano in ogni dove, ma le loro corporeità esprimono anche il desiderio di continuare a esistere. Da questo punto di vista, l’immagine finale potrebbe parlarci di un nuovo equilibrio, di un sollievo del corpo che si adatta faticosamente al cambiamento, invece che denunciarne la fine, la condanna e la dissoluzione. In Nostalgia, è, invece, la comunità del quartiere e il suo divenire a rispondere dell’impotenza di Felice Lasco: il loro stare assieme e amarsi, suonare, ballare, fare progetti, includere nuovɜ membrɜ, vivere la città reinventandola, dicendoci che la vita può essere ripensata sempre e comunque con ogni mezzo necessario.
L’ambigua bellezza e potenza delle immagini dei due film ci porta a riflettere sulla funzione generativa dell’arte, a sottolineare la sua forza desiderante e affermativa. Dopotutto, pensando a un altro lavoro di Martone, Qui Rido Io, non sono tanto Eduardo Scarpetta e il suo talento nel trasformare tutto in sceneggiata a trionfare sulla morte e sul tempo che passa. Ciò che prevale è la relazione che l’arte stessa ci presenta di volta in volta, la domanda che essa innesta e produce nel ripensare e percepire nuovamente i nostri corpi nel mondo. Questa forza creativa, per tornare alle analisi di Cuter e Ciccarelli, risponde dell’impotenza di ogni chiusura narcisistica, riconnette la soggettività col divenire e con la profonda alterità del mondo, un’energia sperimentale che è possibile rinegoziare e rilanciare in modi inaspettati in ogni frangente.
Le immagini, nonostante tutto, rimangono vive a ricordarci che possiamo anche sentirci esaustɜ, ma la vita, impersonale, relazionale, priva di ‘io’ e territori da difendere, continua ad attraversarci e può essere liberata ovunque. Benché gli esempi esistano per ricordarci che c’è sempre un’alternativa alla miseria del presente, non si tratta di invocare falsi volontarismi magici, nuovi modelli etici personalizzati o pure soggettività rivoluzionarie, di prendere su di sé, come ulteriore carico colpevole, la necessità di agire come superomistiche forme di “buona vita”: capaci, perfette, e continuamente aperte al divenire in base a forze individuali da accrescere come ogni altro “capitale umano”. In questo senso verrebbe da citare ironicamente il Quelo di Guzzanti e dire che se la risposta si trova dentro di te, allora è quella sbagliata. Si tratta, invece, di agire e organizzarsi non smettendo mai di credere nella complessità della forza dei nostri corpi insieme e nel mondo che li circonda. Così la stessa condizione postuma può smettere di presentarsi come una solenne condanna esistenziale per diventare, propriamente, una questione politica da cui partire per definire nuovi modi della potenza comune.