C orpo e anima, vincitore dell’ultimo festival di Berlino, è un film intelligente e non troppo ben riuscito, che parte da una buona idea per svilupparla in modo incerto (vagabondando tra generi diversi quali la fiaba, il dramma intimista e la commedia romantica) e concluderla con un consolatorio, mieloso lieto fine. Come se la regista ungherese Ildikó Enyedi avesse premeditatamente moltiplicato le risorse narrative finendo per “assemblare” il film – come si assembla un computer – con elementi eterogenei e già pronti. Lo stesso rischio correvano in altri tempi quei poeti che si avvalevano del rimario: un repertorio comune, codificato da una prassi lunga e consolidata, capace di risultati troppo convenzionali per conservare una ragione d’essere.
Endre, il protagonista maschile, è il direttore finanziario di un allevamento-macello ungherese altamente tecnologizzato che raccoglie animali, uomini e macchine in una sanguinosa prassi quotidiana. Ha una cinquantina d’anni, una vita avvizzita come il suo braccio sinistro. Da lui emanano contemporaneamente un’aura di maturo appetito sessuale e un sentore di stantìo, come se dal sesso Endre si astenesse per vergogna o per un sentimento di senilità. La vita lo ha deluso, oltre che mutilato. Svolge il suo lavoro con indifferente efficacia e durante la pausa pranzo scambia poche avvilite parole con il collega Jenő, un uomo goffo e impaurito che ben rappresenta l’ambiente di lavoro perché ne subisce passivamente pressioni, pettegolezzi e regole non scritte.
Un giorno il macello assume come reponsabile del controllo qualità la giovane Mária, una magra donna sulla trentina che è mutilata nell’anima come Endre è mutilato nel corpo: non parla mai con i colleghi, non ride, non sorride, mangia da sola alla mensa aziendale. È clinicamente incapace di intrattenere una conversazione extralavorativa, quasi ignorasse che in un luogo di lavoro si raccoglie e si struttura un gruppo di umani pronto a punire chi non si adegua alle vigenti regole della socialità. Puntualmente – e presto – Mária viene punita: si ride di lei, del suo modo di camminare, della sua solitudine. Attratto da lei quasi per affinità teratologica, Endre cerca senza successo di avvicinarla: non sa che il malessere di Mária va ben oltre la sua apparente stravaganza. Mária è in cura da uno psicologo da quando era bambina e la sera, tornata a casa, con due soldatini di plastica rimette in scena sul tavolo della cucina le conversazioni della giornata.
Se questo film è una fiaba, fallisce sulla linea del sangue: una fiaba ha bisogno di un elemento macabro latente.
Ad avviare il plot provvede il furto di una non menzionata sostanza utilizzata in azienda per stimolare l’erezione nei tori da monta. La polizia sospetta che l’autore del furto possa essere un uomo con problemi di impotenza e si fa aiutare nelle indagini da una psicologa che chiama tutti i dipendenti a colloquio, sia gli uomini che le donne. Proprio durante questi colloqui emergerà che da tempo Endre e Mária fanno ogni notte lo stesso sogno – mostrato fin dall’inizio anche agli spettatori in brevi scene intercalate alla narrazione – senza nulla sapere l’una dell’altro. Sognano di essere due cervi, maschio e femmina: si aggirano in una foresta innevata, si cibano, bevono l’acqua di un ruscello che appare identico nei due sogni paralleli e si accarezzano con il muso. La psicologa sospetta uno scherzo; Endre e Mária, sorpresi ma non spaventati, iniziano un avvicinamento reciproco che li porterà a sedere insieme alla mensa, raccontarsi ogni giorno il sogno della notte precedente, uscire per mangiare da soli al ristorante e cercare infine – senza successo – di addormentarsi insieme senza sesso per sognarsi cervi in una vicinanza anche fisica. Mária è incapace di fare sesso, ma con buona volontà comincia a guardare film pornografici e osserva nei parchi le effusioni degli innamorati; Endre si sente vecchio e inadeguato, ma si fa coraggio e cerca di corteggiare Mária.
Se questo film è una fiaba, fallisce sulla linea del sangue. Una fiaba ha bisogno di un elemento macabro latente: in Anima e corpo invece il macabro lo vediamo frontalmente nei primi cinque minuti, quando ci viene presentata la vita quotidiana dello scannatoio, e nel finale. Per il resto il film sembra fare di tutto per attenuare la vista del sangue, come se volesse scusarsene ridimensionandola. Da un lato imbocca la strada di un leggero dramma intimista che mostra Mária dallo psicologo e Endre – solitario e innamorato – a casa o nei ristoranti; dall’altro sviluppa intorno ai due protagonisti una commedia romantica premeditatamente “delicata” e per questo inevitabilmente tediosa, con le scene divertenti di Mária che sperimenta pornografia e canzoni folk per imparare a provare emozioni e quelle malinconiche di Endre che prende a calci il materassino sul quale è fallito il progetto di addormentarsi accanto a Mária. La colonna sonora non manca di accompagnare ogni scena con un commento musicale adeguatamente patetico.
In questo suo irrisolto vagare tra immagini e stili discordanti, nel suo far balenare fuggevolmente l’ombra della morte per poi ridimensionarla grazie alle consolatorie peripezie della commedia sentimentale, Corpo e anima partecipa (suo malgrado) a quella rimozione della morte dallo spazio rappresentativo che è uno dei tratti decisivi della nostra epoca, ignorato nel cinema solo da pochi e “inattuali” solitari come Michael Haneke. È una fiaba romantica con ambizioni psicologiche, un raffinato e banale prodotto di mainstream che vorrebbe parlare della morte ma non ci riesce.