U na bio queen è una drag queen che non deve fare tucking”, che non deve quindi nascondere il proprio pene prima di fare una performance. Durante la serata di chiusura del Dragmeup festival, un evento romano dedicato alla drag culture, la giornalista Stefania Marra definisce in questo modo l3 artist3 AFAB (assigned female at birth) che indossano e spettacolarizzano la femminilità. Perché una definizione sul drag (sembra un ossimoro) viene incentrata sui genitali? Smembrare le definizioni e il loro assetto “scientifico”, riflettere sul linguaggio e, quindi, sulle contraddizioni interne di quest’arte queer è una pratica decostruttiva non spoglia di pericoli; e se li adottassimo come origine del discorso, insieme alle nostre mancanze e a tutto ciò che riusciamo a fatica a guardare? Innanzitutto, tentiamo di disegnare una mappa del contesto dentro cui incagliarsi e delle paure motivate di rivoluzionarlo, cambiandone le parole ed esibendo ciò che finora è stato taciuto. Nell’orientarci, prima di tornare a non-definire, stringiamo forte la consapevolezza che in questa storia non ci siano progressiste o reazionari, buoni e cattive.
Per quanto nel microcosmo drag, in quella cultura che orbita attorno alle performance di parodia dei generi sessuali, esistano molteplici corpi ed esperienze, non tutti hanno la stessa visibilità. L’immagine di quest’arte, costruita attraverso programmi televisivi come RuPaul’s Drag Race e opere cinematografiche (tra gli ultimi film sull’argomento, ricordiamo Trois nuits par semaine presentato nel 2022 alla Biennale di Venezia) e teatrali, tende a essere omogenea: viene spettacolarizzata la (iper)femminilità da corpi socializzati come maschili, insomma l’immaginario mediatico è abitato principalmente da drag queen. Drag king, faux queen, drag creature, tranimal, activessle si pongono nelle zone d’ombra di un fenomeno già ai margini, grandi assenze di un mondo ancora confuso per un pubblico mainstream (si potrebbe contestare anche la definizione di “mainstream” che non tiene in considerazione i numerosi piani socio-economici dentro cui si colloca – viene collocato – il soggetto; per ora, sono alla ricerca di alternative per farmi capire) o, meglio, per chi ancora non è entrato in contatto con un contesto drag.
Nel drag viene spettacolarizzata la (iper)femminilità da corpi socializzati come maschili: l’immaginario mediatico è abitato principalmente da drag queen.
Forse per questo motivo, la fame di evocare queste figure in maniera comprensibile (leggi: polarizzata) rende miopi davanti alla parzialità del nostro linguaggio per evocarle. Le definizioni hanno il suono di un “purché se ne parli”, la stessa legge con cui sono e sono stati rappresentati personaggi della comunità LGBTQIA+ nell’immaginario mediatico: dagli amici gay a ornamento delle protagoniste glamour a persone transgender il cui unico tratto caratteristico è il transgenderismo. In pochissime ricorderanno tratti identitari di Stanford Blatch, amico di Carrie Bradshaw in Sex and the city, che non abbiano a che fare con il suo orientamento sessuale e la sua stereotipizzazione. La vita di Bree, invece, interpretata nella pellicola Transamerica dall’attrice cisgender Felicity Huffman, è tratteggiata in una sospensione totalizzante, la sua esistenza è solo l’attesa di un’operazione chirurgica di riassegnazione di genere che la renderà “intera”. Come se la protagonista potesse diventare reale e complessa solo se inserita a livello corporeo nel binarismo di genere e legittimata da un’autorità, medica in questo caso.
Ma davvero esistere in trasparenza, come contenitori di visioni esterne, compartimenti stagni di ogni ambiguità sociale, è meglio che non esistere affatto? Meglio essere monodimensionali che non essere? Qual è il momento giusto per rendere più complesso il linguaggio per riferirsi a un microcosmo complesso? Non è scontato rispondere “adesso”: in Italia, scarseggiano i momenti di formazione su tematiche artistiche queer per un pubblico “non specializzato”; se esistono, fotografano parzialmente queste pratiche, come nel caso delle queen di Drag Race Italia, o restano negativi da sviluppare: pensiamo agli eventi delle drag Paola Penelope e Cristina Prenestina dedicati all’infanzia, che nel 2020 hanno ricevuto attenzione mediatica solo in seguito agli attacchi di Pillon e Meloni. I riflettori sono puntati pubblicamente sui tentativi di censura più che sui soggetti e le espressioni censurate. Dunque, in una realtà ancora spoglia di pedagogia, nel fare metariflessione e problematizzare il drag si correrebbe il pericolo di decostruire prima di alfabetizzare, di adottare un’epistemologia queer per indagare fenomeni ancora sommersi, insomma di montare un castello su basi poco solide.
In Italia i riflettori sono puntati pubblicamente sui tentativi di censura più che sui soggetti e le espressioni censurate.
Inoltre, il drag ha la capacità di mostrare le contraddizioni dell’ambiente LGBTQIA+ che, in parte, l’ha generato; analizzare l’uso di un linguaggio improprio per parlarne conduce quindi su un terreno scosceso dove emergono anche le divisioni e i nodi problematici della comunità. Decidere di non mostrare la frammentazione interna di questo mondo è spesso una questione di sopravvivenza, ma è anche perdita di possibilità rivoluzionarie. Creare uno schieramento compatto in contrapposizione con un’alterità eterosessuale e cisgender, machista e reazionaria ha infatti dei rischi: potremmo dimenticare i problemi interni, percepirci e venir percepit3 come un’unica entità e sovvertire schemi e linguaggi violenti utilizzandoli e reiterandoli. Certo, rimangono leciti il timore che l’altro non ci veda né voglia farlo, la necessità di rivendicare le discriminazioni comuni subite per dinamiche di genere, ma essere in una chosen family, una famiglia d’elezione, non equivale a ignorare il proprio corpo e gli spazi che gli sono negati. Dovremmo nutrire al contempo la spinta a una trasformazione radicale, dare voce a ciò che, più o meno consciamente, silenziamo e semplifichiamo.
Esiste la possibilità di far fronte unito pur riconoscendo divisioni e ingiustizie interne, tenendo a mente quanto abbiamo interiorizzato il sistema che vogliamo cambiare, con tutta la vergogna che comporta. Il “purché se ne parli”, l’ignorare l’errore ed escludere le contraddizioni per “arrivare” ai più depotenzia le pratiche queer, termine utilizzato come sinonimo di “omosessuale” (la parola in sé ci fa capire la portata del problema: “omosessuale” – “stesso sesso” – presuppone che esistano due sessi, non sfugge dalle dicotomie) ma che non ne condivide la forma e i contenuti. Il queer è una dinamica di incertezza che discute l’Identità con ogni strategia che possa desacralizzare e denaturalizzare la norma, è il rifiuto dei significati e dei paradigmi del capitalismo neoliberale e degli squilibri di potere a esso legati, è marginalità, ibridazione, autodistruzione creatrice e creazione apocalittica. Come scrive Edelman (2004): “Proporre l’insignificanza come possibilità […] è un modo per veicolare un particolare significato dell’insignificanza stessa”. Contraddizione euforica, il queer: lo potete vedere di spalle mentre dice di non voler partecipare alle feste – che ha organizzato – ma vuole avere il potere di decostruirle. Bene, quindi, proviamo a farlo sulla definizione di bio queen. “La bio queen è una drag queen” è una frase che, da un lato, traghetta l’audience “non specializzata” in un universo semantico più familiare, quello delle drag queen, delle sorelle Bandiera, di Platinette, dall’altro, cancella le specificità artistiche delle performer e le scaraventa in un monolite di rappresentazione.
“Siamo in un queendom”, mi dice il drag king (artista che performa la mascolinità) Valentin incontrato al Dragcon londinese, la convention di drag targato RuPaul più grande d’Europa. Come accennato, per la maggioranza, è nelle drag queen, ovvero negli AMAB che indossano il femminile, che si esaurisce la drag culture: per fare autoetnografia spicciola (fa ridere in un pezzo contro le semplificazioni), anche per me risulta più facile spiegare quale sia il mio lavoro di ricerca facendo riferimento alle drag queen e non al drag in generale. È vero che le regine hanno avuto storicamente un impatto trasformativo sulla elaborazione sociale delle espressioni di genere, hanno inaugurato discorsi sulla storicizzazione delle identità, sulla caduta dell’essenzialismo, hanno messo in scena e praticato le teorie di Butler e Halberstam, di Foucault e, sì, anche di Derrida. Ma, dato che A è e non è A, è vero anche che sono state il terreno di resistenza alla liberazione sessuale e alle stesse teorie citate: pensiamo al film Il vizietto e a quanto il lavoro da queen di uno dei protagonisti, Albin, validi la mascolinità del compagno e il loro sistema familiare che è un ribaltamento svalutato di quello eterosessuale.
Le forme binarie con cui tentiamo di ordinare il reale non toccano solo gli eterosessuali ma anche la comunità LGBTQIA+, le attiviste e gli ‘abitanti consapevoli della contraddizione’.
Non che l’essere sé e il suo contrario renda il linguaggio delle drag queen uno strumento di decostruzione meno efficace, ma bisogna fare attenzione a quando vengono sfruttati solo gli aspetti “conservatori” del fenomeno; sono quelli che sottendono una natura “vera” maschile sotto gli orpelli femminili. Le implicazioni misogine, la visione quindi della donna come genere mai standard e in scena per essere divorato dallo sguardo, sono dietro l’angolo. Non dimentichiamo che le forme binarie con cui tentiamo di ordinare il reale non toccano solo gli eterosessuali ma anche la comunità LGBTQIA+, le attiviste e gli “abitanti consapevoli della contraddizione”. E non è solo un male: tenerlo a mente ci affranca dalle narrazioni unicamente fantascientifiche di chi non rientra nella norma. Non stiamo parlando di creature mitologiche o alieni discesi sul nostro pianeta ed esterni alle strutture di potere.
L’adottare la drag queen come punto zero della drag culture è ricorrente anche nelle serate queer e nei concorsi drag. Se sotto i riflettori alle queen di solito si dà del femminile, ne conseguirebbe che ai king si parla con il lui. Ma ciò a cui si assiste più spesso è l’uso del femminile sovraesteso, piuttosto lontano dall’essere politico; al performer Savage Dickson, che parodizza la mascolinità, durante il concorso Miss Italy Queen viene consigliato di enfatizzare con il make up il proprio “lato femminile”, mentre gli si dà del lei. Come se inscenare la mascolinità non fosse adatto all’intrattenimento. È sacra? È noiosa? Secondo alcuni studi sulla mascolinità, da Gregory Bateson a Gilbert Herdt, uomini si diventa attraverso dei riti e l’accettazione sociale dello status. Pensiamo ai processi di iniziazione maschile della popolazione Sambia: il rito di passaggio dei bambini all’età adulta consiste nella purificazione dall’inquinamento femminile attraverso il sanguinamento e nella sostituzione del latte materno con lo sperma degli scapoli anziani, il cui seme viene ingerito in seguito a una masturbazione. Acquisito lo statuto di uomo, però, si diventa lo standard. I laboratori drag di esplorazione della mascolinità hanno registrato un sentire dell3 partecipant3 in risonanza con gli studi sociologici: ciò che si sperimenta indossando il maschile – il maschile borghese e bianco, teniamolo a mente – è l’anonimato, “il disperdersi tra la folla” (da un’intervista con l’artivista Senith, organizzatrice di tali laboratori).
Il pene delle bio queen non deve essere nascosto, perché non c’è. L’identità delle performer è indicata da ciò che non sono, non hanno (è lo stesso?), da un’assenza, uno spettro tra le gambe.
Si è fatto uomo: ha guadagnato la propria posizione privilegiata. Si è fatta donna: ha avuto le mestruazioni, le è cresciuto il seno, ha avuto il primo rapporto sessuale. Tuttora, a livello culturale – mai essenziale, certo – e in maniera complessa, forse ancor più che in passato, il femminile è legato alla luna, al corpo, a una natura che sempre sfugge e mai si comprende (ci verrà in mente la faccia di Freud o di Paglia). Le queen sono il corpo sconosciuto, spettacolarizzato, che non può nascondersi sotto l’artista king ma può forgiarsi attraverso l’abito delle queen, dato che la superficie è l’unica cosa che possiamo vedere; si addobba per mostrarsi tanto da divenire anche le sue decorazioni, la materia è il fondamento del femminile.
“Una bio queen non deve fare tucking”, eccoci ancora calate nel corporeo, organi che diventano la definizione, che rinsaldano un sistema identificativo. Il pene delle bio queen non deve essere nascosto, perché non c’è. L’identità delle performer è indicata da ciò che non sono, non hanno (è lo stesso?), da un’assenza, uno spettro tra le gambe. Da queste dinamiche di identificazione con il genitale non sono immuni alcune performer e la comunità drag. Osserviamo questa scena: nel documentario Regine viene chiesto a una bio queen intervistata cosa sia una bio queen, il suo discorso viene interrotto, è una voce maschile alle sue spalle a dare la definizione: “è un frocio con la fregna”. Tutti ridono.
È nel terreno drag che si ipervisibilizzano le contraddizioni di una cultura che eleva il fallo a modello; queste dinamiche risultano così visibili nella loro intricatezza da non essere percettibili. A Londra, una guida turistica, esperta della geografia degli omicidi della città, racconta la storia di un assassino che nasconde un cadavere in un barile davanti a un pub, sotto gli occhi dei passanti; il giorno dopo, il barile semplicemente scompare, niente più corpo, niente più accuse. Allo stesso modo, le zone d’ombra dei discorsi queer, il loro cuore pulsante in realtà, sono spettacolarizzate nel mondo drag tanto da essere illuminate e non poter essere più distinte. Questo microcosmo fortifica, dissolve e problematizza anche il potere del fallo e la misoginia interna alla comunità LGBTQIA+. Dalla parte del rinsaldamento delle gerarchie, leggiamo i commenti sessisti degli utenti di Facebook su Drusilla Foer, artista en travesti, che a Sanremo “può insegnare la vera eleganza alle donne” perché un uomo “lo fa meglio”. Nella dissoluzione, vediamo i dubbi che scorrono in ogni performance queer: può esserci una reale identità oltre la superficialità? Cosa vuol dire provare fascinazione e desiderio verso un3 performer drag? Qual è il confine tra illusione e genere?
Le zone d’ombra dei discorsi queer, il loro cuore pulsante in realtà, sono spettacolarizzate nel mondo drag tanto da essere illuminate e non poter essere più distinte.
Non c’è da temere l’imperfezione di – parlare di – una pratica queer, né stiamo cercando il villain della storia: il linguaggio crea e viene creato in una relazione in cui i ruoli continuano a essere scambiati. Ma l’orizzonte di abbandonare l’immaginazione verso nuovi modi di dire – e quindi di modellare – le cose appare mortuario. Se è vero che le varie performance drag hanno implicazioni, storie e nodi problematici diversi in base al corpo che le incarna, è vero anche che non esistono gerarchie, soprattutto non di stampo fallico, e standard a cui guardare. Non solo: in questo cosmo il confine tra artist3 e pubblico sbiadisce nella condivisione di codici e pantheon iconografici, ha senso quindi chiedersi cosa ricerca l’audience in un evento drag. E la risposta – sì, ci sarebbe da orbitare gli occhi per le ripetizioni – non è una soltanto.
Un segmento di pubblico cerca asilo nella favolosità, nel contrasto camp tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, nell’appropriazione ironica dello stereotipo che lega l’omosessualità alla femminilità. Un altro, meno appagato dalla rappresentazione televisiva del drag, ricerca l’espressione artistica queer di un’identità (si può chiamare così?) queer. O, ancora, c’è chi vuole vedere cosa succede nel non credere più al “dovrebbe essere”, in maniera radicale, può voler assistere e modellare un gioco che scandaglia così a fondo i generi sessuali da non lasciare più nulla di concettualizzabile.
In questi casi, ha senso la divisione tra drag queen e bio queen, regine e re? Vagine e peni? Non ci sarebbe uno spazio di libertà maggiore se parlassimo di “drag being” o “drag whatever”? Rifiutiamo quindi di essere “bio queen”, “donne che indossano e parodizzano il genere femminile pur non avendo il pene”, “quasi drag queen” e tutta la narrazione delle drag queen come “uomini che si vestono da donne”. Proviamo a ridere dell’automatismo di ricollegare i discorsi ai genitali e ai binarismi mentre guardiamo degli spettacoli che contestano l’idea stessa di apparenza come superficie e di identità come essenza. Come scrive Meredith Heller, tentiamo di queerizzare il drag, caliamoci nell’ossessione tra personale-sessuale e artistico, dove risiede?
Nella tensione tra vecchie strutture di pensiero e loro demolizione, il drag è queer sotto raggi X: discute la differenza tra esteriorità e interiorità, in un processo meccanico, quasi inconscio come la performance. Per questo non possiamo evitare di conquistare nuovi gradi di libertà per nominarlo, giocando magari sulla consapevolezza che non li raggiungeremo mai.