N el 2016, mentre la campagna PD del Fertility Day martellava le giovani coppie sull’importanza di riempire le culle vuote italiane e di creare una famiglia, mi trovavo a sperimentare la fine di una storia importante. L’ansia mi soffocava, mi sentivo sola. I miei amici, tutti in coppia, cercavano di rassicurarmi – se lavoravo su me stessa, avrei conosciuto la “persona giusta” – e mi incitavano ad avere pazienza. La premessa implicita era che l’amore, quello monogamico, eteronormato, insomma quello classico, era il fine ultimo a cui aspirare, la ricetta per essere felici. Mentre io mi ritrovavo unica amica single alle cene, le mie coetanee andavano a convivere, rimanevano incinte, raccontavano con un misto di sollievo per sé e di pena per me la fine delle storie da una notte e dell’incertezza sentimentale.
Qualche anno dopo, la pandemia avrebbe acuito il senso di inadeguatezza. La paura del contagio sembrava suggerire che una vita sessuale e affettiva fosse ormai appannaggio dei partner fissi, conviventi, possibilmente sposati. La necessità di promuovere l’amore romantico e monogamo era questione di ordine pubblico, un po’ come negli anni Ottanta, quando il terrore dell’HIV ostracizzò categorie sociali e sessuali già ai margini. Anche nel 2020 e nel 2021, la sessualità lecita, saldamente ancorata al concetto di “amore”, esclude in toto la promiscuità, il rischio, l’avventura o anche solo il caso. Sembra che un certo tipo di sicurezza sia più importante del desiderio; anzi, rovesciando i termini, forse è il desiderio stesso a necessitare di un riconoscimento sociale per essere legittimato. Non è tanto l’ipotesi della solitudine o della sofferenza amorosa a fungere da deterrente: il punto è il biasimo sociale. La società unanime decreta che le pulsioni rischiose non vanno assecondate.
Forse è per la grande egemonia dell’idea dell’amore normativo colonna portante della società che, oggi, chi si vuole distaccare dalla norma in fatto di amore e di sesso cerca di fornire qualcosa di altrettanto costruttivo, responsabile e socialmente utile. Nei gruppi di discussione sugli esperimenti relazionali – fra amici, in politica, sui social – ormai è abitudine dare un nome alle proprie scelte erotiche e sessuali, perché siano riconoscibili in maniera inequivocabile, e di trasformare le proprie azioni e pulsioni in movimenti sociali volti al Bene, perché siano accettate: il desiderio lecito è quello che non nuoce a nessuno. Non importa se con ciò eliminiamo il conflitto, l’immediatezza, le contraddizioni caratteristiche di quest’ambito: la narrazione dev’essere lineare e positiva. Anche il sesso occasionale segue riti di accoppiamento piuttosto precisi, volti a eliminare ogni possibile stortura. Bisogna chiarire prima le proprie intenzioni, dichiarare prima la propria volontà di costruire un rapporto. Nei collettivi femministi e nei gruppi di discussione sulle “non monogamie etiche”, la volontà di costruire altro che un rapporto eteronormato tradizionale viene classificato come una questione di militanza: decostruire la mascolinità tossica, distruggere il patriarcato, sconfiggere l’eteronorma. Ripartire politicamente, insomma, dall’altruismo e dalla bellezza dell’amore.
Oggi chi si vuole distaccare dalla norma in fatto di amore e di sesso cerca di fornire qualcosa di altrettanto costruttivo, responsabile e socialmente utile.
Il capitale amoroso, il saggio di Jennifer Guerra (Bompiani, 2021), ha questo approccio. Proporre, contro la norma, un amore costruittvo e responsabile, capace di cambiare il mondo:
Desideriamo l’amore, vorremmo esserne investiti, lo consideriamo un nostro diritto, ma spesso siamo incapaci di vederlo anche come un dovere. Incolpiamo gli altri se nessuno ci ama, senza mai chiederci cosa facciamo noi per non soccombere a un’idea unilaterale ed egoista dell’amore, dove a contare sono solo i nostri sentimenti e desideri.Abbiamo parlato di agape come forma più alta dell’amore, un amore resistente, militante, che è in grado di trasformare la società, ma la verità è che ogni giorno abbiamo a che fare con una dimensione più contenuta ma non per questo meno importante dell’amore: eros, l’amore coniugale ed erotico, e storge, l’amore per i nostri cari. È su di essi che abbiamo il potere di agire nell’immediato, è da essi che dobbiamo partire non solo per trasformare radicalmente le nostre vite ma anche per immaginarci un altro possibile, una società dove l’amore è qualcosa di fondamentale non solo a livello teorico o astratto, ma anche materiale, pratico.
L’amore può distruggere, far ammalare, mortificare e demolire: Anna Karenina sotto il treno, Emma Bovary e il veleno per topi, Quentin de L’urlo e il furore annegato per la vergogna dell’incesto e per la tristezza, che di certo non rende meno vera la passione. Oggi però di amore si parla solo in termini curativi. La stessa Guerra vuole un amore appunto materiale, pratico, che non sia “solo l’argomento di un film o di un romanzo”.
Oggi si pensa che l’amore, entrando nella vita di un individuo, risolva le cose: che semplifichi, rimuova traumi e rassicuri costantemente chi lo prova. Guerra propone di portare l’amore-soluzione alle sue conseguenze politiche:
Siccome “Amare (…) non è qualcosa che ci capita se siamo fortunati né un semplice incidente di percorso. È innanzitutto una scelta, ed è una scelta che si compie ogni giorno”, ne deriva, dalle parole di bell hooks riprese da Guerra, che “Può essere utile cominciare a considerare l’amore come un’azione piuttosto che come un sentimento. Ciò comporta, infatti, assumersene automaticamente la responsabilità”.
Sorge un dubbio: è possibile che questo proposito non nasconda in effetti un altro modo di conformarsi all’idea di utile di cui è intriso il nostro sistema culturale? Per ricostruire, diciamo così, l’amore e il desiderio e il nostro rapporto con il sesso, passare dall’amore-azione e dall’amore-responsabilità, rischia di riportarci a quel che siamo, putroppo: ovvero una società fondata sulla performatività.
Una società fondata sulla performatività non trae vantaggi dal lasciare che gli individui rincorrano sentimenti autentici, inutili e totalizzanti: le contraddizioni e la fatica che comporta provare emozioni complesse finirebbe per spostare i riflettori su dimensioni della vita che non hanno niente a che vedere con la produttività e che quasi sicuramente non servirebbero alla collettività.
In questo senso sembrerebbe che il modo molto normativo con cui si sta scrivendo oggi di amore e sesso militanti in contrapposizione all’eternonorma contribuisca a quella stessa atmosfera culturale di performatività. Lo sento anche nelle parole di Fromm citate da Guerra:
Dobbiamo concordare con Erich Fromm quando dice che l’amore è un’azione, “un sentimento attivo, non passivo; è una conquista, non una
resa: amore è soprattutto ‘dare’ e non ‘ricevere’”.
Quando si parla d’amore in modo costruttivo, io ci sento un invito a comprimere la capacità emotiva. Il desiderio può portare a una frammentazione improduttiva in molti casi. Questo ci fa paura. La società ci vuole produttivi. Sul tema, Guerra prende questa via: se amare “è impegnativo, stancante, faticoso” e “richiede moltissime energie, quelle che la società in cui viviamo non permette di veicolare altrimenti che nell’attività produttiva”, per Guerra si deve riscoprire “l’attività amorosa” come “attività produttiva”. Con Fromm, dice che “l’amore è una forza che produce amore”. Fromm citava Marx, che scrisse “se il vostro amore non produce amore, se attraverso l’espressione di vita di persona amante voi non diventate una persona amata, allora il vostro amore è impotente, è sfortunato”. Guerra si chiede se Marx si sia reso conto di star “ripetendo la regola d’oro del Levitico: ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso.’ Ovviamente il filosofo non si sta semplicemente riferendo a un amore non corrisposto, ma sottolinea la dimensione generatrice dell’amore”.
Oggi, un invito a riscoprire la dimensione generatrice dell’amore mentre le identità più varie cercano di disincagliarsi dalle imposizioni della norma amorosa non rischia di riportarci completamente in quella stessa palude religiosa che aliena i nostri desideri per dedicarli a un progetto sociale?
Oggi il sentimento amoroso, per essere socialmente accettabile, deve essere semplice da ottenere (date e fidanzamento) e piacevole da esperire (solido), in modo da poter essere accantonato davanti a preoccupazioni inderogabili e sempre più diffuse, come quelle economiche. L’ambiguità sentimentale, poi, è pericolosa, anzi tossica, per usare la sempre più trita terminologia di derivazione statunitense: per sfuggire alla tossicità, la libertà sessuale può essere esercitata solo in contesti ultra-normativizzati e oggetto di discussione pubblica, come le “non monogamie etiche” o il poliamore, le cui dinamiche vengono costantemente monitorate dalle proprie comunità di riferimento, scoraggiando l’esperienza personale e la libertà morale del singolo allo stesso modo delle pastorali religiose sul matrimonio. Addomesticare le proprie pulsioni personali rendendole compatibili agli standard della propria bolla, oggi, è particolarmente importante per evitare l’isolamento sociale.
Anche apparire scettici non è buona idea. Nel Capitale amoroso Jennifer Guerra se la prende con il cinismo rispetto al sentimento amoroso: sarebbe una forma parossistica di delusione sociale. Non innamorarsi e non abbandonarsi al benessere dell’amore attivo e produttivo equivale a farsi da parte rifiutandosi di collaborare al bene collettivo. Secondo Guerra “è ingenuo pensare che esista ancora un nucleo privato e inviolabile delle nostre vite e lo è ancora di più credere che le nostre scelte d’amore siano scisse da quello che succede fuori da quel nucleo”. Nella visione di Guerra, l’esperienza amorosa, ormai soggetta a una modalità di controllo sociale che si presenta come un coacervo di relazioni dal basso, è parte di una maniera quasi assembleare di vivere la dimensione intima, che non ha più niente di privato, de-regolamentato, personale.
Guerra pensa che “l’amore sia in grado di cambiare non solo la vita di ciascuno di noi, ma anche la società nel suo insieme”. Con l’aria di dire una cosa lapalissiana, Guerra suggerisce la fine della personalizzazione e dell’intimità del sentimento amoroso. Ci vedo due problemi: raccontare la sfera sentimentale di ognuno come una faccenda che riguarda tutti conduce alla stigmatizzazione della solitudine e di chi non contribuisce alla socialità; secondo effetto, persino più insidioso, tocca chi trasgredisce le norme e si chiama fuori dal meccanismo e dal giudizio collettivo, ad esempio lasciando la propria compagna per una donna più giovane e più attraente, o decidendo che una “scappatella extraconiugale” è più appagante di una “non monogamia etica”. In un’ottica in cui tutto riguarda tutti, le vicissitudini sentimentali di un singolo non sono più questioni personali o, al limite, errori, ma fallimenti sistemici e come tali vanno sanzionati.
Raccontare la sfera sentimentale di ognuno come una faccenda che riguarda tutti conduce alla stigmatizzazione della solitudine e di chi non contribuisce alla socialità.
Se è vero, come scrive Guerra, che “come un’ideologia, l’amore ci costringe di continuo a mettere in discussione le nostre vite, a sostenere dei valori, a coltivare il cambiamento”, l’accostamento di etica e vita privata lascia in bocca quell’antico sapore moralizzante. Come hanno evidenziato secoli di soprusi nei confronti di minoranze, soggettività “secondarie”, secondi, terzi e quarti sessi, la morale viene spesso chiamata in causa per l’assoggettamento a logiche che con il desiderio hanno poco a che vedere e che portano a rincorrere una società che impone dei canoni, impedisce di raggiungerli ed esclude e colpevolizza per non esserci riusciti.
La pretesa utilità del sentimento amoroso è immediatamente rintracciabile nella narrazione del suo legame con la sessualità, in particolare con quella femminile. La campagna del Fertility Day, che promuoveva il concepimento come un necessario atto d’amore, evidenziava come l’associazione sesso/amore fosse un leitmotiv immediato e logico per la normativizzazione, riverberata nei consumi culturali di massa, di una questione individuale.
Secondo la logica che rende inscindibili sesso e amore, le donne vogliono solo avere rapporti sentimentali, non desiderano il sesso fine a sé stesso o altre dinamiche relazionali più leggere o perfino indefinibili e, soprattutto, lo accettano solo in un certo modo: eterosessuale, monogamico, strettamente vanilla, che è l’aggettivo usato nell’inglese internazionale per le pratiche sessuali classiche, da fidanzatini. Se le donne finiscono per indulgere a piaceri carnali non convenzionali si tratta di un percorso verso l’amore, come dimostra, ad esempio, la fortunata parabola letteraria e cinematografica di Cinquanta sfumature di grigio, storia d’amore di stampo canonico intervallata da descrizioni dettagliate di blande pratiche sadomasochistiche fra Christian, un giovane uomo molto esperto, e Anastasia, una giovane donna ancora vergine.
Nel romanzo, l’accento posto sul dolore fisico svia l’attenzione dalle dinamiche di potere intrinseche alla finzione sessuale sadomasochistica, che in Cinquanta sfumature si sovrappongono a quelle che concernono i ruoli di genere, stroncando qualsiasi potenziale sessuale liberatorio. La rappresentazione classica, che vede la donna vittima e l’uomo carnefice, è la cornice relazionale della storia fra Christian e Anastasia e si rispecchia nei ruoli sessuali convenzionali invece che nascere come frutto di una fantasia erotica condivisa e negoziata. Il grado di “osceno” è dettato dalle fasi della relazione amorosa fra i protagonisti: gli atti sessuali ingranano di pari passo con le emozioni dell’eroina, che, nel corso del primo romanzo, passa dal baciare uno sconosciuto in ascensore al permettere a quello che ormai è il suo fidanzato ufficiale di segnarle le natiche con una cintura di cuoio (senza peraltro un vero e proprio consenso consapevole, elemento fondamentale della cultura e della sessualità BDSM.)
La celeberrima opera di E.L. James scandisce così il legame fra oscenità e ordine pubblico in termini di agency delle figure tradizionali di genere. Alla donna spetta naturalmente il ruolo sessuale della sottomessa, senza però la responsabilità di alcun desiderio sconvolgente di sottomissione. Anastasia non vuole essere frustata, lo sopporta volentieri per amore, in risposta alle pressioni erotiche della controparte maschile. Il desiderio, raccontato in maniera apologetica, è solo la conseguenza dei sentimenti amorosi e dal rapporto di monogamia preteso dalla ragazza che, giunta vergine alla laurea, si lega per la vita al primo uomo che le presta attenzione.
Senza la spontaneità, cosa distingue l’amore dall’ennesima soluzione progressiva che si basa sulla responsabilità individuale, sulla possibilità di avvicinare le persone al Bene ammaestrandole, educandole?
Questa rappresentazione, fondata su equilibri di genere tradizionale, riconduce al dibattito avviato nel 1984 dall’antropologa e sociologa Gayle Rubin, che inizia a catalogare le gerarchie della sessualità definendo le pratiche e i gusti sessuali in base al loro livello di accettabilità sociale. Secondo Rubin, la sessualità socialmente accettabile è caratterizzata dalla monogamia e dalle istanze riproduttive. Il sesso che si trova all’interno del Cerchio Incantato di Rubin è eterosessuale, non contempla l’utilizzo di pornografia, l’esistenza di feticci e di pratiche complesse, l’assunzione di ruoli esplicitamente finzionali o sovversivi in termini di dinamiche di genere. Soprattutto, secondo l’antropologa, per mantenere l’ordine sociale sessuale è necessario che il sesso abbia luogo fra persone innamorate l’una dell’altra della stessa generazione, come accade ai protagonisti di Cinquanta sfumature, perché all’interno di una generazione si dà una percezione condivisa degli indicatori sociali e così si stabiliscono confini precisi su come deve svolgersi un rapporto, con limiti che non hanno niente a che vedere con l’etica, dal momento che una morale sessuale davvero per tutti dovrebbe giudicare gli atti sessuali dalla presenza o dall’assenza di coercizione e dalla quantità e dalla qualità del piacere fornito e ricevuto, a prescindere dall’orientamento degli atti sessuali, dal loro svolgimento in coppia o in gruppo, dalla natura commerciale o gratuita e, naturalmente, dal livello di rispetto e di considerazione tra i partner.
Come Cinquanta sfumature, anche Il capitale amoroso sottolinea quale debba essere la natura del desiderio lecito: improntato alla reciprocità, al rispetto e alla linearità. “l’amore non è qualcosa di irrazionale e incontrollabile, bensì è un’azione che si compie volontariamente, nonché la nostra essenza”. Come l’amore non è un sentimento, ma soprattutto un agire performativo, il desiderio deve essere improntato verso effetti benefici per la collettività. Non si tratta piuttosto della fine di tutto ciò che di contraddittorio ha il desiderio, di un falso ordine ottenuto rifilando una patina progressista a questioni complesse? Senza la spontaneità, cosa distingue l’amore dall’ennesima soluzione progressiva che si basa sulla responsabilità individuale, sulla possibilità di avvicinare le persone al Bene ammaestrandole, educandole, trattandole come in uno sterminato campo scout che non finisce mai? Si tratta di socializzare con una pretesa pedagogica, di democratizzare e regolarizzare qualcosa che invece nell’esperienza reale delle persone è aleatorio, ingiusto, ineguale e incontrollabile.
Nel suo articolo apparso su The Vision, punto di innesto del Capitale amoroso, Jennifer Guerra sottolinea l’importanza dell’amare in modo radicale e cita un noto tweet di Alexandria Ocasio-Cortez: “L’amore è rivoluzionario perché ci fa trattare tutti gli altri come tratteremmo noi stessi, non perché siamo caritatevoli ma perché siamo una cosa sola”. Questa asserzione contiene una fallacia argomentativa, perché presuppone, innanzitutto, che ognuno di noi sia in grado di volere bene a se stesso. Presuppone individui buoni, pacifici e gentili. Presuppone, soprattutto, un sé sano, funzionante e performante.
I desideri del cuore sono contorti come cavatappi, scriveva Auden. Alcune volte non si desidera l’amore, nemmeno come esperienza collettiva e liberatoria.