“M io padre era un ufficiale della Wehrmacht. Non un semplice generale, era nei ranghi più alti. Il che significa che aveva una certa competenza nel dare ordini. Non so altro”. È Klaus Johannes Wolf a parlare. Sessant’anni, calvo, occhi azzurri cristallini e espressione vivace e disarmante. Voce garbata ma diretta, quasi sbrigativa, quella di una persona che sta solo dicendo le cose come stanno, intervallata da pause in cui alza le spalle, sorride alla camera, si perde nei ricordi corrugando la fronte. “Da mia madre so come ha vissuto quell’epoca. Era un’insegnante, era stata addestrata per aderire a quell’ideologia, senza domande. E come insegnante la doveva trasmettere ai bambini. Solo molto più tardi comprese cosa stava accadendo a quei tempi, quando visitò Israele.”
Wolf è inquadrato frontalmente, dietro a una scrivania, il corpo glabro, esile e rachitico completamente nudo. Solo una gabbia di ferro a contenergli il pene e grosse fibbie in cuoio pesante con lucchetto e anelli di ferro al collo, polsi e caviglie, con i quali per buona parte del documentario che Jan Soldat gli ha dedicato, Der Unfertige (L’incompleto), sta legato al proprio letto mentre racconta la sua vita e quella della sua famiglia. Sua madre, ultrasessantenne, conobbe una donna ebrea mentre si trovava a Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme. La donna, riporta Wolf, nata proprio come sua madre nel ‘26, le dice di essere cresciuta a Praga, e le racconta di un tema inneggiante a Hitler che scrisse a scuola in occasione del suo arrivo in Cecoslovacchia, aggiungendo: “Sa una cosa? Non eravamo che bambini allora. Bambini o ragazzini. Non potevamo pensare a queste cose e non lo facevamo. Eravamo stati cresciuti così. Noi non potevamo farci niente.” Wolf fa una breve pausa, e conclude: “Non disse ‘voi’, disse ‘noi’, la donna ebrea, includendo se stessa. E quello è stato il momento in cui mia madre ha capito.”
Potrebbe essere un racconto esemplare e commovente della storia tedesca, e sarebbe già materiale straordinario, ma c’è di più. C’è il fatto che il suo narratore – questo omino di grande saggezza, acume e sensibilità, che la condizione fisica e la nudità fanno sembrare infinitamente più vecchio – è “uno schiavo”, come dichiara orgogliosamente nel prologo al film, in cui lo vedremo spolverare (sempre nudo) la casa di uno dei suoi master, praticare a quest’ultimo (in divisa e stivali di pelle) del sesso orale, partecipare a un campo di addestramento per schiavi dove alla routine praticamente militare si alternano punizioni fisiche fortemente desiderate dai partecipanti.
Emerge già qui la volontà di “mettere a nudo” (letteralmente) l’umano tipica della ricerca di Jan Soldat, che però non ha nulla della rigidità del film di “denuncia” o della ricerca del sensazionalistico o dello shock dello spettatore. Non c’è la programmatica volontà di sfidare il contegno o la retorica borghese – non c’è neanche la banale (per quanto lodevole) missione di voler dare voce e dignità a soggetti marginalizzati in virtù delle loro pratiche estreme. Nascendo da un’autentica, profonda ed evidente curiosità di Soldat (quella da cui parte e muove qualsiasi vera ricerca), quello che alla fine si trova nei suoi film è un’autentica sorpresa, un regalo della realtà.
Presentato nel 2013 al Festival di Roma (dove ha vinto il premio per il miglior documentario), Der Unfertige è oggi visibile on demand su Vimeo insieme a una selezione di altri dieci film, che rappresentano solo una minima parte della produzione completa del regista nato a Chemnitz nel 1984, quando ancora si chiamava Karl-Marx-Stadt, attivo come filmmaker dal 2006, prima ancora di iniziare, nel 2008, l’università di cinema a Babelsberg (Potsdam). Partito da film di finzione amatoriali grotteschi e evidentemente affascinati dai fluidi corporei (come in Sandweg 80 che si può trovare su Vimeo) ben presto inizia a concentrarsi sui temi della nudità e della sessualità passando al documentario. In questo senso Der Unfertige sembra un manifesto di tutta la sua opera, forse il più digeribile tra i suoi film ma anche la summa del suo lavoro in virtù anche della sua conclusione, in cui Klaus dichiara: “Non cerco l’amore negli uomini, mi interessa essere compreso. La comprensione, il dire ‘ah, lui è così, per questa e quell’altra ragione’”. Questa volontà di capire i suoi personaggi è una costante evidente del metodo registico di Soldat, che, pur riconoscibile nella sua messa in scena che alterna riprese “fredde” per distanza della camera, e fissità dell’inquadratura nel filmare la loro (straordinaria) quotidianità, a interviste dirette, tende ad adattarsi molto al materiale che decide di indagare.
Il suo ultimo film, Protokolle (2017), ad esempio, si basa su quattro disturbanti testimonianze di uomini che fantasticano (o addirittura progettano) di essere uccisi e mangiati. Per farci ascoltare questi racconti autentici, Soldat sceglie di farli recitare da altrettanti attori, ripresi tuttavia al buio, controluce, come si farebbe per proteggere l’anonimato di testimoni reali. Emergono qui due discorsi fondamentali del lavoro di Soldat. Da un lato la tutela assoluta e il rispetto dei suoi soggetti (per anni i film hanno potuto circolare solo nel circuito del festival, anche a fronte di varie proposte di farne DVD, pur di non esporre i suoi personaggi violandone la fiducia), dall’altro l’evidenza che il lavoro di Soldat, che pure sta compilando una sorta di “atlante delle perversioni sessuali”, non sia in nessun modo liquidabile sotto la voce “freak show”. Soldat punta a cogliere un universale, l’essenza della sessualità e conseguentemente dell’umano, e non semplicemente unsingolo individuo facendone un’eziologia come potrebbe sembrare (comunque erroneamente) in Der Unfertige.
Soldat mostra una categoria di individui che ha rinunciato senza troppi rimpianti a qualsiasi idea di “rispettabilità”, che non ha insomma niente da perdere.
Ne è una prova il suo meticoloso lavoro sul mondo del BDSM (che si vede anche in Die Sechste Jahreszeit, Hotel Straussberg o Haftanlage 4614), che nasce dall’esigenza, come ha più volte spiegato, di indagare le dinamiche del potere e della dominazione che hanno luogo in qualsiasi relazione e in qualsiasi coppia, e che in giochi di ruolo come questi semplicemente vengono alla luce in modo esplicito. Lo si vede anche in Happy Happy Baby, in cui Soldat si sposta sulla scena degli AB/DL (Adult Baby/Diaper Lovers) e in cui in particolare si concentra su una coppia composta da un uomo maturo che nella routine (non solo erotica) di coppia si identifica con un bebè da curare, nutrire e cambiare, e un ragazzo molto più giovane con un lieve ritardo mentale che gli fa da “caregiver”. La natura dispotica dell’infanzia emerge in modo inquietante, e lo squilibrio di potere legato all’età e all’abilità è allo stesso tempo ribaltato (l’uomo davvero adulto si comporta da bambino e viceversa) e confermato (il bambino è davvero sottomesso alla responsabilità decisionale del genitore o è piuttosto lui a dirigere la situazione?). Si tratta di una dialettica che vediamo qui emergere in un contesto estremo, ma che non per questo sembrerà ignota o azzardata a chiunque abbia un figlio.
Il suo rappresentare quasi sempre uomini omosessuali anziani, spiega, dipende semplicemente da una contingenza: si tratta di una categoria di individui che ha rinunciato senza troppi rimpianti a qualsiasi idea di “rispettabilità”, che non ha insomma niente da perdere, e che anzi ha imparato a gloriarsi e godere di quella che la società gli imputa come abiezione. Lontanissimo in realtà dal cinismo moralista di uno dei suoi dichiarati maestri come Ulrich Seidl e affine piuttosto nella sua poetica all’Harmony Korine più anarchico (si pensi a Trash Humpers) proprio per il rispecchiamento affascinato e la sensibilità punk che contraddistingueva soprattutto i suoi primi lavori, Soldat sostiene di “amare tutti i suoi personaggi”, anche se dediti a pratiche che non lo interessano nel suo privato. Questo amore deriva anche e soprattutto dalla gratitudine che prova come regista per l’intimità che gli consentono, per l’apertura con cui gli permettono di avvicinarsi a loro – un’intimità che viene negoziata proprio da questi: sono loro a indicare cosa può essere filmato e cosa no. Il disagio eventuale provato da lui (disposto piuttosto ad abbandonare la camera pur di non spegnerla) non deve interferire con l’autorappresentazione dei personaggi, come non deve farlo la ricerca di una messa in scena precisa e studiata a tavolino. È questo il limite etico che Soldat si pone.
In una scena di Ein Wochenende in Deutschland vediamo una coppia omosessuale anziana (già ripresa in Zucht und Ordnung) che si prepara a una session di BDSM con un ancora più ageé vicino di casa. Uno dei due deve indossare una tuta integrale in lattice, con tanto di maschera con cerniera centrale. L’altro gli ricorda “Devi metterci sempre il talco, altrimenti ti si appiccica”. Lui risponde scocciato “Lo so, lo so!”, al che quello gli fa il verso cantilenando: “Lo so, lo so!”. Ecco cosa rimane una volta che la distanza etica di cui sopra permette di avvicinarsi. Cosa troviamo insomma, andando a osservare da vicino l’estremo? Gli aspetti più universali dell’umano, quelli più triviali, banali, ovvi: la vulnerabilità, i rimbrotti bonari che fanno parte della vita di coppia, i gesti impercettibili di affetto, la noia, le attenzioni reciproche. In qualche modo il lavoro di Soldat è il contrario del perturbante. Se l’Unheimlich è, nelle parole di Freud, “quella sorta di spaventoso che risale a ciò che ci è familiare”, cioè, nella vulgata, la scoperta di qualcosa di temibile e disturbante nel consueto, in questo caso, proprio nei luoghi più “lontani da casa” (heim), più inconsueti e “spaventosi” come il sesso estremo (ma anche la marginalità sociale, fino allo stesso corpo anziano nudo o sofferente – grandi assenti della vita pubblica e dei nostri schermi –), troviamo il familiare, ci scopriamo vicini, simili.
E scoprirsi simili non è necessariamente una sensazione rassicurante, come in realtà lo stesso concetto di Unheimlich nell’accezione freudiana lascia intendere. Il film più disturbante dell’intera produzione di Soldat resta forse Geliebt, presentato alla Berlinale nel 2010 (purtroppo non disponibile on line sempre per questioni di tutela dei protagonisti), in cui riprende una coppia di coinquilini zoofili venticinquenni. Ognuno dei due ha una relazione con il proprio cane, e, tra un’intervista e una partita e l’altra alla Play Station dei due, assistiamo a una scena erotica tra uno dei due ragazzi e il suo pastore tedesco femmina. Quello che sembra un individuo profondamente sociopatico, forse autistico, appare per la prima volta davvero umano in una scena tanto più respingente quanto più passionale e coinvolgente. Quando lo girò, sostiene il regista, non era andato ovviamente con l’intento di giudicarli ma anzi, aveva scoperto di avere molte cose in comune con loro: “è un po’ patetico, ma anche loro, come tutti, vogliono sentirsi al sicuro, avere accanto qualcuno che li ami per sempre”. Nella “nuda vita” che filma Soldat, e che poi è anche la nostra, ci sono affetto e attenzioni, saggezza e umanità, conflitti e giochi di potere, ma anche tanta solitudine.