L a civiltà nuragica fu orale e orante, camminiamo parlando tra lecci e lentischi. Nell’ambito del progetto di workshop di formazione per giovani artisti e curatori Q-rated, la Quadriennale di Roma, in partnership con Sardegna Film Commission, ha portato tredici artisti italiani coinvolti dalla pittura, due curatrici, e i mentori Marcello Fois, Enrico David e Bart van der Heide sul Monte Tiscali. Esponenti della pittura italiana si sono trovati a convegno, questo testo è un ritratto di gruppo d’artisti, e un tentativo di tracciarne gli atti.
A semicerchio sulla terra del pastore, si ascolta Marcello Fois, a casa nel Supramonte, narrare le arti della dedizione e della determinazione, pittorica e letteraria. Lo scrittore domanda a chi s’intende parlare, se all’oggi che già è ieri o alla storia, con il suo carico di speranza ed eterno. Fois interpella Andrea Barzaghi (1988), che dopo anni di formazione a Norimberga e Lipsia, ha riportato i pennelli a Milano. Nei quadri di Barzaghi si avvicendano le geometrie dell’hortus conclusus, in una scarnificazione del telaio su cui talvolta appone silhouette dipinte. La sua pittura destrutturata sembra interrogarsi sulla gabbia, l’estasi, su una concitata imbecillità edenica. Fois spazia da Mayakovsky al Douanier Rousseau, arrestandosi per ascoltare le domande di Corinna Gosmaro (1987), che nelle sue opere apostrofa i nodi, gli idoli, gli amuleti, il bagaglio umano e animale; per l’artista il paesaggio corrisponde a una sfocatura rigata dall’ombra delle ciglia che lo filtrano.
Escursione in jeep. Si racconta l’etimologia incerta di “Lanaitto”, il suono che dà il nome alla valle. Spinosi e impavidi come gli arbusti, i garbugli etimologici dominano il territorio, incerti da millenni se dovere le proprie sillabe alla lingua della Dea o agli invasori. GianMarco Porru (1989) è l’unico nel gruppo a esprimersi principalmente tramite la performance; è anche il solo nato in Sardegna, e conserva nella propria opera un distinguibile afflato magico. Paint-ing è verbo, la pittura performance, la composizione coreografia. Le qualità del segno sono quelle del gesto; anche il pittore coordina una ieratica schiera di danzatori, come mostra Porru in un progetto performativo ospitato dalla Cappela Portinari del Museo di Sant’Eustorgio. Le jeep lasciano la comitiva sulla mulattiera che porta in cima al Corrasi. Un compagno d’avventura si è rotto gli scarponi tra le rocce; la guida li ha riparati con del nastro adesivo argentato heavy-duty, lo stesso utilizzato nelle proprie opere da Alessandro Carano (1984) che, tramite materiali d’uso domestico, rintracciabili in panificio come dal ferramenta, dona alla pittura supporti e superfici affettivi e affettuosi conferendole formalismi vissuti.
Le giornate trascorrono nel dialogo sulla pittura. Una domanda, formulata dalla curatrice Carolina Gestri (1989), rincorre le altre: il pittore pensa al pubblico cui intende destinare, offrire, trasmettere la propria opera? Gli spettatori sono presenti nel pensiero dell’artista? L’opera è una lettera aperta o un appunto privato? Le risposte dei partecipanti divergono in superficie e si riconciliano in profondità; c’è chi produce nell’isolamento delegando all’opera un futuro sociale, emotivo e politico lontano e svincolato dal proprio autore; e c’è chi, in una forma di militanza solo più esplicita della prima, esce dal proprio studio per picchiettare il dito sulle spalle delle persone: scrivendo, ad esempio. La contrapposizione tra mondo dell’arte (interno alle dinamiche della creazione contemporanea) e pubblico esterno, emerge più volte nel corso della conversazione.
Ogni artista è stato pubblico dei propri maestri, spesso lontani nella linea del tempo; forse la risposta alla domanda di Gestri è da rintracciare nel robusto filo della paternità che attraversa la storia dell’arte e che nelle giornate di workshop è percepibile nella figura di Enrico David. In consesso tra simili, l’artista rischia di trovarsi a parlare di politiche e posizionamenti per tre ore, e di ricerca filosofica, emotiva o tecnica nel quarto d’ora finale. David ha evitato che questo accadesse durante il workshop, introducendo nelle ore di conversazione tematiche portanti, spesso trascurate da un mondo dell’arte che preferisce la sociologia alla metafisica, e i postcolonial studies alla morale. Si è parlato di storia, libertà, tempo.
Interpellato da David, il pittore Francis Offman (1987) nato a Butare, Rwanda, ricorda a noi astanti che possiamo definirci esperti di un solo canone, europeo, forse con l’estensione nordamericana. Parlando della mancata formazione di un canone storico-artistico africano, Offman esclama: “Essere senza storia è come disegnare nel buio”. In un’epoca dominata da una revisione dei canoni spesso arrabbiata, Offman attiva tra gli artisti la gratitudine verso chi ha dato un ordine alla storia.
Prende parola la curatrice Valentina Lacinio (1989), introducendo, spalleggiata dalla sottoscritta (1990), la problematica dei riferimenti. Ogni pittore, specie se figurativo, coltiva le proprie suggestioni visive o iconografiche di riferimento; ma fino a dove può spingersi la pittura figurativa? Il mondo è da intendersi come sorgente aperta d’immagini o piuttosto come vaso di Pandora di un’iconodulia invadente e illogica? Esiste una responsabilità nella pittura che fa uso di apparati narrativi? Lacinio ed io introduciamo la (per noi antipatica) figura di un “pittore-spugna” che si appropria delle immagini e delle cose del mondo riversandole sulla tela indebitamente, lasciando che ogni immagine crei correlazioni (e dunque interpretazioni) con le altre. Come può, questo tipo di pittura, tutelarsi dal produrre un inquinamento visivo demagogico e privo d’urgenza? Molta pittura figurativa attuale, attingendo da un immaginario Pop privo della carica concettuale del Pop delle origini (riproducibilità dell’immagine, errore tecnico, precoce svelamento della società dei consumi etc), aggiunge al mondo un network tra immagini puramente pretestuoso.
Gaia Di Lorenzo (1989), artista e fondatrice di CASTRO, spazio di creazione e produzione d’arte dotato di un programma di crit d’artista di stampo anglosassone, oppone un’antitesi. La sua pratica si struttura intorno all’influenza proveniente dall’altro e a una forte impronta collaborativa, per cui gli spunti iconografici irraggiati dalle opere degli artisti che la circondano possono entrare a far parte del suo lavoro in una conduzione termica cercata. Secondo Di Lorenzo, il “pittore-spugna” introduce immagini e dati offerti dal mondo per restituirli filtrati dal sé, dal proprio apparato psichico, cognitivo ed emotivo. Di Lorenzo sottolinea che i dati filtrati sono già selezionati dalla società e dagli interessi culturali che appartengono alla vita dell’autore; sembra proporre l’idea di un filtro congenito all’artista.
A seguito di questo dibattito tra tesi e antitesi, s’introduce la problematica dell’Io autoriale. C’è da fidarsi del Signor Io? Del mio non mi fido per niente, tra un momento di estasi e uno spiraglio di intelligenza, diviene stronzo, bizzoso e capace di produrre scarti. Mi fiderei del mio Io solo se fossi santa, ma un santo che si fida del proprio Io smette di esserlo, santo. Dipingo per distruggere, per tradirmi formalmente attingendo da una grammatica pittorica contraddittoria e incoerente (fuga senza fine da ogni ideologia del visivo); non intendo creare narrazioni, ma impossibilità narrative.
La problematica dell’Io entra poi in relazione con quella del “gusto” (ancora c’è chi sostiene che il “gusto” sia un criterio valido alla critica artistica) e della fruizione dell’arte. Ogni essere umano ha un Io che può produrre arte peculiare, il disegno compiuto da A sarà diverso dal disegno compiuto da B ed entrambi diranno formalmente qualcosa a proposito dell’anima e della storia di A e B. Ma se ogni Io ha validità espressiva è necessario aprirsi a tutti gli Io, a tutte le anime estetiche che s’incontrano? Significherebbe imbastire un’opinione critica su ogni singolo quadro intercettato quotidianamente al museo o per strada o nei bar; alla fine, l’inconscio visivo dell’artista andrebbe in overdose estetica. Tutto può essere filtrato da chi decide di aprirsi a tutto, ma quali strumenti umani deve utilizzare il pittore per proteggere il proprio inconscio visivo dalle estetiche (spesso perniciose) proposte dal mondo?
Enrico David chiude il cerchio riportandoci all’unico fattore cui l’artista può rifarsi per sperare di potere accedere a una degna autenticità del proprio Io: la vita intesa come ricerca, carnale, spirituale, trascendentale, poetica.
Il MAN è un museo situato nel centro storico di Nuoro. La palazzina anni Venti che ospita la sede del museo è attualmente percorsa da un’esposizione di Guido Guidi, “Guido Guidi In Sardegna: 1974, 2011”, a cura di Irina Zucca Alessandrelli. Tra i pregi della mostra, quello di presentare la netta cesura tra gli anni giovanili di ragazzo affascinato dai maestri americani della Grande Depressione, e quelli recenti, di uomo guidato da una complessa filosofia matematica e ottica. La Sardegna dal taglio impreciso, libero, sfocato, ammirata dal motorino in piena corsa del Secondo Novecento, lascia il posto alla terra ferma, misurata e riarsa degli anni Duemila. L’isola dei campi diventa l’isola dei balconi, e il paesaggio dalla linea lontanissima si trasla sull’orizzonte umano. Luigi Fassi, direttore del MAN, racconta il proprio programma, in cui il museo si pone come avamposto del Mediterraneo, entrando in una giusta e coraggiosa contraddizione con la decrescita demografica del territorio. Il MAN di Fassi, il cui programma avrà un occhio particolarmente attento alla pittura, sarà un museo del Mediteranneo; negandosi al facile raggiungimento, offrirà uno scacco matto alla globalizzazione dell’offerta museale per divenire una roccaforte del pensiero che tiene conto della storia e del particolare.
Tra le stanze del MAN cammina Viola Leddi (1993). Leddi allontana il plasticismo degli anni Trenta e l’Art Déco milanese dai propri cul-de-sac di insuperabile perfezione formale; lo fa rivoluzionando le forme d’inizio secolo tramite ciò che definisce “girlishness”, una femminilizzazione piena di pudore e armonia compositiva capace di de-ideologizzare il corpo monumentale. Leddi è anche una danzatrice, dinanzi al comizio pittorico capitanato da David, introduce il tema del rapporto tra pittura e corpo. Prende la parola Marta Ravasi (1987), tracciando una relazione tra il raggiungimento della maturità pittorica e il raggiungimento del piacere sessuale da parte della donna, e poi tra pittura e maternità. Che Ravasi introduca un così stretto rapporto tra pittura e sessualità fa parte del suo processo, costituito da lunghi e ripetuti atti di imposizione e rimozione della materia. Ravasi è la più corporea tra tutti noi, cancella, sfoca, confonde il colore nell’assenza di contrasto tonale finché la forma concepisce e scopre se stessa, facendo capolino sullo sfondo informe.
Mentre sediamo a un caffè dinanzi alla sede dell’ISRE che ci ospita, la radio intona a volume altissimo un soul di Mario Biondi: “Na na naa, na na iiaa”. Daniele Milvio (1988) strabuzza gli occhi; preoccupato che il motivetto gli rimanga in testa, estrae dalla tasca un taccuino ed esorcizza la melodia trascrivendola cinquanta volte, finché questa non diventa un insieme di lettere estraniato dal suono. Similmente procede la sua furia d’artista accumulatore di opere su carta; colme di raffinata ironia, le opere di Milvio giocano con l’attuale, spesso ritraendo personaggi degni di uno studio frenologico, anatomie craniali che avrebbero fatto la gioia di Lombroso.
Alcuni minuti di conversazione nel salone dell’ISRE trascorrono tracciando la distinzione tra “artista” e “pittore”; chi tra i partecipanti si definisce “artista” spesso fa anche uso di altre discipline e concepisce la pittura come realizzazione di un progetto che trova altrove le proprie fondamenta. Il fatto che questa distinzione abbia avuto modo di porsi, è una specificità della pittura italiana; in un comizio di pittori inglesi ad esempio, dove anche gli scultori si definiscono painters, sarebbe occorso più raramente. In UK non è insolito che un pittore arrivi a definirsi “painter’s painter” e che, al museo, di fronte a un quadro, ne focalizzi una porzione ampia un centimetro quadrato e su quella si concentri, estraniandosi dalla circostante area del dipinto, ritenuta mero teatro. Altrove, la fruizione della pittura è molto più astratta. I pittori italiani coltivano invece una visione più umanistica dell’intera faccenda, lungi dal rivolgersi alla pura autoanalisi, nel nostro paese la pittura osserva il mondo, curiosa e sorridente. Tra i due approcci, il turbo-astratto (dove astrazione non è il contrario di figurazione, bensì una metodologia di concezione e lettura dell’opera) e l’umanistico, non c’è un buono e un cattivo, entrambi conservano virtù e insidie.
La pittura nazionale e internazionale è affamata di figure che sappiano studiarla e darle ordine secondo criteri che non rispondano al gusto individuale. La Quadriennale ha proposto un autentico pensatore della pittura, Bart van der Heide, nominato futuro direttore del Museion di Bolzano. Partendo da quadri di matrice concettuale ante-litteram, quale “The Reverse Side of a Painting” (1670) di Cornelius Gijsbrechts, van der Heide propone numerose tematiche, ne cito alcune: il rapporto tra pittura e costruzione di un codice condiviso (per esempio, la lettura socioeconomica di una natura morta secentesca), il concetto di “passage” teorizzato da Thierry de Duve in “Pictorial Nominalism” applicato alla pittura attuale (da cui si apre una vasta parentesi su quanto resterà nel futuro della “ghostly presence of the dead artist” all’interno di un panorama pittorico che ricerca un allontanamento dall’autorialità), le politiche di appropriazione in pittura, gli effetti della decolonizzazione sul linguaggio pittorico, le conseguenze del caso “Open Casket” (nel 2016 la pittrice Dana Schutz ha esposto alla Whitney Biennal un quadro raffigurante un quattordicenne afroamericano linciato da uomini bianchi nel 1955; l’esposizione dell’opera ha provocato l’indignazione e la lunga protesta di attivisti afroamericani e di intere comunità), l’esistenza di una censura in pittura. Van der Heide ricorda che Painting – la Pittura, non l’immagine – è una disciplina con tutte le potenzialità per essere protagonista di un dibattito gnoseologico, morale, di politiche della rappresentazione, oltre che tecnico, storico-artistico e concettuale.
Amedeo Polazzo (1988) si è formato a Düsseldorf e a Los Angeles. La sua pittura è tersa, solarizzata, insidiosa come l’innocenza. Polazzo si appropria di una stanza e vi installa tele dipinte da una materia soave che deborda sui muri lungo l’intero perimetro spesso accorpando, in un gioco di aggetto, oggetti d’uso comune. Dipinge recinzioni, grate, reti, come fossero fiori o delicati paesaggi; utilizza la levità di una pittura aggraziata per camuffare la contenzione e il confine. Il recinto (lo spettatore nella stanza è recintato o recintante?) diviene pressoché invisibile all’occhio assuefatto dal piacere.
Agita da Diego Gualandris (1993), la piscina del traghetto Moby Civitavecchia-Olbia si trasforma in un litorale bretone da Conte d’été con tanto di misteriose ragazze che scompaiono dietro gli sfiatatoi dei motori. All’interno del gruppo, la pittura di Gualandris è la più mitopoietica, portavoce dell’attaccamento alla ritualità della terra, al lessico famigliare, alle tracce oniriche presenti nella natura, alla sensualità di leggende di personalissima invenzione che scaturiscono dalle velature del suo pennello.
Sul ponte della nave dove si sono consumate le frementi ore d’attesa di quand’eravamo bambini diretti all’Elba, in Sardegna, Corsica, Sicilia, o alle Tremiti, ci scambiamo gli ultimi saluti; Valerio Nicolai (1988) guarda il mare. Nicolai si divide tra pittura e alchimia, creando superfici livide, magmatiche, viscerali, cutanee, che allestite in uno spazio e senza la necessaria aggiunta di figurazione, imbastiscono la traccia di una narrazione. L’arcana ricerca di Nicolai ha la chiave per chiudere il cerchio del profondo umanesimo respirato nei giorni di workshop, dragando un vastissimo universo immaginifico e riducendolo ecfrasticamente ad una bidimensione palpitante spesso scevra d’immagini.
Il direttore artistico della Quadriennale Sarah Cosulich, il curatore Stefano Collicelli Cagol, la responsabile dell’Archivio Biblioteca Assunta Porciani e il curatore incaricato della documentazione Michele Bertolino, appassionati ideatori dei workshop e degli eventi Q-rated, hanno seguito i tredici pittori e le due curatrici in ogni parola, su ogni roccia, e in ogni boccone di ricotta, notando con gioia la propensione del pittore all’applauso, alla lacrima e al pensiero forte.