A ll’uomo che lo osserva ritrarre la casa in cui vive, Alec Soth risponde che le sue fotografie non hanno un messaggio specifico, vogliono essere come poesie. Sembra una scena tratta da “Mirino” di Raymond Carver quella che apre Somewhere to Disappear, il documentario di Laure Flammarion e Arnaut Uyttenhove su uno dei più celebrati fotografi americani, girato mentre Soth stava ultimando Broken Manual, una serie di ritratti di eremiti, monaci e di tutte quelle persone che hanno deciso di ritirarsi dal mondo e vivere isolati. Da bambino viveva in una fattoria circondata da boschi: tra lui e il fratello correvano troppi anni di differenza per giocare insieme e così passava la maggior parte del tempo da solo, costruendosi un mondo immaginario ogni giorno più vivido. Broken Manual deve avere a che fare con quel momento, pensa Soth: con un ragazzino che impara com’è che in assenza di altre persone ci si possa sentire tutt’altro che soli.
Non un progetto sulla fuga, ma sulle fantasie che circondano quest’idea, Somewhere to disappear offre una descrizione di cosa significhi in termini pratici isolarsi dal mondo, ma, soprattutto, è un’indagine su chi siano i moderni eremiti: per realizzare il suo Broken Manual, dal 2006 al 2010 Alec Soth ha percorso decine di migliaia di chilometri (trentamila solo nel corso del documentario) attraverso deserti, montagne, strade secondarie, alla ricerca di container, grotte nascoste, uomini che avevano deciso di abdicare al mondo; ne ha incontrati e fotografati alcuni, ha provato a comprare una grotta, ci ha pensato un po’ su (cosa ne avrebbe fatto? cosa avrebbe detto la sua famiglia?) e ha lasciato perdere.
Inserito all’interno del volume di fotografie c’è una specie di manuale che spiega come svanire completamente: lo ha scritto Lester B. Morrison, eremita che Soth ha incontrato nelle sue peregrinazioni. In questa zine stampata su pagine verdi e rosa e piena di parole cancellate con il tratto sicuro dei pennarelli indelebili, Morrison scrive “Let this book be your guide. Over the last few years I’ve studied the experts of escape. Let us now praise these lonely men: hermits and hippies, monks and survivalists”. Sia lode a questi uomini solitari: sembra una citazione del libro di James Agee e Walker Evans, Let Us Now Praise Famous Men, che nel 1941 provarono a descrivere l’America della Grande Depressione.
Due libri su tutti, di recente, hanno raccontato il fascino e il sollievo della scomparsa e sono Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel (Quodlibet/Humboldt) e Perdersi di Charles D’Ambrosio (minimum fax). Con percorsi e temi diversi, sono entrambe opere sul vagare: se lo scrittore italiano viaggia attraverso i deserti americani, le leggende e i suoi miraggi, D’Ambrosio mette in fila le avventure di uomo che vaga qua e là per il paese, legge libri, visita case modello e case stregate, per raccontare il disorientamento dell’America e dei suoi abitanti.
C’è una cosa che dice Alec Soth nel documentario ed è che la cultura degli Stati Uniti si è rivelata profondamente impreparata al proprio declino, ma quello che vogliono fare questi lavori non è osservare le rovine di un impero; quello che tentano di fare, piuttosto, è ricordare che lo sfacelo non è il modo più autentico in cui le cose si manifestano: che i luoghi esistono, prima di finire. Così questi libri si impegnano a viaggiare in mezzo al niente, per chiedersi cosa accade alle persone che resistono all’erosione del tempo e all’obsolescenza delle cose. Sembra paradossale per opere che parlano di ritiro in sé, ma a guidare queste tre ricerche – pur diverse tra loro – c’è il desiderio di incontrare l’altro, una fame di storie che spinge chi scrive a camminare un po’ di più, a muoversi attraverso il vuoto assoluto, a perdersi. In questo modo arrivano a luoghi dimenticati da tutti, scoprono storie differenti, dove il tempo sembra sospeso, capace addirittura di riavvolgersi su se stesso, dove l’isolamento è il risultato della ricerca di un luogo che possa contenere la propria esistenza.
È questo il principio su cui si fonda, per esempio, Slab City: l’accampamento nel sud est della California visitato in Absolutely Nothing, sorto su una ex base militare, è da tempo porto franco per hippy e nomadi che accettino di fare a meno di acqua corrente e elettricità per vivere in un luogo in cui l’unica legislazione in vigore è la propria. Sullo stesso sfondo di Salvation Mountain, il rilievo artificiale creato nelle vicinanze dall’artista Leonard Knight e dedicato a Dio Gianfranco Rosi ha girato un documentario, Below Sea Level (2008), un tributo a questa comunità: “viviamo qui – si sente recitare una voce – sotto il livello del mare. Mai stati capaci di inserirci sui binari della società. Ci laviamo poco e siamo un po’ sciatti, ma ci piace qui e non torniamo indietro”.
Un posto del genere è anche Biosquat, l’eco-villaggio vicino a Austin che Charles D’Ambrosio descrive in “Un paradiso in più”: qui i comandamenti, che mescolano credenze apocalittiche a Charles Fourier a un po’ di Hakim Bey, regolano un vivere e crescere in armonia con il mondo naturale. Diretto da Dave Santos, questo posto, costruito su un pezzo di terra abbandonata a nord est della città, si rivela poco più che una discarica a cielo aperto, dove le roulotte arrugginite si alternano a strutture futuristiche e assurde come water montati su tricicli e armature fatte di ruote di biciclette. Santos vive da solo, pare, in mezzo a un circo di robivecchi e robot malandati: con il piglio e la sicurezza di certi uomini abituati a affidarsi solo a se stessi, racconta allo scrittore teorie improbabili, secondo cui presto l’uomo colonizzerà gli strati inferiori dell’atmosfera, dove godremo di un ambiente piacevole e di un’energia elettrica totalmente affidabile. È una specie di autodidatta che parla una lingua piena di neologismi: ricicla tutto, dalle conoscenze rimediate dai corsi universitari, alle letture disordinate di una mente che non si arrende al mondo come lo vediamo, agli oggetti; niente resta intatto a Biosquat.
Outsider più che complottista, la vita e le opere di Santos ricordano Edward Kienholz e la sua pop art al contrario. Esponente della junk art, Kienholz, fuggito da una rigidissima educazione religiosa e senza una vera formazione accademica, negli anni ’50 iniziò a costruire opere che sembravano città tirate in piedi dai detriti. I risultati sono opere come Roxy’s, la ricostruzione di un bordello, o The Beanery, che riproduce gli interni del celebre Barney’s Beanery di Los Angeles: luoghi a grandezza naturale che paiono provenire da sogni confusi, dove tutto è esattamente come lo si ricorda, eppure diverso, fatto di oggetti arrugginiti, incollati, inchiodati tra loro. Kienholz e Santos salvano le cose dall’obsolescenza, si muovono perché ogni cosa trovi un posto al mondo, forse per trovare un posto anche per sé. Si dice che si diventi accumulatori compulsivi per colmare un’assenza. In tutti questi racconti si passa dall’accumulo alla sparizione come se fossero solo due aspetti dello stesso desiderio.
Come in una ribellione al deserto, tutto il viaggio di Giorgio Vasta (che, appunto, dovrebbe indagare cosa resta quando tutto svanisce) è costellato da posti invasi da oggetti, come la casa disabitata del Nileland con un motoscafo nel cortile e il pavimento ricoperto da carte, giornali e paccottiglia; o Jerome, la ghost town dell’Arizona, in cui si paga il biglietto per ammirare i camioncini Dodge e Shell arrugginire sotto il sole o le aule di una scuola che aspetta ancora il ritorno dei suoi studenti. Nel mezzo, chilometri di nulla, dove la monotonia della sparizione diventa sollievo, come se lo spazio riuscisse a insegnare qualcosa a proposito di se stesso, quando tutto il resto si dilegua.
C’è qualcosa nello spazio americano che richiama a sé, uno stato verginale, una natura indomata, che non suggerisce accoglienza.
Ma forse questo tipo di fiducia zen vale per gli eremiti come Lester B. Morrison, che vive in una cella grande come una cuccia per cani e dichiara di non prendere parte alle cose del mondo, di non avere una fede religiosa specifica, né un indirizzo politico. L’ostinata modestia delle sue parole sembra un modo come un altro per scomparire, ma la maggior parte delle persone che si vedono nel corso di Somewhere to Disappear più che monaci sono, come li chiama Soth, hippy con le pistole, uomini che credono in poche cose oltre al secondo emendamento.
Non a caso Broken Manual nasce dall’interesse di Alec Soth per Eric Rudolph, l’attentatore delle olimpiadi di Atlanta del 1996: sfuggito alla polizia, Rudolph era rimasto nascosto nei boschi sui monti Appalachi per cinque lunghi anni, vivendo come poteva, tra rifugi di fortuna e tecniche di sopravvivenza apprese dalla madre. Esiste un diario di quegli anni: si chiama Lick the Floor e si trova sul sito della Army of God, un’organizzazione terroristica cristiana e antiabortista (Rudolph aveva, tra le altre, colpito delle sedi di una clinica di aborti e di un nightclub gay) che probabilmente lo aveva aiutato a nascondersi negli anni in cui divenne uno dei dieci uomini più ricercati d’America. Nelle pagine del diario, Rudolph racconta come ha fatto a sopravvivere, del sollievo provato quando i poliziotti non lo trovavano, della durezza dell’inverno quando non si è vestiti adeguatamente per quello che lui chiama semplicemente un viaggio. Lick the Floor è un documento talmente affascinante da creare un senso di nausea.
Ha una svastica sul braccio destro, Dustin St.Clair, uno degli uomini che Soth incontra nel suo percorso. È un peckerwood, spiega, “un grado sotto un white supremacist” e vive in una grotta, unici compagni un cane e il suo fucile. Quando parla delle crudeltà che i peckerwood infliggono a neri e ispanici, lo fa con un certo distacco, come se la violenza fosse un’assurdità, certo, ma a cui è impossibile sottrarsi, niente più che un dato di fatto. Parla eccessivamente e poi, prima che il fotografo se ne vada, si avvicina per abbracciarlo: sembra solo un ragazzo perduto in cerca di affetto, che ha trovato nell’isolamento l’unico modo per uscire da una realtà di violenza e abuso, come hanno fatto Mr. Abstact e Jess A. La Wire, sempre da Somewhere to Disappear, che vivono in una sorta di centro di riabilitazione senza regole né dottori, in cui ognuno tiene d’occhio gli altri. Sono alcolisti, uomini dipendenti da sostanze, esclusi dalla società, e quello non è che un posto desolato che non ha la forma di una comunità, ma almeno è sicuro: qui le persone ferite, sole, se ne stanno in mezzo al niente per evitare di continuare a farsi del male o di farne agli altri, per dimenticarsi o per provare a guarire da qualcosa che non hanno ancora compreso.
C’è qualcosa nello spazio americano che richiama a sé, uno stato verginale, una natura indomata, che non suggerisce accoglienza: quando D’Ambrosio parte per vedere le balene nel profondo ovest, lo fa sperando che spaccare legna serva a esaurirlo fisicamente e a tenere alla larga i cattivi pensieri – non per un ingenuo desiderio di armonia terrestre. Si porta dietro Pascal e la Guida pratica al clima del Nord America, ma se c’è una cosa che non vuole fare è discettare di scetticismo e nebbia mentre si trova in mezzo al freddo atroce delle acque oceaniche, senza direzione e senza un’adeguata attrezzatura. L’unica cosa a cui riesce a pensare è alla disgregazione della propria famiglia: “la natura, in me, non ha trovato il minimo appiglio” scrive, mentre riflette sul fatto che probabilmente non avrà mai figli, che non potrà dare loro i saggi consigli che a lui sono mancati, o che si trova intrappolato in un posto che non gli risponde.
Ecco il senso di queste narrazioni: sono dialoghi con una natura che non si impegna a rispondere, ma che permette di nascondersi, di sottrarsi alla società civile; quando pensiamo a Thoreau pensiamo a una negazione, a un uomo che è stato per anni separato dal resto del mondo, non a una storia di comunione con gli elementi, di paradiso terrestre. Se D’Ambrosio fosse davvero in grado di scegliere tra quella spiaggia solitaria e qualsiasi altro punto del planisfero, sceglierebbe il secondo, ma stare da solo – che è quello che fa più o meno in tutti i saggi – è ciò che lo protegge dalla brutalità e dalla distruzione di una mente che non riesce a salvarsi da sola.
Forse è questo il deserto, forse è questo ciò a cui servono i posti abbandonati, a creare storie che dovrebbero parlare di natura e invece parlano di noi, ma sarebbe solo una lettura pacificatrice e rassicurante; i deserti non servono a qualcosa, sono solo la dimostrazione che l’universo ci sopravviverà sempre, che le cose si trasformano in polvere e svaniscono. E insieme i deserti ci mettono a quanto inconsistente sia ogni storia concepita linearmente, e ci mettono di fronte all’incapacità di distinguere il sogno dalla realtà: Absolutely Nothing è dominato da un senso di minaccia incombente, pieno di sogni, fate morgane, invisibili famiglie di cannibali; come in Picnic a Hanging Rock, i deserti si prestano al pericolo, all’abbaglio e se offrono una visione, questa è priva di epifanie, perfino fatale.
La successione di città in via di estinzione e ferraglia incandescente sotto il sole, sabbia e costruzioni immense che paiono fortezze abbandonate raccontano uno stillicidio fisico, raccontano come il deserto non sia l’assenza delle cose, ma dissipazione di spazio e tempo: l’incapacità di ogni movimento di portare a un punto di arrivo, perché inesistente; i piani temporali si confondono e le persone diventano immagini evanescenti. Ogni tanto in Absolutely Nothing arriva una tempesta di sabbia e, ogni volta sembra che, nel momento in cui si placherà, rivelerà che ogni cosa è scomparsa.
Semplicemente a Wakefield piace abitare nella sua stessa sparizione, gli piace spiare cosa succede dove lui non è, nell’eclissi quotidiana, nella vita che non siamo; solo che prendere atto della propria sparizione sia sempre presente non è facile, richiede tempo e pazienza: per rendersi conto che non esserci non è un dramma, non è un trauma, è del tutto naturale, a Wakefield servono vent’anni – e allora ascoltando I’m not there / This isn’t happening / I’m not here penso che forse anch’io, sempre più scontornato liscio sottratto celibe, non sono qui e questo non sta succedendo: dentro l’absolutely nothing c’è davvero l’absolutely nobody, nient’altro che l’esaudimento del mio desiderio di scomparsa.