
Come salvare una lingua
Dalla creazione dell’Oxford English Dictionary alle nuove risorse linguistiche: qual è il destino delle lingue minori?
Dalla creazione dell’Oxford English Dictionary alle nuove risorse linguistiche: qual è il destino delle lingue minori?
N ella penisola del Sulcis, lungo la costa meridionale della Sardegna, ci sono due paesi dove l’italiano e il sardo sono lingue straniere. Il motivo di questa anomalia risale a metà del Cinquecento, quando un gruppo di pescatori liguri venne mandato dalla famiglia di aristocratici genovesi dei Lomellini a colonizzare l’isola di Tabarca, in Tunisia, per dedicarsi alla pesca del corallo. Per duecento anni i coloni si occuparono di questa attività, accumulando ricchezze e intessendo rapporti commerciali con le altre popolazioni locali. “Laggiù avevano sempre parlato il genovese, assorbirono la cultura locale, impararono a cucinare il couscous che in dialetto diventava cascà, e via così si forgiava una nuova lingua che non ha mai smesso di evolversi: il tabarchino”. La nascita del tabarchino viene riassunta da Mirco Roncoroni in uno dei sei reportage che compongono Stiamo scomparendo, il primo libro pubblicato da CTRL. A settant’anni dall’articolo 6 della Costituzione italiana, dedicato alla tutela delle minoranze linguistiche, la rivista di Bergamo ha mandato sei scrittori e una fotografa, Emanuela Colombo, sulle tracce di alcune lingue dall’origine antica, l’evoluzione tortuosa e il presente incerto.
Il tabarchino è una variante del ligure che si è formata in Tunisia, ma si è ritrovata a mettere radici in Sardegna. Nel ‘700 i rapporti politici locali si erano fatti complicati, così il re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia dette il benestare ai coloni per occupare delle zone ancora disabitate dell’isola. Lì è sopravvissuto fino a oggi, nei comuni di Carloforte e Calasetta. Il tabarchino è una delle lingue minoritarie con più vivacità tra i parlanti. “Si parla a tutti i livelli della società: in famiglia, per strada, nei luoghi di aggregazione, negli uffici pubblici”, continua il reportage di CTRL. “È una vera e propria lingua regolata da norme grammaticali e fonetiche, eppure la legge 482/99 che tutela le minoranze linguistiche non la riconosce come tale”.
La mappatura e il riconoscimento delle diverse minoranze linguistiche in Italia sono frammentati tra leggi regionali e statali. La 482/99 “tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”. Senza addentrarsi nelle controversie legate alla selezione di queste famiglie linguistiche, la necessità di tutelarle spinge a porsi le domande che sottendono i reportage di Stiamo scomparendo: qual è il destino di una lingua estranea all’italiano su suolo italiano? In che modo si lega all’identità delle comunità che le parlano? Che ruolo svolgono queste lingue minori, come assicurare loro un futuro?
Sono passati settant’anni dall’articolo 6 della Costituzione italiana, dedicato alla tutela delle minoranze linguistiche: lingue dall’origine antica, l’evoluzione tortuosa e il presente incerto.
Le loro storie sono molto diverse, ma tutte legate a migrazioni, isolamento, forte senso di identità. C’è il grìco in Salento, eredità delle colonie greche dell’antichità e dell’impero bizantino; l’Occitano in Piemonte e Val d’Aosta, che negli anni ’50 si è trasformato da segno di emarginazione a strumento di resistenza, sotto l’impulso di François Fontan; e poi il Walser parlato dalla popolazione germanica che si spostò sull’arco alpino tra Val d’Aosta e Piemonte nel 1200, alla ricerca di nuovi pascoli. La lingua minore forse più nota a livello nazionale, il Ladino, è così diffuso sulle Dolomiti da essere arrivato alla definizione di una lingua standard, con tanto di dizionario, grammatica base e informatizzazione del patrimonio lessicale grazie al progetto SPELL.
Leggendo i reportage, oltre alle domande emergono anche degli accenni di risposta. Perché una lingua continui a vivere servono due spinte opposte ma congiunte: da un lato serve definirla, catalogarla, darle delle fondamenta. Dall’altro è essenziale lasciarla libera di scavalcare quei confini, di evolvere, di contaminarsi. L’inglese, la lingua più parlata al mondo, è un caso esemplificativo di entrambe le tendenze.
Il grande dizionario
La lingua inglese è rimasta a lungo priva di dizionario. Mentre in Italia a fine Cinquecento nasceva l’Accademia della Crusca, la più antica accademia linguistica del mondo, l’inglese non aveva nessun punto di riferimento per la sua lingua. Shakespeare, Bacon, Marlowe e Donne hanno scritto i loro capolavori senza nessuno strumento per cercare nuove parole, controllare il significato di quelle esistenti, studiarne i risvolti nascosti. Solo nel Seicento iniziarono i primi tentativi di catalogare e definire la lingua inglese, come racconta Simon Winchester ne Il professore e il pazzo (Adelphi, 2018, traduzione di Maria Cristina Leardini), il saggio in cui ripercorre la nascita dell’Oxford English Dictionary. In quegli anni, la lingua inglese si trovava in una fase cruciale:
Da quando la Gran Bretagna e il suo influsso avevano iniziato a propagarsi nel mondo […] l’inglese era in procinto di diventare una lingua globale. Stava iniziando a essere un veicolo importante per lo svolgimento dei commerci internazionali, per le guerre e per la legge. Stava spodestando il francese, lo spagnolo, l’italiano e le lingue di corte degli stranieri. Era necessario che fosse conosciuto meglio, che fosse studiato in maniera più adeguata. Bisognava fare un inventario di ciò che si diceva, si scriveva, si leggeva.
Con l’espansione imperialistica della Gran Bretagna, l’inglese stava superando i confini nazionali e diffondendosi in tutto il pianeta. Stava diventando una lingua globale senza strumenti teorici a sorreggerlo, senza una struttura consolidata che lo riparasse dalle influenze esterne, come un adolescente messo improvvisamente davanti agli obblighi dell’età adulta. Stava per diventare uno strumento di dominio. L’appello dei più grandi intellettuali del tempo, tra cui Pope, Defoe e Swift era unanime: serviva un dizionario.
Questo significava stabilire i limiti della lingua, creare un inventario del suo patrimonio lessicale, forgiare la sua cosmologia, decidere esattamente cosa fosse. La loro ponderata opinione sulla natura dell’inglese era splendidamente autocratica: la lingua, insistevano, alla fine del Seicento era ormai sufficientemente perfezionata e pura, tanto da poter soltanto rimanere statica o altrimenti, da allora in poi, deteriorarsi.
All’appello risponde Samuel Johnson. Nel 1775, dopo decenni di ricerche, pubblica il suo Dictionary: un compendio di oltre 40.000 lemmi e più di 100.000 frasi illustrative, che descrivono lo stato della lingua da quello che Johnson ritiene il suo periodo d’oro, quello di Shakespeare e dei suoi coetanei, fino alla data di pubblicazione. L’intento è descrittivo – quella racchiusa nel dizionario di Johnson non è la lingua così come dev’essere, ma la lingua così com’è.
Quasi un secolo dopo, ispirata allo stesso principio, nasce l’idea di “un grande dizionario”:
L’operazione aveva un fine ultimo semplicemente sfrontato, ma elegante: mentre Johnson aveva presentato una selezione della lingua (e una selezione enorme, realizzata superbamente), questo nuovo progetto l’avrebbe presentata tutta: ogni parola, ogni variazione, ogni sfumatura di significato, ortografia e pronuncia, ogni risvolto etimologico, ogni possibile citazione esemplificativa tratta da ogni possibile autore inglese.
In questo progetto tutte le parole hanno uguale dignità, tutte sono legittimamente parte della lingua inglese, e proprio per questo devono essere descritte nella loro evoluzione, a partire dalla prima occorrenza scritta fino al presente. Il lavoro è infinito. A capo di questa impresa titanica c’era James Murray, direttore editoriale dell’Oxford English Dictionary, che individuò l’unico modo per portarla a termine: coinvolgere lettori volontari da ogni parte della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e delle colonie, perché ricercassero e selezionassero citazioni da libri e giornali, aiutando così a creare un corpus. Nonostante questa rete di letterati collaboratori, ci vollero settant’anni per portare a termine la prima edizione dell’OED: con più di 414.000 parole e quasi due milioni di citazioni, l’anno in cui venne terminato, il 1927, il grande dizionario era già vecchio.
Tutta la lingua, tutte le lingue
Da quell’esperienza a oggi, però, c’è una differenza fondamentale: internet. Non solo permette di attingere a un bacino praticamente infinito della lingua, costantemente aggiornato, ma anche di avere accesso alle sue forme più vicine al parlato, quelle nate per gioco, sperimentali, innovative. Urban Dictionary è forse il caso più famoso di dizionario nato online. Creato nel 1999 da Aaron Peckham sotto il motto “Define your world”, UD ha sviluppato l’idea che fu di Murray potenziandola con le possibilità della rete. Il dizionario è formato da una serie di parole proposte, descritte e definite dagli utenti: ideato inizialmente come punto di riferimento per neologismi e slang, UD nel tempo si è evoluto fino a includere qualsiasi parola. Purtroppo, con una redazione composta esclusivamente da volontari che selezionano le parole proposte senza alcuna linea guida condivisa, tende spesso pericolosamente al razzismo e al sessismo.
BabelNet è un’enciclopedia multilingue aggiornata grazie all’uso di un’ampia rete di siti: conta al momento 16 milioni di voci raggruppate in base al loro significato, in 284 lingue diverse.
Esistono risorse linguistiche più evolute. BabelNet è un dizionario multilingue sviluppato dal Professor Roberto Navigli dell’Università La Sapienza di Roma. Ricercatore nel campo della linguistica computazionale da quindici anni, Navigli racconta l’idea alla base di BabelNet: disporre di un inventario di parole e significati per supportare sistemi automatici di comprensione del testo. “Per capire quale significato dare alle varie parole, la macchina deve associare un’etichetta, l’accezione più appropriata di un termine in un determinato contesto”. L’idea è stata quindi unire Wikipedia – un’enciclopedia multilingue che ha il vantaggio di coprire uno spettro molto ampio di entità, a cui però mancano i significati lessicografici presenti in un dizionario tradizionale – e WordNet, un dizionario aperto di lingua inglese sviluppato dalla Princeton University. “Abbiamo scritto un algoritmo di intelligenza artificiale che collegasse queste due risorse e poi da lì a valanga abbiamo iniziato a integrarne tante altre”.
Il database è aggiornato grazie all’uso di un’ampia rete di siti e conta al momento 16 milioni di voci raggruppate in base al loro significato, in 284 lingue diverse, collegate le une alle altre da una rete di relazioni semantiche. Tra queste, anche alcune delle lingue mappate dall’UNESCO come a rischio di estinzione. “Il prototipo iniziale includeva cinque lingue”, continua Navigli. “Appena ci siamo spostati su una versione successiva, ne abbiamo incluse centinaia. Non usiamo database specifici per dialetti e lingue minori: le fonti sono dei progetti open source. Nulla vieta in teoria di farlo. Il problema è che manca una mappa di queste risorse, se ci fosse un elenco sarebbe molto interessante lavorare sui dialetti”.
Appoggiandosi a piattaforme a cui gli utenti contribuiscono di propria iniziativa, la struttura di BabelNet riesce ad aggirare eventuali lacune di dati: “La cosa bella è che anche se le informazioni dialettali sono relativamente poche, grazie ai collegamenti semantici BabelNet riesce a fornire la traduzione di un termine dal dialetto a qualsiasi altra lingua. Posso fornire la traduzione dal friulano all’arabo, per dire, anche se non sono legati direttamente. È impressionante.” Pur nato con un obiettivo diverso, BabelNet ha intercettato e sintetizzato le esigenze di dialetti e lingue minori: catalogare e dare basi consolidate a una versione viva e dinamica della lingua. Un sistema che amplifica e dà forma al concetto espresso da Davide, insegnante di Walser, in Stiamo scomparendo: “Una lingua è ancora viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare”.