A cinquant’anni da Usi del disordine. Richard Sennett torna a riflettere sul suo fondamentale lavoro degli anni ‘70 in cui ragionava sul rapporto tra identità personale e vita nella metropoli – e stavolta lo fa insieme a Pablo Sendra. L’incontro tra il sociologo americano e l’architetto spagnolo ha per titolo Progettare il disordine, un libro a quattro mani uscito per Verso nella primavera del 2020, adesso in traduzione italiana per Treccani. Come si fa a far progettare qualcosa perché sia disordinato, imprevedibile? Progettare il disordine sembra un ossimoro solo se non si conosce il lavoro di Richard Sennett (e Sendra) – o se non si guarda da vicino come si è trasformato l’uso dello spazio pubblico… dagli anni ‘70.
Una città vitale e aperta non è frutto del caso. Vi sono luoghi in cui le attività improvvisate e l’interazione sociale non si concretizzano perché la rigidità dell’ambiente urbano non permette che questa improvvisazione abbia luogo, ed è necessario che il disordine venga progettato.
È una storia più lunga dei soli ultimi cinquant’anni: i romanzi dell’Ottocento usavano la città come dispositivo di crescita; è qui che si recano i protagonisti per diventare loro stessi, conoscere il mondo, essere esposti alla novità e alla diversità – è quello che ancora oggi pensiamo di fare, quando arriviamo in una metropoli che non conosciamo; le guide apprezzano la mixité dei quartieri, il cosmopolitismo di certe aree urbane in cui convive il vecchio e il nuovo, il tradizionale e l’inaspettato. In quei romanzi le città erano anche lo spazio in cui si andava per entrare a far parte del potere, conquistarlo, per imparare le convenzioni e conformarsi. La massa, l’individuo: le città sono lo spazio in cui il potere lascia il suo marchio, tenta di controllare le persone, ingabbiarle nelle proprie regole e norme.
La massa, l’individuo: le città sono lo spazio in cui il potere lascia il suo marchio, tenta di controllare le persone, ingabbiarle nelle proprie regole e norme.
Nel suo saggio Richard Sennett cita il lavoro di un filosofo e pensatore politico che al tempo della stesura di Usi del disordine non conosceva, Benjamin Constant. Sennett scrive che Constant, ne La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni del 1819, celebrava la caduta di Napoleone e, soprattutto, la sconfitta del code civil, che, sotto l’apparente tolleranza di culture e religioni, mirava a regolamentare la vita quotidiana. Nei suoi libri sosteneva l’importanza di una società in cui le persone imparano a vivere con l’ambiguità, la contraddizione e la complessità e anzi ne traggono beneficio; in cui l’esperienza sociale va oltre i valori di “gruppi chiusi” affini. Lo ricorda anche Russell Jacoby in On diversity. The eclipse of the Individual in a Global Era (Seven Stories Press, 2020): per Constant gli antichi conquistavano i territori senza nessun desiderio di imporre i propri usi, mentre i tiranni moderni vogliono imporre le proprie leggi, uniformare le esistenze alla propria, estirpare la varietà ed è per questo che bisogna stare in guardia. “La varietà è vita; l’uniformità, la morte” scriveva, disprezzando come rivoluzionari e napoleonici andassero d’accordo sull’idea di una società uguale – nel senso di uniformata, standardizzata.
Il bel libro di Jacoby citato sopra ha per tesi l’idea che abbiamo barattato i concetti di varietà e individualità con quello di diversità, che ha più a che fare con le categorie merceologiche che con la politica – vedi l’inclusività e la rappresentazione. “Oggi la diversità è una tassonomia” scrive nella conclusione. “È il rumore di fondo della nostra era. Siamo sempre tutti diversi”, continua citando le campagne promozionali degli shampoo e dei bagnoschiuma, le scritte motivazionali che spronano a essere sé stessi (cioè speciali). Come è possibile farlo, intende, se tutto mira all’uniformità? Se tutto è uguale, o uguale nella sua diversità, come posso imparare a orientarmi nel mondo, diventare una persona? Sennett nel suo libro parla di “identità adulta” e di come questa si sviluppi attraverso l’incontro con la differenza, affrontando situazioni inaspettate e dovendo negoziare per raggiungere un accordo con gli altri (esattamente quello che affermava Constant): le norme sociali devono essere contestabili, la complessità e la incertezza sono cruciali perché questo accada – soprattutto nell’esperienza urbana. Non è un caso, mi viene da dire, che Russell Jacoby e Richard Sennett siano coetanei, perché le loro esperienze giovanili, come dirà Sennett nell’intervista, si collocano nella cesura esatta tra movimenti sociali di massa e l’alba del neoliberismo.
“Il capitale globale impone l’ordine” scrivono Sendra e Sennett nella prefazione al libro, parlando della rigidità che il potere impone alla città, in cui adesso è il settore immobiliare a dettare la linea, a produrre ricchezza, valore. Fanno l’esempio di Hudson Yards a New York – un polo del lusso con condomini e immobili in affitto, hotel, uffici, ristoranti e un centro commerciale al cui centro sorge il Vessel, una struttura architettonica progettata più come cornice per promozioni commerciali che per un utilizzo vero e proprio. L’urbanistica commerciale ha trasformato le nostre città – non solo New York o Londra, ma anche Milano e così via, in occidente e in oriente, anche se in modi diversi – imponendo regolamenti urbani più rigidi di quelli dell’800. La città fragile, come la chiama Sennett, è una città iperdeterminata, in cui non c’è spazio per l’improvvisazione.
La città fragile, come la chiama Sennett, è una città iperdeterminata, in cui non c’è spazio per l’improvvisazione.
Luoghi come Hudson Yards non sono spazi pubblici nel senso profondo del termine, di incontro, perché, se pure sono teoricamente aperti a tutti, vi si può andare solo se si accetta una sorta di controllo inconscio su come comportarsi, se si accetta di far parte di una coreografia urbana della felicità e del divertimento, ma in cui c’è poco posto per l’individualità; Beka & Lemoine hanno fatto qualcosa di simile su La Lune di Bordeaux, ma altri esempi sono piazza Gae Aulenti o Kings Cross a Londra, se si ha davvero bisogno di avere un riferimento più prossimo. Sono luoghi pubblici in cui c’è una grande presenza di fondi privati e, a me pare, in cui non si sa mai cosa fare, come stare – e non sono affatto riadattabili, diranno poi Sendra e Sennett. Più adatti alla aspirazionalità: ricordo qualche anno fa la storia di un magazine dal titolo North: “FLAT è un real-estate developer che gestisce più di 1500 appartamenti (units) in 5 quartieri e un sobborgo di Chicago. Adesso ha fondato una rivista, North, una rappresentazione della città – gentrificata, esclusiva – che vuole vendere”. Una specie di Kinfolk o di Monocle che vendeva ai futuri proprietari di casa l’idea che stavano acquistando – non diverso dalla rivista che nel 1974 Berlusconi aveva lasciato nelle case di ognuno dei futuri abitanti di Milano 2, in Milano 2: Una città per vivere (non a caso edita da Edilnord Centri Residenziali, 1976).
Usando il rapporto servo-padrone di Hegel per parlare della città e in particolare di quella contemporanea, Sennett spiega che il ‘signore’ è una regola o un progetto che designa l’uso preciso di ogni spazio, compreso chi a quello spazio appartiene; il ‘servo’ chi si sottomette alle regole di uno spazio, usandolo così come deve essere usato; (“Nella New York di oggi, il ‘signore’ di Hudson Yards corrisponde al suo spazio pubblico altamente articolato e regolato; i ‘servi’ sono gli uomini e le donne che lo usano esattamente come previsto”).
Progettare il disordine è il tentativo di liberare il servo, di emanciparlo da quel rapporto, trovando un rimedio a quello che oggi resta dello spazio pubblico – altamente regolato, residuale, in cui l’incontro con l’altro è al meglio solo una forma di decorazione e di profitto. In Usi del disordine Sennett si impegnava a comprendere il ruolo del disordine nello “stabilire rapporti con chi è diverso sul piano razziale o religioso… proviene da culture distanti”, ovvero il modo in cui le persone possano “considerare la loro identità meno assoluta, meno definibile”. Come nota Sennett, oggi nella società moderna le persone non si sentono più in grado di gestire situazioni complesse; c’è bisogno del consueto, altrimenti “non ce la si fa”; un’idea che stride con l’identità adulta che dovremmo invece sviluppare in città.
Così si chiedono lui e Sendra, quel tipo di impegno civile come potrebbe essere realizzato praticamente? La risposta, per Sendra, che appunto è architetto, sta nelle infrastrutture, negli spazi flessibili, progettati per l’improvvisazione e incertezza. Gli edifici, le strade e gli spazi pubblici possono essere progettati per perturbare, rompere le abitudini fisse, per creare disordine nelle immagini assolute che abbiamo di noi?
Sara Marzullo: Usi del disordine è stato pubblicato la prima volta nel 1970, in un periodo di grandi trasformazioni e rivoluzioni sociali. Cinquant’anni dopo il suo contenuto è ancora valido, al punto che avete deciso di lavorare insieme per Progettare il disordine. Professor Sendra, dice di aver letto Usi del disordine per la prima volta a venticinque anni, la stessa età che Sennett aveva quando lo aveva scritto. Cosa l’aveva colpita al tempo – durante o subito dopo la crisi del 2008 – e cosa l’ha portata a voler andare dalla carta al progetto?
Pablo Sendra: L’ho letto durante la specializzazione a UCL ed è stato un libro molto importante per la comprensione le città, per la mia identità personale (ero appunto giovane, avevo venticinque anni) e per quanto riguarda i modi di affrontare l’incertezza, soprattutto nel momento di crisi che stavamo vivendo nel 2008. Alla mia generazione era stato promesso che se avessimo studiato e seguito determinati percorsi, tutto sarebbe andato bene e all’improvviso tutti i nostri piani erano all’aria per la crisi. Quel libro è stato utile anche da questo punto di vista, ma quello che io avevo trovato interessante era immaginare città che avrebbero incoraggiato questi incontri imprevedibili, queste connessioni sociali e pensare a come costruirle; capire quali spazi pubblici, quali edifici permettono relazioni di questo tipo e attività imprevedibili di cui parlava Richard. Mi ha permesso di iniziare a ragionare di quali spazi sociali si trattasse e come costruirli materialmente, in particolare perché le discussioni che leggevo non prendevano abbastanza in considerazione gli elementi materiali e il tipo di ruolo che potevano avere. Questo è quello che volevo fare, capire come costruire spazi pubblici più flessibili che potessero essere continuamente adattati.
SM: Come nota Leo Hollis nella sua intervista in appendice, Usi del disordine è stato scritto in un momento di rivoluzione ma anche all’alba dell’era – e città – neoliberista. Professor Sennett, mi chiedo come sia stato riflettere su questo libro in un momento di riemergenza di movimenti politici e di strada, come nell’estate del 2020, con Black Lives Matter. Come sono cambiate le parole disordine e perturbazioni (“disruption”) dal suo punto di vista, sempre che siano cambiate, e quale è oggi la loro rilevanza?
Richard Sennett: Buona domanda, in particolare la seconda – perché se guardiamo quello che sta succedendo in Ucraina, l’idea di usare il disordine sembra un nonsense. È declinata in modi diversi: se avessi scritto il libro dieci anni dopo, avrei usato disordine in senso economico, che vuol dire che il neoliberalismo non è un processo di liberazione, ma di imposizione di un nuovo ordine. Questo libro però è stato scritto all’alba della macchina neoliberalista, quindi rispetto al sistema neoliberista: rispetto ai termini di progettazione di un masterplan, disordine ha un certo valore, risuona in quel contesto – ed è importante per me capire l’età in cui ancora viviamo come qualcosa di molto repressivo e non è indifferente. Le persone quando parlano di disuguaglianza, dicono che i poveri vengono dimenticati, ma in realtà il sistema neolibertista è un sistema di disuguaglianza che impone un suo ordine che diventa evidente nello spazio pubblico. Quello che penso che abbia valore nel mio libro – e ci sono cose che ho fatto che avrei voluto aver fatto diversamente – è che comprende come un ambiente molto rigido produca grandi danni all’esperienza e alla comprensione che le persone hanno del mondo. Produce una comprensione semplificata, persone inflessibili e incapaci di avere a che fare con la contraddizione e la complessità, tutte cose che gli adulti dovrebbero essere in grado fare. Se l’ambiente di dice che ci sono regole su cui non puoi fare niente, che sono inflessibili è difficile sviluppare quella complessità. Suppongo che quello che resta vero o che spero sia un’intuizione ancora di valore e che quando Pablo e io abbiamo iniziato a lavorare insieme, abbiamo visto che potevi pianificare da un punto di vista tecnico per rendere un ambiente meno rigido e permettere quel tipo di esperienze. È per questo che il libro si chiama Progettare il disordine; avremmo potuto chiamarlo Progettare disorientando, ma non sarebbe stato un inglese molto elegante, l’idea però è questa, aprire la città perché possa permettere una gamma più ricca di esperienze. E questo è il motivo per cui lavoriamo insieme.
Un ambiente molto rigido produce una comprensione semplificata, persone inflessibili e incapaci di avere a che fare con la contraddizione e la complessità.
SM: Le città per come le conosciamo sono sempre state un punto di convergenza tra ordine e disordine. La Parigi haussmaniana era stata progettata per offrire maggiore controllo per il potere, per evitare i disordini, perché la densità delle persone è un rischio, aveva prodotto moti e rivolte. Se ci avviciniamo al presente, le città sono diventate concentrati di potere e ricchezza e adesso più che mai un luogo di ordine e controllo. Il capitale globale ha bisogno che le città restino prevedibili, perché lo spazio, soprattutto quello urbano, ha un valore. E se le città erano un posto in cui avremmo dovuto incontrare vite diverse, novità e il controllo era qualcosa imposto dall’alto, ho l’impressione che il soft power neoliberista abbia fatto sì che ci spostiamo in città aspettandole ordinate e sicure, posti dove vivere vite senza sconvolgimenti – una suburbanizzazione delle città insomma. Come viene imposto il controllo ora? E il disordine è diventato meno desiderato, quasi temuto anche dalle persone e non solo dal potere?
RS: Ho passato l’ultimo decennio a lavorare per le Nazioni Unite (Richard Sennett è stato senior advisor per il programma su climate change e cities, ndI) e quando abbiamo lavorato nell’estremo oriente quello che mi ha colpito molto, era il contrasto tra Singapore e una città più o meno delle stesse dimensioni come Penang. Singapore è una città interamente progettata dall’alto, l’incubo di Usi del disordine! Penang invece è costruita dal basso, su iniziativa locale, per cui, se si guarda in modo astratto, si trovano molte contraddizioni nel modo in cui è pianificata, ma è una città che funziona per le persone povere, mentre Singapore non funziona bene se non hai soldi. Quindi quello che penso è che l’informalità, che è complementare al disordine, è qualcosa a cui i pianificatori hanno guardato come se si trattasse di una pecca delle città del terzo mondo, mentre io lo guardo come una risorsa, è qualcosa da cui imparare in posti come Penang – o Lagos. Qui le persone che sono all’ultimo gradino della gerarchia economica riescono a tutti gli effetti a crearsi una buona vita, anche se spesso – anzi di solito – sono traditi dal governo centrale. Dunque credo che non sia solo un problema riguardante la città occidentale e che ci sono cose buone dell’informalità, cose che vengono represse, mentre darebbero loro vita, soprattutto in quei contesti.
PS: Se pensiamo ai motivi che rendono Londra una città attraente o almeno una città che si vuole visitare sono proprio cose che hanno avuto origine dal basso – cose come Portobello Market, il Notting Hill Carnival o molte delle scene culturali arrivano da lì. Il problema della pianificazione neoliberale è che prende in considerazione solo ciò che è economicamente valido, non riesce a riconoscere e apprezzare le iniziative che arrivano dal basso, se non per capitalizzarle, trasformandole in valore terreno. Queste iniziative sono sparite nel corso del tempo e credo sia importante anche per i developers e le autorità locali capire quale sia il valore di questi luoghi e perché sono l’essenza di Londra. Lo stesso accade in molte altre città, sia nel nord che nel sud del pianeta.
RS: C’è una questione qui di sostenibilità e tempo. Quando hai un piano per una città che è definito in modo rigido e dettagliato e la vita delle persone che la abitano cambia, allora quel piano diventa obsoleto, perché si perde la connessione tra forma e funzione e la città non può evolvere. Quando lavoravo per le Nazioni Unite – adesso che sono andato in pensione mi posso permettere di essere più critico – quando ci si chiedeva che relazione ci fosse tra come il posto si presentava e come funzionava, più la risposta voleva essere definitiva, più è probabile che si sia costruito qualcosa di obsoleto, come abbiamo visto in Cina. Si tratta di molto tempo fa, ma quando la Cina stava avviando il suo sviluppo le Nazioni Unite hanno contribuito costruendo abitazioni per le masse che vivevano in città. A quel tempo, però, la politica cinese era quella del figlio unico; quella politica oggi non solo ha prodotto un enorme problema di sostituzione dei lavoratori, ma ancora di più poiché le abitazioni sono state costruite esattamente per quel tipo di società lì, adesso devono essere in gran parte demolite, non possono essere riadattate. È forse la situazione la più drammatica di cui siamo a conoscenza – hanno costruito un ambiente molto specifico che non è più sostenibile – ma è un problema che continuiamo ad affrontare ancora nell’ambiente urbano. Va contro il tipo di buon senso borghese per cui sai cosa avrai, perché più lo sai meno durerà nel tempo. Per questo tipo di mentalità è difficile accettare un principio di indeterminatezza – e quello che trovo incredibile del lavoro di Pablo è che ha individuato le infrastrutture che permettono un adattamento continuo, mentre io mi ero occupato della teoria generale.
SM: Nel libro entrambi parlate a lungo dell’area di Hudson Yards – potremmo anche citare Kings Cross o Porta Garibaldi – e mi sembra un buon esempio di come gli edifici a uso misto non significhino di per sé mixité e che creare “spazio pubblico” possa significare ben poco. Come si può implementare il disordine in questi spazi?
PS: Credo che una delle sfide chiave che il libro prova ad affrontare sia come rendere città aperte posti che operano come città chiuse. In alcuni di questi sistemi bisogna essere più radicali perché hanno un grado molto alto di chiusura alta – per posti come Hudson Yards, privatizzati in maniera massiccia, può essere molto difficile intervenire. Quelli di cui parliamo nel libro sono piuttosto quelli pubblici o che hanno vari gradi di privatizzazione e rigidità: i primi interventi di rottura dell’ordine sono piccoli disequilibri e cambiamenti che portano poi a cambiamenti maggiori. Quando nel libro parlo di infrastrutture, parto con l’introduzione di alcune rotture e perturbamenti nella città chiusa preesistente, perché le aperture che si generano proseguono in ulteriori trasformazioni che permetteranno alle persone di operare cambiamenti, e questi cambiamenti andranno a creare una proprietà collettiva delle infrastrutture. Dipende dai singoli casi. In alcuni puoi avere bisogno di compiere varie rotture dell’ordine perché qualcosa torni a essere posseduta dalla collettività.
RS: Ho trovato molto interessante l’esperienza di WeWork, che potrebbe essere visto come l’emblema dei set up flessibili e informali. Quello che mi aveva colpito è che ogni tentativo di inserire all’interno di uno spazio di lavoro WeWork qualcosa di no-profit – il virus del non-redditizio – era negato. Ne ho un esempio vicino a dove lavoro a Londra: in quegli spazi non puoi inserire una clinica o una scuola; quel WeWork è per la maggior parte vuoto. È del tutto impensabile l’idea di un vero mix-use, che consiste nel combinare insieme qualcosa di redditizio e non redditizio in un unico posto; così quello che abbiamo è un business (WeWork) che si è sotterrato da solo. Questo è il tipo di sfida che affrontiamo; i problemi delle cosiddette gated community sono evidenti a tutti. Questo tipo di trasformazioni legate al lavoro sembrano più flessibili, ma non sono neanche trasformazioni. Parte del nostro programma verte su come il pubblico prende possesso dello spazio pubblico che è stato precedentemente privatizzato e la cui privatizzazione è nascosta dal capitalismo moderno. Come può il pubblico scardinare l’uso flessibile di spazi commerciali? Questa non è una questione idealista, siamo di fronte un’enorme compagnia che è finita in bancarotta perché non ha potuto pensare al di là della flessibilità come redditività.
SM: Recentemente ho letto una raccolta di saggi di Rem Koolhaas sulla “non più città”. In uno dei saggi, egli afferma che la smart city è stata inventata e presentata come la soluzione al futuro apocalittico dell’ambiente urbano. “Se si osserva il linguaggio visuale con cui la città intelligente viene rappresentata, si vede che è semplicistico, gli angoli sono smussati e i colori brillanti… I cittadini di cui la smart city afferma di essere al servizio vengono trattati come bambini”. Il contrasto con ciò che Sennett chiama “identità adulta”, per cui le persone imparano a negoziare e ad affrontare i conflitti, è impressionante. Le città intelligenti offrono soluzioni ma non hanno interesse ad aiutare a comprendere né le complessità né le conseguenti soluzioni. Mi piacerebbe chiedere al Professor Sennett di ampliare qualcosa di cui parla nell’appendice del libro, quando dice che nella società moderna le persone stanno perdendo la capacità di sentire che sono in grado di gestire situazioni complesse”. La smart city è una città opaca e ottusa in cui dobbiamo essere protetti. Ma da cosa e da chi – ed è vero?
Se le scelte vengono presentate alle persone in modo che possano prendere decisioni in modo responsabile, molto probabilmente le prenderanno – ma non è questo che intendiamo quando parliamo di smart city.
RS: Prendi in considerazione le cosiddette smart city, come Songdo in Corea del Sud in cui i tempi e le strade di percorrenza per le persone sono completamente programmate, supervisionate e centralizzate. Non c’è scelta, la vita è tutta irregimentata, sull’idea che se lasci la scelta alle persone, avrai uno spreco di energia e risorse, ma è un nonsense. Chiunque a Copenhagen può dirti che andare in bici è efficiente dal punto di vista energetico, ma la logica dello smart implica una non-democrazia. Ci sono tanti altri modi per essere smart, intelligenti: per esempio il MIT, dove insegno, usa risorse altamente tecnologiche per permettere alle persone di essere informate su come spostarsi, su quanta energia consumano e via dicendo e così prendere decisioni consapevoli, ma con l’idea di base che se alle persone si dà un’alternativa, in base alle circostanze saranno disposti a scegliere l’opzione più economica. La domanda, dunque, è come mettere le persone nelle condizioni di prendere questo tipo di decisioni. Nella tua generazione, le persone le hanno prese smettendo di guidare, per esempio, una cosa semplicissima per cui non c’è bisogno di tecnologie sofisticate, ma è vero che in altri casi, come per il riscaldamento domestico, per quel che ho visto dai miei colleghi al MIT, la questione si sposta sulla costruzione e i materiali. Se queste scelte vengono presentate alle persone in modo che possano prendere decisioni in modo responsabile, molto probabilmente le prenderanno – ma non è questo che intendiamo quando parliamo di smart! Parliamo di smart nel modo di Songdo, per dire che le tecnologie sofisticate elimineranno i problemi politici, che questa è la scelta giusta. Nel pensiero occidentale la persona che ha anticipato questo è Platone, con l’allegoria della caverna, in cui si ha a disposizione tecnologia sofisticata, ed è proprio quello che le persone vedono che li porta alla sottomissione, non è un problema nuovo! Una cosa che abbiamo capito al MIT è che le scelte prese dall’alto con l’uso di tecnologia high-tech sono molto più costose delle soluzioni bottom-up, hanno bisogno di maggiore regolazione, mappatura e sorveglianza. Lo smart è una scelta politica e non funzionale, insomma. Alle Nazioni Unite prima credevamo molto nell’high-tech, ma adesso preferiamo le soluzioni low-tech per l’energia.
SM: Permettere il disordine (che per me equivale a un libero uso di uno spazio pubblico condiviso) non è così facile, non avviene naturalmente come scrivete, in special modo quando il controllo sul suo uso è in qualche modo autoimposto o inculcato. Proprio rispetto a questi contesti in cui si eliminano gli attriti, Professor Sendra, in “Dalla carta al piano” dice che è necessario un unblack-boxing, cioè letteralmente esporre i sistemi infrastrutturali in modo che possano essere compresi e hackerati, nel senso di migliorati, adattati all’uso effettivo (e potenziale) di uno spazio stabilito. Come possiamo farlo?
PS: Nella città in cui viviamo non possiamo limitarci a progettare un luogo pubblico o aperto, con l’idea che questo lo diventi da sé, perché la città ha già un alto livello di rigidità che invece nel nostro lavoro urbano dobbiamo controbilanciare. Questo è il motivo per cui lavoro con le infrastrutture, per introdurre queste rotture nella città chiusa: lo voglio fare rendendo evidenti le infrastrutture, cosicché le persone possano essere consapevoli delle possibilità che lo spazio pubblico, in cui stanno, offre loro. Nelle illustrazioni che ho fatto per il libro faccio vedere alle persone come collegarsi all’elettricità o all’acqua: non si tratta solo di collegarsi, ma anche di sapere quali sono le possibilità a disposizione. Nella piazza londinese di cui parlo nel libro abbiamo dato accesso a vario tipo di attrezzatura, dall’audiovisivo a uno schermo per il cinema a arredamento sportivo da skate; le persone le possono prendere dai contenitori e metterle nello spazio, così da trasformare la piazza. Questo è un esempio di flessibilità dello spazio pubblico che proponiamo. Quella piazza prima era uno spazio molto chiuso, un parcheggio, ed è stato introducendo alcune di queste rotture che lo spazio chiuso è stato reso flessibile.
SM: Professor Sendra, lei divide il suo approccio alla pianificazione in sotto, sopra e disordine in sezione, cioè infrastrutture, paesaggio urbano e la relazione tra questi, che descriverei come accessibilità e varietà – di usi, persone, edifici. Ma in che modo questo è diverso dall’uso misto di cui abbiamo parlato prima?
Più che parlare di uso vario dovremmo parlare di varietà delle possibilità d’uso, creando spazi che abbiano caratteristiche diverse, che le persone possano usare in modo diverso.
PS: Mixed use è una buzzword che viene usata nella pianificazione, per cui se metti nello stesso posto tre usi diversi ottieni la diversità, ma non si limita a questo: è anche permettere la flessibilità, perché se hai tre usi molto rigidi che condividono lo spazio, si arriverà a quella obsolescenza di cui parlava Richard. Più che parlare di uso vario dovremmo parlare di varietà delle possibilità d’uso, e per permettere allo spazio di farlo bisogna creare spazi che abbiano caratteristiche diverse, cosicché le persone possano usarle in modo diverso, cambiarne l’aspetto.
RS: Un altro aspetto pratico è che molti progetti a uso misto nel centro di Londra condividono è che sono sequenziali invece che sincronici – questo significa ad esempio che di giorno hai uffici e la sera spazi per l’intrattenimento. Ogni cosa segue l’altra invece che accadere tutte insieme. Uno spazio è più efficiente e aperto quando le attività sono in sincrono anche perché questo permette una maggiore comprensione; se hai attività in sincrono nessuna di queste è autonoma, hai invece una frammentazione ai margini della consapevolezza delle singole persone, perché la loro attenzione non è diretta a una cosa sola. Questo è il principio dell’agorà, per cui se più cose accadono insieme il cittadino non è prigioniero dell’uso, hai invece sempre una comprensione periferica di qualcosa che accade e che può essere del tutto diversa da quello che stai facendo tu. Nelle teorie sociali questa è la differenza tra qualcuno come Hannah Arendt, per cui l’attenzione è ciò che dovrebbe accadere nello spazio pubblico, e Benjamin per cui l’attenzione era una specie di schiavitù – era molto interessato a cosa accade ai margini dell’attenzione, rispetto a quello che accade al centro. Penso di essere un buon benjaminiano, più che un arendtiano, anche se Arendt è la mia insegnante, ma sullo spazio pubblico c’è molto più da dire di quanto abbia fatto lei. Entra nella questione psicologica: tenere in considerazione cose diverse e che non stanno tutte bene insieme è stimolante dal punto di vista cognitivo.
SM: Non solo ti dà complessità, ma anche un’immagine di uso e di vita potenziale che magari non potresti conoscere.
RS: Questa è un’idea assolutamente benjaminiana! Le vite degli altri agli angoli della cognizione.
SM: La maggior parte dei passi descritti nel libro si realizzano nel tempo, il che significa che i pianificatori possono usare le strategie proposte da Sendra per implementare i loro piani, ma i risultati avverranno in un periodo di tempo molto più lungo. Come può agire chi progetta in questo senso?
PS: È qualcosa che ho provato a fare col mio lavoro di urbanista. Nel progetto di co-design dello spazio pubblico, ho costruito un’installazione temporanea dove tenere i workshop e riunire le persone per decidere come progettarlo e così via. In un caso, l’installazione è stata lì per un anno, in un altro per tre mesi. Nel primo, l’installazione è stata rimossa e sostituita con quella permanente, così hai il senso di processo. Nell’altro per la Westway invece, che è nel libro, ho lavorato più a stretto contatto con le persone del posto: ho arruolato quattro attivisti locali nel mio team per tenere i workshop insieme a me e mi hanno dato accesso a molte altre realtà della zona – i quattro attivisti erano di culture diverse e parlavano lingue diverse, così ho avuto accesso a una comunità molto più vasta e variegata. In quel caso il processo aveva tempi precisi e successivamente abbiamo lasciato il posto agli architetti che hanno costruito la struttura definitiva, ma il modo in cui il processo era stato pensato permetteva alle persone di rimanere aggiornate. Di base, bisogna eliminare l’idea del masterplan, che è una cosa a lungo termine che poi diventa proprietà di grandi developer in partnership con le autorità, per vedere se si possono implementare le cose in maniera incrementale.
RS: Quando ero a Penang lavoravo in un modo diverso. Il punto è che i progettisti sanno cose che i cittadini non sanno, perché non conoscono le questioni di idraulica, di infrastrutture, e la domanda è come fai a combinare questo sapere con una pratica democratica? Prima si chiamano gli esperti; questo lo specifico perché chi non ha esperienza come progettista di solito parte dalla posizione più conservatrice, da ciò che già sa, e se vuoi cambiarla devi dargli informazioni ulteriori. Nel caso della scuolaabbiamo prodotto quattro modelli diversi, modelli concreti che esponessero i vantaggi e gli svantaggi di ognuno, e poi, cosa fondamentale, si va via. Andarsene significa che sono le persone a prendere una decisione: noi abbiamo provato a fornirgli le informazioni e le alternative. Dopo di questo il processo di co-design si interrompe. Le persone poi possono aver preso la decisione giusta o quella sbagliata, ma è la loro. Sono scettico sulla possibilità del co-design fino alla fine, fino alla realizzazione, per me la decisione deve essere presa in assenza degli esperti. È un rischio – in India spesso hanno preso la decisione sbagliata, ma poi ci hanno dovuto convivere, perché è la loro. Questo è un modo migliore di progettare che provare a prevenire gli errori.