L’ inquadratura è in bianco e nero, un paesaggio di campagna: alberi spogli, uno specchio d’acqua, forse un lago, poi monti scuri e il sole basso all’orizzonte. Una mano, che inizialmente oscurava l’obiettivo, lo rivela dal nero dello schermo e continua a restare in campo, a intromettersi nella traiettoria che va dalla cinepresa al sole, schermando la vista. Gioca col sole, lo tiene tra indice e pollice come fosse una sfera minuscola e soffice, si passa i raggi tra le dita facendoli estinguere o avvampare fino a bruciare la pellicola. A un certo punto questa s’inverte, passa dal positivo al negativo, mentre la scena si ripete, la luce ora si spande come una foschia nerastra, che la mano continua a dosare finché, specularmente, torna a coprire l’obiettivo in una dissolvenza al bianco.
Appropriazione, a propria azione, azione propria – Sole in mano (1973) introduce il percorso di Luce movimento. Il cinema sperimentale di Marinella Pirelli (a cura di Lucia Aspesi e Iolanda Ratti, al Museo del Novecento di Milano fino al 25 agosto) e la semplicità con cui intreccia luce e gesto, paesaggio e corpo, riassume bene la ricerca di un’artista che dalla pittura all’installazione, attraverso il cinema, ha indagato le condizioni fisiche e affettive di un’esperienza del reale mediata dalla luce.
La distanza dal sole alla mano della filmmaker inquadrata dall’obiettivo si trasforma in uno spazio di gioco e riflessione: la cinepresa prolunga lo sguardo e la mano si fa a sua volta protesi della macchina, diaframma organico che inscrive nel film la presenza dell’artista. “Appropriazione” come afferrare il sole, ma anche appropriarsi del dispositivo, fare corpo con esso, filmare come “azione propria”, che agisce al contempo sulle proprietà elementari del mezzo (la dialettica tra luce e ombra, positivo e negativo).
Questa essenzialità gestuale caratterizza molti lavori di Marinella Pirelli. Film, sculture e installazioni sono esperienze di uno stesso occhio incarnato, immerso nell’istante e proiettato in trame luminose, fra rifrazioni e diffrazioni: corpi che assorbono e respingono la luce, ne sono attraversati e trasformati. Un cinema “sperimentale” nella tensione a far coincidere l’osservazione e l’esperienza, il sensuale e l’esistenziale, aderendo al corpo come un diaframma in cui il ruolo di regista, attrice e spettatrice si confondono, oppure espandendosi oltre il film, in un ambiente aperto, variabile e interattivo.
Il nome di Marinella Pirelli è tanto eufonico quanto misconosciuto, custodito da un percorso intimo e personale, un’orbita solitaria che ha intercettato importanti sviluppi nell’arte italiana tra anni Sessanta e Settanta e ha avuto un ruolo pionieristico in quello che all’epoca non si chiamava ancora expanded cinema, restando peraltro estranea al contesto in cui viene storicizzato il cinema sperimentale italiano.
Marinella Marinelli nasce a Verona nel 1925, studia a Belluno, a Padova s’iscrive a Lettere, che abbandona, perché intanto ha già cominciato a dipingere e scelto la sua strada. Si guadagna da vivere come illustratrice e figurista, nel 1948 si trasferisce a Milano, dove disegna anche costumi e scene per la compagnia teatrale Il Carrozzone, poi nel 1950 si sposta a Roma dove un anno dopo è assunta come disegnatrice alla Filmeco, casa cinematografica che produce film di animazione. Qui comincia a interessarsi al cinema, ne apprende il linguaggio e i rudimenti, studia alla moviola i film di Norman McLaren, il cui influsso si ritrova nelle animazioni a passo uno realizzate dieci anni dopo, Gioco di dama e Pinca e Palonca, suoi primi esperimenti cinematografici.
Frequenta l’ambiente artistico e cinematografico, quello che si ritrova all’osteria Menghi, dove nel 1952 conosce Giovanni Pirelli. Lui ha appena curato l’edizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza, è l’erede dell’omonima dinastia industriale, che ha rinunciato a guidare la ditta per diventare scrittore e storico, oltre che partigiano e socialista. Si sposano un anno dopo, hanno due figli, nel 1960 si stabiliscono a Varese, vicini a Milano (dove nello stesso anno l’artista tiene la sua prima personale), ma sempre in contatto con Roma, dove acquisterà in seguito uno studio. Fra le sponde di questa esistenza agiata – appartata, ma intrecciata al mondo artistico e intellettuale anche grazie all’attivismo poliedrico di Pirelli – inizia un decennio in cui a partire dalle esperienze col film 16mm la sua opera fiorisce prima di interrompersi bruscamente in seguito alla morte di Giovanni in un incidente d’auto nel 1973. Marinella Pirelli si ritira dalle scene, continua a dipingere e con l’inizio del millennio, il suo lavoro ritrova visibilità grazie ad alcune mostre, prima della morte nel 2009.
Come suggeriscono i titoli di alcuni studi girati nel paesaggio naturale, quelli che richiamano più direttamente la sua pittura e ne riprendono un motivo centrale, il fiore – Il lago soggettivo-oggettivo (1964-65), Da neve a rosa (1966) e Inter-vento (1969) –, i film di Marinella Pirelli esplorano una distanza, una tensione nel campo del visibile che innesca trasformazioni, scarti di prospettiva anche violenti: in Bruciare (1971) alcuni fiori in primo piano sono delicatamente seviziati da una sigaretta accesa, che brucia il lembo inferiore dei petali e provoca reazioni chimiche nei loro pigmenti, facendo comparire gocce vermiglie nel giallo di una cosmea, aloni celesti sul viola di una campanula.
I suoi esperimenti si risolvono in gesti precisi, intensi e diretti, una presenza fisica alla ripresa che diventa esplicita quando decide di utilizzare il cinema come specchio, strumento di auto-osservazione con cui raccontarsi e ricomporsi in uno sguardo decentrato. Realizzato all’epoca delle sedute di autocoscienza e soprattutto dopo l’incontro e l’amicizia con Carla Lonzi, Narciso, film esperienza (1966-67), è un reperto proto-femminista che Marinella sembra girare innanzitutto per sé, come rituale domestico e segreto, per rivedersi nel film proiettato mentre registra il monologo che costituisce la colonna sonora, in una performance raddoppiata che iscrive corpo e voce. La sera tardi, al buio nel suo studio (mentre i bambini dormono di sopra, come nota a un certo punto), l’artista si riprende mentre si sveste, guardando sempre nella cinepresa e quindi mostrando in soggettiva solo dettagli ravvicinati del proprio corpo, deformati dalla lente che inquadra la trama della pelle, le calze, le cosce, lo smalto rosso delle unghie, in un’esplorazione quasi tattile condotta in un’unica ripresa senza stacchi (il film dura 11 minuti, una bobina 16mm da 400 piedi).
Denudamento simbolico ripreso e approfondito nel flusso tortuoso di parole improvvisate al dittafono che s’interrogano, indugiano, divagano, quasi mimando le mosse della cinepresa, nello stesso tentativo di descriversi, reinquadrarsi, tenere a fuoco un’immagine di sé nell’ottica sfaccettata dell’intersoggettività. “Avere un magnetofono nel cervello”, mormora: lo stesso che Lonzi usava all’epoca nelle conversazioni con gli artisti che monterà in Autoritratto (1969), dove il gesto di ritrarsi è anche quello di farsi indietro, rinunciare alla propria posizione di potere, lasciando spazio all’automatismo della registrazione, all’identità fluida, polifonica che si forma nel dialogo con l’altro. Nelle parole con cui l’artista commenta Narciso in occasione della sua presentazione pubblica (che avviene solo nel 1974) risuona un’urgenza esistenziale affine a quella che guiderà Lonzi lontano dalla critica d’arte dopo Autoritratto: “Non so essere critica; non so essere regista di me stessa e nemmeno attore. So solo essere in quel momento che sono e sento e vivo, […] essere attento al proprio divenire, vivere contemporaneamente in modo oggettivo e soggettivo, ma in modo fisico, non intellettualistico.”
I film di Marinella Pirelli esplorano una distanza, una tensione nel campo del visibile che innesca trasformazioni, scarti di prospettiva anche violenti.
Il sottotitolo “film esperienza” sembra esplicitare questa spinta a situarsi nel momento vissuto attraverso la percezione straniata dal dispositivo, paradosso fecondo in cui s’intuisce la temporalità aderente e sfasata rispetto all’azione che caratterizzerà il nesso tra corpo e medium elettronico, tra performance e videoarte nel decennio seguente. Rispetto al contesto dell’epoca, tuttavia, questo interesse per la componente temporale dell’opera entra piuttosto in risonanza con quello dell’arte ottica e cinetica: opere concepite come strutture in divenire continuo e aleatorio, che utilizzano luci artificiali, materie plastiche, motori, campi elettromagnetici.
Evento storico che afferma il movimento in Italia è la mostra “Arte programmata” organizzata da Bruno Munari nel maggio del 1962 presso il negozio Olivetti in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, dove espongono i milanesi del Gruppo T, i padovani del Gruppo Enne insieme a Enzo Mari e allo stesso Munari. Ed è proprio Munari a stimolare la fascinazione di Marinella Pirelli per questo mondo e a condividere con lei le sue esperienze con la “pittura proiettata”, a cui si dedica dagli anni Cinquanta come sviluppo immateriale e dinamico del piano pittorico. Nelle “proiezioni dirette” e in quelle “multifocali”, ad esempio, Munari proietta attraverso telaietti da diapositive in cui ha assemblato frammenti di pellicole trasparenti, plastiche colorate e fibre varie. In quelle “polarizzate”, inserendo del materiale incolore tra due filtri polarizzanti e ruotandoli per variare il grado d’incidenza della luce, rivela un caleidoscopio di variazioni cromatiche in un semplice pezzo di cellophane. Quest’ultimo metodo viene registrato nel 1963 anche nel film I colori della luce, con cui Munari inaugura insieme al regista Marcello Piccardo la produzione sperimentale dello Studio di Monte Olimpino, dal nome della collina nei dintorni di Como, che per un decennio realizzerà film di ricerca e d’informazione pubblicitaria in cui l’interesse scientifico per le proprietà del film si accompagna alla fascinazione per le sue possibilità plastiche.
Ma il primissimo lavoro a uscire dallo Studio comasco è proprio un documentario sulla mostra “Arte programmata”, commissionato dalla stessa Olivetti che ha prodotto l’intero evento. Il film nei primi minuti introduce alcuni artisti mentre progettano le opere nel loro studio e per il resto si preoccupa soprattutto di cogliere la presenza e le reazioni dei visitatori di fronte agli oggetti esposti. Inquadrature quasi didattiche che ribadiscono come l’ispirazione cibernetica di un’arte “programmata” mirasse al coinvolgimento del fruitore in una lettura aperta e moltiplicata dell’opera.
I film girati da Marinella Pirelli nello stesso tipo di contesto sono una prosecuzione e una provocazione di quei principi, che inserendosi nella tensione tra “programma” e “opera aperta” offre una sorta di rovescio di quelle inquadrature: lo sguardo di un’artista-osservatrice che interpreta il “programma” dell’opera. Luce movimento (1967), il primo dei film realizzati in occasione di una mostra, qui la collettiva “Luce Movimento in Europa” alla Galleria dell’Ariete di Milano, non si limita a documentare l’esposizione, ma muovendosi decisamente nel territorio del film astratto, fa interagire i movimenti e l’ottica della cinepresa con le superfici statiche o mobili delle opere di Grazia Varisco, Bruno Munari, Gianni Colombo, Lucio Fontana e Gino Marotta.
A una personale di quest’ultimo nella stessa galleria, Marinella Pirelli dedicherà un altro film, Artificiale Naturale (1968). I motivi vegetali fissati nelle silhouette delle sculture in metacrilato di Marotta costituiscono un’attrazione per la filmmaker, che li interpola anche a inquadrature di veri fiori, ma il suo interesse è soprattutto per il materiale “trasparente e polarizzante, con quelle superfici fatte di pure variazioni luminose.” Le sculture sono in fondo solo un “pretesto” per liberarne le forme attraverso il film in un’esperienza soggettiva e autonoma, che il critico e cineasta Erik Bullot, nell’approfondita filmografia inclusa nel catalogo della mostra, definisce “film esposizione”, in cui prosegue l’esplorazione ottica delle superfici del “film esperienza”, ma si prepara anche l’espansione nello spazio del “film ambiente”.
Gli ultimi due film dedicati all’arte sono appunto legati a questo sviluppo. Al di là della pittura (1969) documenta l’omonima Biennale d’Arte Contemporanea che riuniva artisti cinetici e concettuali a Benedetto del Tronto nell’estate del 1969. Un film meno astratto, vivace e giocoso nel modo in cui la regista coglie la presenza degli altri artisti e associa nel montaggio le opere a dettagli colti all’esterno dell’esposizione. Marinella Pirelli è presente non solo come osservatrice, ma per esporre l’installazione Film Ambiente, presentata a Milano alla Galleria De Nieubourg nel febbraio dello stesso anno: una struttura modulare, un parallelepipedo composto da tubi d’acciaio e teli trasparenti serigrafati che viene inondato dalla proiezione di un film il cui fascio luminoso colpisce angolarmente la struttura, diffondendosi e moltiplicandosi geometricamente attraverso il reticolo dei teli.
Il film proiettato è Nuovo paradiso (1968-69), che riprende un’altra volta le sculture di Marotta, ma ormai con l’intento di proiettarle e dissolverle nell’installazione. Film Ambiente combina così due approcci risolvendo in modo dialettico la tensione tra film e oggetto: da una parte una lettura cinetica della scultura mediante l’immagine bidimensionale del film, dall’altra la proiezione di questo in un oggetto a quattro dimensioni percorribile e modificabile. I visitatori possono infatti attraversare il volume su cui il film è proiettato, contribuendo con la loro presenza e il movimento alla variazione degli effetti visivi e anche di quelli sonori, dato che nell’installazione originale un sistema progettato da Livio Castiglioni sfrutta gli impulsi luminosi ricevuti da sensori montati sulla struttura traducendoli in suoni elettronici in base alla lunghezza d’onda. Il corpo al centro del “film esperienza” si ritrova ora dall’altra parte della lente, immerso nella luce della proiezione.
Negli anni seguenti l’artista continua a progettare installazioni (solo alcune effettivamente prodotte) che combinano elementi scultorei e proiezioni. Costruisce oggetti in cui sorgenti luminose motorizzate scorrono dietro strati colorati di metacrilato, variandone intensità e sfumature, nelle serie delle “Meteore”, oppure, in quella delle “Pulsar”, sono assemblate a lenti, specchi e prismi, che a seconda di distanze e incidenze proiettano sulle pareti dello spazio spettri cromatici mutevoli. Le foto e i progetti di questi lavori, rendono una sospensione metafisica che ricorda alcuni “Ambienti spaziali” creati da Lucio Fontana con neon e fari ultravioletti, e proprio la sua concezione “spaziale”, che rimanda tanto all’esplorazione della terza dimensione quanto a quella del cosmo, sembra evocata nei nomi scelti per queste serie, quelli di corpi luminosi labili e intermittenti.
Per restare fedeli a questa ispirazione astronomica, potremmo definire l’ultimo film concluso dall’artista, Doppio Autoritratto (1973-74), un’eclisse, un momento di svelamento e occultamento in cui torna a riprendere se stessa, questa volta alternando riprese ravvicinate e confuse con la camera a mano a inquadrature fisse, in cui il volto compare in una posa distanziata da ritratto: in entrambi i casi non guarda attraverso l’obiettivo. Come accadeva in altri film, le soluzioni di continuità sono sottolineate da bruschi scarti della colonna sonora tra musica elettroacustica e arie barocche. La filmmaker rinuncia al controllo della cinepresa, ponendosi contemporaneamente al centro della rappresentazione e nel suo punto cieco, in un rincorrersi interminabile di sguardo e presenza, sigillato dalle parole “Quando mi vidi non c’ero”, che costituiscono un altro paradossale Autoritratto (1971), quello di Vincenzo Agnetti.
Le uniche altre parole sono quelle della didascalia a inizio del film, un cartoncino dattilografato datato gennaio 1974, neanche un anno dalla morte di Giovanni. Si conclude così: “La cinepresa era il mio partner: ognuno di voi è ora il mio partner.” L’artista prefigura l’abbandono del suo “partner” meccanico, proprio mentre elabora la recente scomparsa di quello di vita: un ultimo gesto con cui posa la cinepresa e si consegna a noi in immagine.